ovvero
Madamoiselle Ko Rah, la sua pazienza e la bellezza nascosta nella parola dannazione
Ko Rah non accennava a parlare. La coda di fronte al bancone
della locanda si stava accorciando lentamente- troppo lentamente, per una
ragazza che non sopportava essere in una stanza con più di due persone.
Mugugnò qualcosa fra sè e sè, continuando ad ignorare l’uomo
che, dietro di lei, continuava a parlare: nella mente della diciassettenne
quelle continue chiacchiere divenivano distorti rumori di sottofondo che, per
quanto non comprendesse, limavano sempre di più la sua calma.
Emise un sospiro che ricordò un ringhio quando si rese conto
che mancavano solo tre persone perché arrivasse finalmente il suo turno. Doveva
ringraziare il fratello se, dopo due ore, ancora non aveva trovato posto in una
taverna: il ragazzo infatti si era completamente dimenticato di rivelarle dove
aveva avuto intenzione di dormire- o anche solo se aveva riservato una camera.
Così la ragazza aveva dovuto entrare in ogni locanda della contrada, chiedendo
se fosse stata riservata una camera sotto nome ‘Lari’ o, al massimo, se ci
fosse un letto libero.
Quella era l’ultima taverna rimasta, ed ovviamente aveva la
fila più lunga: a quanto pareva era l’unica ad avere ancora delle camere
libere.
“E tu?” chiese infine l’uomo dietro di lei, riportandola
alla realtà.
Ko Rah mugugnò qualcosa, non cercando minimamente di dare un
senso logico alle proprie parole.
L’uomo insistette, cercando di dare l’impressione che, dopo
due ore in cui non aveva fatto altro che rivelarle la sua vita, i suoi sogni e
quanto fosse ovvio che avrebbe vinto il torneo, gli importasse davvero del
perché la ragazza fosse lì.
“Saprai, ovviamente, perché sei qui, no?” Disse infine,
dando a quella frase un tono a metà fra il divertito e l’incuriosito. Più il
primo che il secondo, a dire il vero.
Ko Rah si voltò appena verso di lui, senza degnarsi di
staccare lo sguardo dal bancone che, oramai, era solo a pochi centimetri di
distanza. “No.”
L’uomo – doveva chiamarsi Hel… Helker? – rimase a fissarla,
stupito dalla risposta, e lei finalmente fece un passo in avanti.
Il padrone della taverna arrossì ancora prima che la giovane
potesse parlare: il solo udire la risatina imbarazzata dell’uomo le fece
galleggiare la mente in un mare di dolorosa irritazione.
“Piccola,” disse l’uomo, senza accorgersi dell’istantaneo
guizzo d’odio che la sola parola aveva causato nella ragazza, “mi dispiace, ma
ora siamo pieni.”
La ragazza ringhiò sottovoce, cercando di mantenere la
calma: il suo cervello stava dicendole di voltarsi, uscire dalla taverna e
cominciare a strillare fino a che il fratello non fosse comparso alla sua
presenza, per poi distruggerlo con le proprie nude mani.
Si trattenne: alzò lo sguardo per incontrare gli occhi del
locandiere e, con voce roca, parlò.
“Immagino che non
ci sia nulla da fare.”
La frase, mascherata come una cortese constatazione, era in realtà
un ovvio campanello d’allarme: il tono con cui era stato pronunciato ‘immagino’
lasciava infatti presumere quanto i nervi della ragazza stessero per cedere.
Il locandiere passò in rassegna qualcosa sotto il bancone,
assumendo una smorfia di disappunto.
“Forse,” mormorò l’uomo, incerto, “forse c’è una camera.”
La ragazza rimase immobile, senza proferire verbo.
“La camera è prenotata sotto il nome Stern Mann,” continuò
lui, titubante. La ragazza non accennò a muoversi. “Tuttavia doveva arrivare
due ore fa. La camera è tua.”
Ko Rah fece un vago cenno con la testa, porgendo la mano
destra, solo per venire poi spinta a terra dall’uomo appena dietro di lei.
“Sono io Stern Mann!” gridò lui, strappandogli quasi di mano la
chiave. Il locandiere rimase a fissarlo, sorpreso, ma poi si riscosse
facendo un debole sorriso.
“Le… auguro una buona notte, allora.”
.:,-*-,:.
Helter, arrivato in cima alle scale, si stiracchiò, stanco
per la giornata.
