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Autore: 13Sonne    10/08/2008    3 recensioni
Ko Rah è una ragazza asociale, poco incline al contatto umano: Al Aki è suo fratello maggiore, leggermente eccentrico ma allegro ed espansivo.
Insieme decidono (o, per meglio dire, Aki decide) di iscriversi ad un torneo insieme ad altri milioni di partecipanti: il premio finale è la realizzazione di un desiderio.
"Non farmi scegliere fra me e il mio desiderio. Lo sai che non avrei dubbi."
Genere: Generale, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3 los
Capitolo Due

ovvero

Madamoiselle Ko Rah, la sua pazienza e la bellezza nascosta nella parola dannazione

Ko Rah non accennava a parlare. La coda di fronte al bancone della locanda si stava accorciando lentamente- troppo lentamente, per una ragazza che non sopportava essere in una stanza con più di due persone.
Mugugnò qualcosa fra sè e sè, continuando ad ignorare l’uomo che, dietro di lei, continuava a parlare: nella mente della diciassettenne quelle continue chiacchiere divenivano distorti rumori di sottofondo che, per quanto non comprendesse, limavano sempre di più la sua calma.
Emise un sospiro che ricordò un ringhio quando si rese conto che mancavano solo tre persone perché arrivasse finalmente il suo turno. Doveva ringraziare il fratello se, dopo due ore, ancora non aveva trovato posto in una taverna: il ragazzo infatti si era completamente dimenticato di rivelarle dove aveva avuto intenzione di dormire- o anche solo se aveva riservato una camera. Così la ragazza aveva dovuto entrare in ogni locanda della contrada, chiedendo se fosse stata riservata una camera sotto nome ‘Lari’ o, al massimo, se ci fosse un letto libero.
Quella era l’ultima taverna rimasta, ed ovviamente aveva la fila più lunga: a quanto pareva era l’unica ad avere ancora delle camere libere.
“E tu?” chiese infine l’uomo dietro di lei, riportandola alla realtà.
Ko Rah mugugnò qualcosa, non cercando minimamente di dare un senso logico alle proprie parole.
L’uomo insistette, cercando di dare l’impressione che, dopo due ore in cui non aveva fatto altro che rivelarle la sua vita, i suoi sogni e quanto fosse ovvio che avrebbe vinto il torneo, gli importasse davvero del perché la ragazza fosse lì.
“Saprai, ovviamente, perché sei qui, no?” Disse infine, dando a quella frase un tono a metà fra il divertito e l’incuriosito. Più il primo che il secondo, a dire il vero.
Ko Rah si voltò appena verso di lui, senza degnarsi di staccare lo sguardo dal bancone che, oramai, era solo a pochi centimetri di distanza. “No.”

L’uomo – doveva chiamarsi Hel… Helker? – rimase a fissarla, stupito dalla risposta, e lei finalmente fece un passo in avanti.
Il padrone della taverna arrossì ancora prima che la giovane potesse parlare: il solo udire la risatina imbarazzata dell’uomo le fece galleggiare la mente in un mare di dolorosa irritazione.
“Piccola,” disse l’uomo, senza accorgersi dell’istantaneo guizzo d’odio che la sola parola aveva causato nella ragazza, “mi dispiace, ma ora siamo pieni.”
La ragazza ringhiò sottovoce, cercando di mantenere la calma: il suo cervello stava dicendole di voltarsi, uscire dalla taverna e cominciare a strillare fino a che il fratello non fosse comparso alla sua presenza, per poi distruggerlo con le proprie nude mani.
Si trattenne: alzò lo sguardo per incontrare gli occhi del locandiere e, con voce roca, parlò.
Immagino che non ci sia nulla da fare.”
La frase, mascherata come una cortese constatazione, era in realtà un ovvio campanello d’allarme: il tono con cui era stato pronunciato ‘immagino’ lasciava infatti presumere quanto i nervi della ragazza stessero per cedere.
Il locandiere passò in rassegna qualcosa sotto il bancone, assumendo una smorfia di disappunto.
“Forse,” mormorò l’uomo, incerto, “forse c’è una camera.”
La ragazza rimase immobile, senza proferire verbo.
“La camera è prenotata sotto il nome Stern Mann,” continuò lui, titubante. La ragazza non accennò a muoversi. “Tuttavia doveva arrivare due ore fa. La camera è tua.”
Ko Rah fece un vago cenno con la testa, porgendo la mano destra, solo per venire poi spinta a terra dall’uomo appena dietro di lei.
“Sono io Stern Mann!” gridò lui, strappandogli quasi di mano la chiave. Il locandiere rimase a fissarlo, sorpreso, ma poi si riscosse facendo un debole sorriso.
“Le… auguro una buona notte, allora.”