Sorrise fra se e se, giocherellando con le chiavi, immerso
nei propri pensieri: probabilmente già pregustava la nottata di puro riposo che
l’aspettava, oppure era proiettato più in là nel tempo, immaginandosi quando,
dopo aver vinto il torneo, avrebbe riabbracciato la propria amata.
Alzò lo sguardo, cercando la propria camera: dovette
socchiudere gli occhi per tentare di mettere a fuoco i numeri incisi nel legno
delle porte, ma trovò quasi subito la 303.
“Quella è la mia stanza.”
Sobbalzò, portando la mano ad un pugnale e puntandolo al
collo di chi aveva appena tentato di spaventarlo.
S’irrigidì, sorpreso. “Ragazzina?”
Ko Rah non si mosse. Gli occhi erano puntati contro di lui
in uno sguardo colmo di malcelata irritazione, per nulla preoccupata dalla lama
che era appoggiata contro il collo.
Helter aggrottò la fronte, perplesso: l’ultima volta che
aveva visto la ragazzina era al pian terreno, sdraiata a terra per la spinta
che le aveva dato. Com’era possibile che lo avesse raggiunto in così poco
tempo, in completo silenzio?
“Il tuo nome,” continuò lei, sottolineando ogni parola con
quanto più astio le fosse possibile, “non è Stern Mann.”
L’uomo piegò le labbra in un sorriso di scherno, riportando
il pugnale nel fodero. Dire che la ragazza era arrabbiata era poco: sotto
quell’apparente freddezza era nascosto un campo di mine- un passo falso e
probabilmente sarebbe esplosa.
Scrollò le spalle, cercando di apparire mortificato: gli
riuscì solo una smorfia divertita. “Io mi merito quella stanza, piccola.”
Un lampo di pura furia attraversò gli occhi di Ko Rah
mentre questa stringeva i pugni così forte che avevano preso a tremare senza
controllo.
“Aww,” disse Helter, intenerito, prima di darle una leggera
carezza sulla testa, “sei un amore.”
Poi si voltò, bagaglio in spalla e chiave in mano, per
entrare nella sua ambita camera.
:.*,..,*.:
Chiuse la porta dietro di se, guardandosi attorno.
La stanza era accogliente, anche se leggermente spartana.
Non vi erano particolari decorazioni, nulla di più di un letto, un tavolo, una
sedia e delle candele per illuminare l’ambiente.
Appoggiò la propria borsa a terra, sfregandosi le mani
soddisfatto. La camera era riscaldata, probabilmente grazie al calore delle
cucine, e per una notte non poteva sicuramente lamentarsi.
Si tolse il mantello, appoggiandolo sul letto, mentre con
gli occhi cercava dove fosse il bagno: lo trovò subito, contando che era pochi
metri d’innanzi a lui, alla sua destra.
Si avvicinò alla porta, facendo una smorfia al pensiero di
quanto dovesse essere sporco: aveva sicuramente bisogno di darsi una
rinfrescata, prima di andare a dormire.
Aprì la porta, prendendo un colpo quando vide che qualcuno
lo stava guardando: fu solo dopo pochi secondi che finalmente si rese conto che
era solo uno specchio.
“Stanco,” mormorò Helter, ridacchiando nervosamente, “solo
stanchezza.”
Aveva bisogno di acqua fredda: sì, ormai stava dormendo in
piedi. Aveva solo bisogno di svegliarsi un pochino.
Aprì il rubinetto, dando un’ultima, sospettosa occhiata allo
specchio: si era davvero spaventato per nulla, ed avrebbe dovuto metterci
alcuni minuti per ritornare calmo.
Era ridicolo, certo.
Prima di abbassare il volto per inumidirsi la fronte diede
un ultimo sguardo allo specchio, inquieto, trovandosi a fissare due occhi
dorati.
Per un secondo gli sembrò che gli mancasse la terra da sotto
i piedi. Non riusciva a pensare a nulla: il terrore aveva preso il posto di
ogni pensiero coerente.
Si voltò, pronto a gridare, ma si trovò a fissare il vuoto.
Un’allucinazione. Dalle labbra di Helter uscì, a fatica, una
risatina isterica: solo un’allucinazione.
“Stanchezza,” borbottò a sottovoce, tentando disperatamente
di tranquillizzarsi. Si girò di nuovo verso il lavandino, incerto se
sciacquarsi la fronte o cercare il conforto nel sonno: alla fine decise per la
seconda, chiudendo il rubinetto.