 

.:,-*-,:.

 

Helter, arrivato in cima alle scale, si stiracchiò, stanco per la giornata.
Sorrise fra se e se, giocherellando con le chiavi, immerso nei propri pensieri: probabilmente già pregustava la nottata di puro riposo che l’aspettava, oppure era proiettato più in là nel tempo, immaginandosi quando, dopo aver vinto il torneo, avrebbe riabbracciato la propria amata.
Alzò lo sguardo, cercando la propria camera: dovette socchiudere gli occhi per tentare di mettere a fuoco i numeri incisi nel legno delle porte, ma trovò quasi subito la 303.
“Quella è la mia stanza.”
Sobbalzò, portando la mano ad un pugnale e puntandolo al collo di chi aveva appena tentato di spaventarlo.
S’irrigidì, sorpreso. “Ragazzina?”
Ko Rah non si mosse. Gli occhi erano puntati contro di lui in uno sguardo colmo di malcelata irritazione, per nulla preoccupata dalla lama che era appoggiata contro il collo.
Helter aggrottò la fronte, perplesso: l’ultima volta che aveva visto la ragazzina era al pian terreno, sdraiata a terra per la spinta che le aveva dato. Com’era possibile che lo avesse raggiunto in così poco tempo, in completo silenzio?
“Il tuo nome,” continuò lei, sottolineando ogni parola con quanto più astio le fosse possibile, “non è Stern Mann.”
L’uomo piegò le labbra in un sorriso di scherno, riportando il pugnale nel fodero. Dire che la ragazza era arrabbiata era poco: sotto quell’apparente freddezza era nascosto un campo di mine- un passo falso e probabilmente sarebbe esplosa.
Scrollò le spalle, cercando di apparire mortificato: gli riuscì solo una smorfia divertita. “Io mi merito quella stanza, piccola.”
Un lampo di pura furia attraversò gli occhi di Ko Rah mentre questa stringeva i pugni così forte che avevano preso a tremare senza controllo.
“Aww,” disse Helter, intenerito, prima di darle una leggera carezza sulla testa, “sei un amore.”
Poi si voltò, bagaglio in spalla e chiave in mano, per entrare nella sua ambita camera.

 

:.*,..,*.:

 

Chiuse la porta dietro di se, guardandosi attorno.
La stanza era accogliente, anche se leggermente spartana. Non vi erano particolari decorazioni, nulla di più di un letto, un tavolo, una sedia e delle candele per illuminare l’ambiente.
Appoggiò la propria borsa a terra, sfregandosi le mani soddisfatto. La camera era riscaldata, probabilmente grazie al calore delle cucine, e per una notte non poteva sicuramente lamentarsi.
Si tolse il mantello, appoggiandolo sul letto, mentre con gli occhi cercava dove fosse il bagno: lo trovò subito, contando che era pochi metri d’innanzi a lui, alla sua destra.
Si avvicinò alla porta, facendo una smorfia al pensiero di quanto dovesse essere sporco: aveva sicuramente bisogno di darsi una rinfrescata, prima di andare a dormire.
Aprì la porta, prendendo un colpo quando vide che qualcuno lo stava guardando: fu solo dopo pochi secondi che finalmente si rese conto che era solo uno specchio.
“Stanco,” mormorò Helter, ridacchiando nervosamente, “solo stanchezza.”
Aveva bisogno di acqua fredda: sì, ormai stava dormendo in piedi. Aveva solo bisogno di svegliarsi un pochino.
Aprì il rubinetto, dando un’ultima, sospettosa occhiata allo specchio: si era davvero spaventato per nulla, ed avrebbe dovuto metterci alcuni minuti per ritornare calmo.
Era ridicolo, certo.
Prima di abbassare il volto per inumidirsi la fronte diede un ultimo sguardo allo specchio, inquieto, trovandosi a fissare due occhi dorati.
Per un secondo gli sembrò che gli mancasse la terra da sotto i piedi. Non riusciva a pensare a nulla: il terrore aveva preso il posto di ogni pensiero coerente.
Si voltò, pronto a gridare, ma si trovò a fissare il vuoto.
Un’allucinazione. Dalle labbra di Helter uscì, a fatica, una risatina isterica: solo un’allucinazione.
“Stanchezza,” borbottò a sottovoce, tentando disperatamente di tranquillizzarsi. Si girò di nuovo verso il lavandino, incerto se sciacquarsi la fronte o cercare il conforto nel sonno: alla fine decise per la seconda, chiudendo il rubinetto.
Alzò lo sguardo, distratto, e si sentì morire dentro.