Alzò lo sguardo, distratto, e si sentì
morire dentro.
Non poteva essere un’allucinazione. Non poteva esserselo
immaginato. Non poteva esserci stato prima.
Continuava a tremare, Helter, mentre il suo sguardo spaventato
saltava da una sillaba all’altra della frase.
“La camera è mia.”
Gli sembrava persino di sentire la voce della ragazzina,
mentre, nella sua mente, le sillabe assumevano quell’ordine.
Per pochi secondi la voce fredda ed arrabbiata della ragazza
continuò a rimbombargli nella mente, ripetendo quella frase ad oltranza: poi la
luce delle candele tremò per un’istante, e quando il cuore di Helter riprese a
battere Ko Rah era apparsa accanto a lui, i pugni stretti e le labbra serrate.
“La camera,” mormorò lei, atona, “è mia.”
Il momento dopo Helter era appoggiato contro la porta,
tentando di chiudere la ragazza all’interno.
I suoi sforzi furono vani: la porta venne aperta con così
tanta forza che l’uomo si trovò a volare contro il proprio letto.
“La camera è mia,” ringhiò Ko Rah, il braccio disteso in
avanti reso improvvisamente rigido e la mano chiusa a pugno.
Helter gridò, terrorizzato: strane scintille avevano preso a
danzare attorno al pugno chiuso della ragazza, e un’inquietante ronzio aveva
cominciato ad avvertirsi in sottofondo.
“La camera,” ringhiò nuovamente la ragazza, socchiudendo gli occhi in uno sguardo omicida mentre un alone violetto si formava attorno a lei, “è mia.”
“Va bene!”
Helter si buttò sulla chiave, lanciandola poi contro la
ragazza: anche se questo movimento era stato fatto con disperazione, nel
tentativo di farle del male, la chiave semplicemente si materializzò nel
palmo sinistro di Ko Rah.
Qualcosa di simile ad un ghigno di soddisfazione si fece
strada sul volto di Ko Rah, mentre portava la chiave alla tasca: Helter, dal
canto suo, era troppo occupato a non scoppiare a piangere per fare altro oltre
a prendere la borsa e guadagnarsi la porta.
“Cosa speri di fare?”
L’uomo si raggelò, senza riuscire ad appoggiare la mano alla
maniglia. La ragazza non aveva ancora finito?
Cos’altro voleva da lui?
“Pensi davvero,” Ko Rah calcò la parola di una crudele ironia, prima di continuare, “di poter vincere quando non sei nemmeno stato capace di tenerti una chiave?”
Helter si morse il labbro, appoggiandosi al muro. Lei fece
un passo in avanti, mortalmente seria nel suo discorso. “Le persone devono
capire quando fermarsi.”
Fece un nuovo passo in avanti, assumendo nuovamente l’aura violacea. “Le persone devono capire quando è ridicolo continuare.”
“I-io,” balbettò Helter, spaventato. Gli stava dicendo che
non aveva alcuna speranza, però non riusciva ad essere arrabbiato: la paura
stava a poco a poco lasciando spazio alla disperazione più cupa, sotto gli
occhi attenti della diciassettenne che continuava a fissarlo, neutra.
“V-voglio solo che m-mia moglie possa t-tornare d-da me.”
“Non è possibile.” La frase era stata detta con un tono così
freddo da recidere qualsiasi speranza rimastagli, senza possibilità di
guarigione.
“Ma,” cominciò lei, facendo un nuovo passo in avanti,
trovandosi ormai a pochi centimetri da Helter.
Era molto più bassa di lui, eppure, fra i due, quella che
dominava l’altro era lei. “Se lei non può raggiungere te, tu puoi raggiungere
lei.”
La disperazione, come un veleno, gli aveva raggiunto il
cuore, facendolo marcire senza alcuna pietà: il dolore fu così forte, così
terribile che gli occhi gli si riempirono di lacrime.
In quel momento non contava più cosa voleva fare, ma
soltanto come farlo smettere.
-+:.:*:.:+-
Al Aki era felice di non dover portare i bagagli. La
sorella, nella breve oretta in cui il ragazzo era occupato a salvare la propria
anima, era semplicemente scomparsa così lui aveva speso quasi tutto il proprio tempo a
chiedere in ogni taverna se l’avessero vista.
In molti rispondevano che non ricordavano, altri dicevano
che sì, l’avevano vista, ma non risiedeva da loro.