Non poteva essere un’allucinazione. Non poteva esserselo immaginato. Non poteva esserci stato prima.
Continuava a tremare, Helter, mentre il suo sguardo spaventato saltava da una sillaba all’altra della frase.

La camera è mia.

Gli sembrava persino di sentire la voce della ragazzina, mentre, nella sua mente, le sillabe assumevano quell’ordine.
Per pochi secondi la voce fredda ed arrabbiata della ragazza continuò a rimbombargli nella mente, ripetendo quella frase ad oltranza: poi la luce delle candele tremò per un’istante, e quando il cuore di Helter riprese a battere Ko Rah era apparsa accanto a lui, i pugni stretti e le labbra serrate.
“La camera,” mormorò lei, atona, “è mia.”

Il momento dopo Helter era appoggiato contro la porta, tentando di chiudere la ragazza all’interno.
I suoi sforzi furono vani: la porta venne aperta con così tanta forza che l’uomo si trovò a volare contro il proprio letto. 

“La camera è mia,” ringhiò Ko Rah, il braccio disteso in avanti reso improvvisamente rigido e la mano chiusa a pugno.
Helter gridò, terrorizzato: strane scintille avevano preso a danzare attorno al pugno chiuso della ragazza, e un’inquietante ronzio aveva cominciato ad avvertirsi in sottofondo. 

“La camera,” ringhiò nuovamente la ragazza, socchiudendo gli occhi in uno sguardo omicida mentre un alone violetto si formava attorno a lei, “è mia.”

“Va bene!”
Helter si buttò sulla chiave, lanciandola poi contro la ragazza: anche se questo movimento era stato fatto con disperazione, nel tentativo di farle del male, la chiave semplicemente si materializzò nel palmo sinistro di Ko Rah.
Qualcosa di simile ad un ghigno di soddisfazione si fece strada sul volto di Ko Rah, mentre portava la chiave alla tasca: Helter, dal canto suo, era troppo occupato a non scoppiare a piangere per fare altro oltre a prendere la borsa e guadagnarsi la porta.

“Cosa speri di fare?”
L’uomo si raggelò, senza riuscire ad appoggiare la mano alla maniglia. La ragazza non aveva ancora finito?
Cos’altro voleva da lui?
 

“Pensi davvero,” Ko Rah calcò la parola di una crudele ironia, prima di continuare, “di poter vincere quando non sei nemmeno stato capace di tenerti una chiave?”

Helter si morse il labbro, appoggiandosi al muro. Lei fece un passo in avanti, mortalmente seria nel suo discorso. “Le persone devono capire quando fermarsi.” 

Fece un nuovo passo in avanti, assumendo nuovamente l’aura violacea. “Le persone devono capire quando è ridicolo continuare.”

“I-io,” balbettò Helter, spaventato. Gli stava dicendo che non aveva alcuna speranza, però non riusciva ad essere arrabbiato: la paura stava a poco a poco lasciando spazio alla disperazione più cupa, sotto gli occhi attenti della diciassettenne che continuava a fissarlo, neutra.
“V-voglio solo che m-mia moglie possa t-tornare d-da me.” 

“Non è possibile.” La frase era stata detta con un tono così freddo da recidere qualsiasi speranza rimastagli, senza possibilità di guarigione.
“Ma,” cominciò lei, facendo un nuovo passo in avanti, trovandosi ormai a pochi centimetri da Helter.
Era molto più bassa di lui, eppure, fra i due, quella che dominava l’altro era lei. “Se lei non può raggiungere te, tu puoi raggiungere lei.” 

La disperazione, come un veleno, gli aveva raggiunto il cuore, facendolo marcire senza alcuna pietà: il dolore fu così forte, così terribile che gli occhi gli si riempirono di lacrime.
In quel momento non contava più cosa voleva fare, ma soltanto come farlo smettere.