Così, girando e comprando alcuni piccoli souvenir, comprese
che mancava solo una locanda e che Ko Rah doveva per forza essere lì: da quello
che aveva sentito in paese, poi, era anche l’unico posto ad essere abbastanza
grande da avere ancora delle stanze libere la vigilia dell’inizio del torneo.
C’era una doppia speranza, alla fine: quella di trovare la
sorella e quella di trovare una camera. Nel suo geniale piano, infatti, era presente
l’idea del riposare, non del dove.
Era ormai alla locanda, con due borse di vestiti e amenità
varie fra le mani, quando qualcosa fece un fracasso tremendo alle sue spalle.
Il povero ragazzo si buttò a terra, borse e braccia aattorno alla
testa, temendo il peggio: ci mise alcuni minuti per capire che stava abbastanza
bene e che null’altro sembrava in procinto di cadere.
Si alzò in piedi, borbottando qualcosa sottovoce, quando si
rese conto che c’era della gente che continuava ad indicarlo.
Tentò di pulirsi una guancia con una manica, riuscendo
soltanto a sporcarsi ancora di più di polvere: allora alzò un braccio, tentando
di far capire che gli dispiaceva ma non poteva farci nulla.
La gente lo ignorò, continuando a borbottare qualcosa con
aria scandalizzata.
Al Aki aggrottò la fronte, leggermente offeso. Era piuttosto
rude ignorare così una persona che tentava di instaurare una discussione.
Sbuffò, scuotendo la testa, e finalmente l’occhio gli cadde
su ciò che era caduto.
La bocca gli si spalancò istintivamente, dando, assieme agli
occhi sgranati, la perfetta idea di quanto il suo cervello fosse stato reso
fuori uso dalla sorpresa.
Un uomo era atterrato su un carro di fieno: per quanto vi
fosse la remota possibilità che fosse ancora vivo, il sangue e, in generale, la
posizione scomposta del corpo gli lasciarono intendere che tale probabilità era
molto distante.
“Uh…” Al non sapeva cosa dire, mentre dei guaritori si
facevano avanti, tentando di capire quali fossero le condizioni dell’uomo.
“…Ehilà.” Disse infine con forzato entusiasmo.
Il suo saluto fu
perso nel vuoto.
--.;*;.--
“Coco, hai trovato una camera!”
Ko Rah mugugnò appena, senza minimamente alzare lo sguardo dal
suo beneamato Wired.
Al Aki sorrideva, chiudendo la porta dietro di se con un
calcio: la ragazza aggrottò leggermente la fronte, notando che quello era una
delle ennesimi irritanti abitudini del fratello.
“Ho comprato dei vestiti,” continuò lui, alzando le due
borse e appoggiandole al tavolo.
Lei borbottò qualcosa in risposta, facendo un cenno con la
testa per fargli capire che aveva recepito il messaggio.
Al Aki prese un completo nero, elegante quanto di buon
gusto. Lo appoggiò su se stesso, specchiandosi poi allo specchio per vedere
come poteva stare.
Ridacchiò, felice come un bambino. “Ehi, Coco, ti va di
darmi alcuni pareri su quello che ho comprato?”
La ragazza alzò gli occhi al cielo, sbuffando.
“Grazie! Sai,” cominciò, prendendo un altro completo dalla borsa,
“pensavo che fosse ridicolo spendere soldi per queste… uh… hm… cose.
Tuttavia, ecco, stavo pensando che… cioè,” ridacchiò, allegro, “non ho mai
avuto occasione di prendere tutti questi vestiti e, insomma, non sono
adorabili?!”
“Immagino,”
ringhiò la ragazza, mentre l’occhio sinistro era preda di un tic nervoso.
--
---
--
-----------------------------------------------------------------------------------------
--
---
--
Nota d'Autore: mhm. Non mi piace molto come è venuto. Mi dispiace.
Vitani, tu mi onori con le tue recensioni e...grazie ^O^ davvero. I commenti riescono a curare le ferite mai sanate che la mia autostima mi inflisse prima di fuggire con gli argenti.
Fofolina, grazie. Sono felice che ti piaccia e... bhè, ho fatto il disegno solo per te XD se a qualcun'altro interessa, il disegna è fra gli originali del forum. COOMUNQUE. Grazie. Aki è un tesoro OçO ed ovviamente potrò concedertelo quando non deve recitare... se gli dai i vestitini belli *_*
Ok. Grazie a chi legge. ^O^