 

-+:.:*:.:+-

 

Al Aki era felice di non dover portare i bagagli. La sorella, nella breve oretta in cui il ragazzo era occupato a salvare la propria anima, era semplicemente scomparsa così lui aveva speso quasi tutto il proprio tempo a chiedere in ogni taverna se l’avessero vista.
In molti rispondevano che non ricordavano, altri dicevano che sì, l’avevano vista, ma non risiedeva da loro.
Così, girando e comprando alcuni piccoli souvenir, comprese che mancava solo una locanda e che Ko Rah doveva per forza essere lì: da quello che aveva sentito in paese, poi, era anche l’unico posto ad essere abbastanza grande da avere ancora delle stanze libere la vigilia dell’inizio del torneo.
C’era una doppia speranza, alla fine: quella di trovare la sorella e quella di trovare una camera. Nel suo geniale piano, infatti, era presente l’idea del riposare, non del dove.

Era ormai alla locanda, con due borse di vestiti e amenità varie fra le mani, quando qualcosa fece un fracasso tremendo alle sue spalle.
Il povero ragazzo si buttò a terra, borse e braccia aattorno alla testa, temendo il peggio: ci mise alcuni minuti per capire che stava abbastanza bene e che null’altro sembrava in procinto di cadere.
Si alzò in piedi, borbottando qualcosa sottovoce, quando si rese conto che c’era della gente che continuava ad indicarlo.
Tentò di pulirsi una guancia con una manica, riuscendo soltanto a sporcarsi ancora di più di polvere: allora alzò un braccio, tentando di far capire che gli dispiaceva ma non poteva farci nulla.
La gente lo ignorò, continuando a borbottare qualcosa con aria scandalizzata.
Al Aki aggrottò la fronte, leggermente offeso. Era piuttosto rude ignorare così una persona che tentava di instaurare una discussione.
Sbuffò, scuotendo la testa, e finalmente l’occhio gli cadde su ciò che era caduto.

La bocca gli si spalancò istintivamente, dando, assieme agli occhi sgranati, la perfetta idea di quanto il suo cervello fosse stato reso fuori uso dalla sorpresa.
Un uomo era atterrato su un carro di fieno: per quanto vi fosse la remota possibilità che fosse ancora vivo, il sangue e, in generale, la posizione scomposta del corpo gli lasciarono intendere che tale probabilità era molto distante.
“Uh…” Al non sapeva cosa dire, mentre dei guaritori si facevano avanti, tentando di capire quali fossero le condizioni dell’uomo.
“…Ehilà.” Disse infine con forzato entusiasmo. 
Il suo saluto fu perso nel vuoto.

 

--.;*;.--

 

“Coco, hai trovato una camera!”
Ko Rah mugugnò appena, senza minimamente alzare lo sguardo dal suo beneamato Wired.
Al Aki sorrideva, chiudendo la porta dietro di se con un calcio: la ragazza aggrottò leggermente la fronte, notando che quello era una delle ennesimi irritanti abitudini del fratello.
“Ho comprato dei vestiti,” continuò lui, alzando le due borse e appoggiandole al tavolo.
Lei borbottò qualcosa in risposta, facendo un cenno con la testa per fargli capire che aveva recepito il messaggio.
Al Aki prese un completo nero, elegante quanto di buon gusto. Lo appoggiò su se stesso, specchiandosi poi allo specchio per vedere come poteva stare.
Ridacchiò, felice come un bambino. “Ehi, Coco, ti va di darmi alcuni pareri su quello che ho comprato?”
La ragazza alzò gli occhi al cielo, sbuffando.
“Grazie! Sai,” cominciò, prendendo un altro completo dalla borsa, “pensavo che fosse ridicolo spendere soldi per queste… uh… hm… cose. Tuttavia, ecco, stavo pensando che… cioè,” ridacchiò, allegro, “non ho mai avuto occasione di prendere tutti questi vestiti e, insomma, non sono adorabili?!”
Immagino,” ringhiò la ragazza, mentre l’occhio sinistro era preda di un tic nervoso.

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Nota d'Autore: mhm. Non mi piace molto come è venuto. Mi dispiace.

Vitani, tu mi onori con le tue recensioni e...grazie ^O^ davvero. I commenti riescono a curare le ferite mai sanate che la mia autostima mi inflisse prima di fuggire con gli argenti.

Fofolina, grazie. Sono felice che ti piaccia e... bhè, ho fatto il disegno solo per te XD se a qualcun'altro interessa, il disegna è fra gli originali del forum. COOMUNQUE. Grazie. Aki è un tesoro OçO ed ovviamente potrò concedertelo quando non deve recitare... se gli dai i vestitini belli *_*

Ok. Grazie a chi legge. ^O^

  
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