.Nameless.
I have to
block out thoughts of you
so I
don’t lose my head
They crawl in like a cockroach
leaving
babies in my bed.
.:1st Chapter:. Don't want
to hear that name again.
“Cazzo!”
Brian saltellò dolorante su un piede, dopo
una collisione decisamente poco piacevole con il bancone della
cucina.
Questo parve svegliare il ragazzo senza nome
e senza viso che sembrava giacere morto sul letto. Brian voleva buttarlo fuori
dal loft appena finito, ma gli 80 chili della nuova momentanea conquista non
erano facili da rimuovere a peso morto, dopo che questi era crollato
addormentato.
Il pubblicitario si era accontentato di
dormirgli semplicemente il più lontano possibile.
Si sentì abbracciare rudemente da due grosse
braccia, e provò un irrefrenabile fastidio all’essere toccato in quel
modo.
“Secondo round?” Gli sussurrò
all’orecchio.
“Secondo round un cazzo. Levati dai
coglioni.”
Percepì gli occhi increduli perforargli la
nuca, dopodiché venne malamente lasciato andare contro il bancone, libero di
aprire il frigo alla ricerca di qualcosa di vagamente commestibile che non fosse
Popper.
“è proprio vero ciò che dicono in giro.” Il
rompicoglioni era ora vestito, ma non accennava a volersene andare, ed era in
piedi a lato del bancone.
“E cosa dicono? Anche se non me ne fotte un
cazzo, ho la sensazione che tu non te ne voglia andare senza avermelo
detto.”
Sembrò sordo all’acida risposta, e continuò
con un tono snervante.
“Che da quando Taylor se ne è andato tenti
di tornare ciò che eri prima, lo ‘scopatore senza anima’, il ‘frocio numero 1 di
Pittsburgh’, ma non riesci assolutamente. Sei solo più un guscio
vuoto.”
Al sentire quel dannato nome un pugno lo
colpì allo stomaco vuoto. Il ragazzo non aveva il minimo diritto di
pronunciarlo, sembrava quasi un insulto su quelle labbra sconosciute, a cui
Brian non aveva consentito l’accesso alle sue, come faceva da anni
oramai.
Lo sentiva come un tradimento, e l’unica
volta in cui aveva accettato di baciare qualcuno che non fosse…lui, aveva
percepito una sensazione sgradevolissima alla bocca dello stomaco. Ovviamente
non era senso di colpa. Brian
Kinney non si sente in colpa.
Comunque, se avesse voluto dare un nome alla
sensazione, cosa che per inciso non sarebbe accaduta, sarebbe stato qualcosa di
molto simile.
“Bene. Ora permettimi di rinnovare l’invito
a levarti dai coglioni.”
Il tizio alzò le mani, come in segno di
resa, e si allontanò sino alla porta.
Quando sentì il familiare stridio metallico,
Brian si staccò dal frigorifero, per andare a sedersi sul
divano.
Non aveva trovato molto di commestibile, ed
in ogni caso la fame si era dissolta nel nulla, perciò optò per un salutare
bicchiere di scotch.
Non era esattamente conscio del momento in
cui erano diventati 3 bicchieri, poi 4 ed infine troppi per riuscire a
distinguerli con la vista offuscata.
Da qualche parte tra le 4 e le 5, si fece
scivolare con gli occhi chiusi tra le braccia di un Morfeo portato dall’alcol e
dal dolore.
~O~
Harold osservava critico l’ultima mia tela,
con un espressione corrucciata e concentrata.
Erano praticamente la stessa cosa, cosicché
non avevo la minima idea se gli facesse schifo, o al contrario stesse valutando
se Pollock si fosse incarnato in me.
Dopo minuti che mi sembrarono interminabili,
si girò verso di me, e con un sorriso di dimensioni disumane, proclamò
“Assolutamente divino. Andrà sicuramente nella personale.”
A volte mi chiedevo se Emmett avesse qualche
allele in comune con il basso e molliccio padrone della galleria Grant, che
condivideva con il mio amico l’ossessione quasi patologica per parole come ‘divino’ o ‘favoloso’, ed un gusto alquanto
discutibile sugli abbinamenti di colore in campo di
vestiario.
In ogni caso, alla galleria il suo
comportamento era ineccepibile, così come gli anonimi maglioncini beige che
sfoggiava durante il lavoro.
L’unico frangente in cui ero riuscito a
scovare l’ennesima somiglianza con Emmet era stata una sera, al DreamOutLoud , una delle rarissime in
cui mi ero deciso, o meglio, ero stato trascinato fuori, ad uscire dal mio
appartamento, meglio definibile come cubicolo.
L’avevo trovato letteralmente immerso nella
contemplazione di uno statuario Go go boy, a cui aveva generosamente allungato
una banconota da 50 ed una occhiata inequivocabile.
Non riuscivo a credere fosse davvero il
controllato padrone di una delle gallerie più famose di NY, ma la improponibile
tinta biondiccia che somigliava ad un nido di una quaglia poteva essere solo
sua. Portava una camicia color prugna, che io trovo tanto più comodo definire
viola, e degli aderentissimi pantaloni pesca, ancora definibile come arancione.
Il tutto lo rendeva pateticamente inguardabile, ma i vari verdoni che regalava
con aria disinvolta al ballerino lo rendevano egualmente interessante ad un
bellissimo squattrinato.
Non ero particolarmente sicuro di volerlo
andare a salutare, convinto che, una volta visto così, non avrei avuto più
accesso alla sua galleria neanche se i miei dipinti fossero stati richiesti da
Madonna, ma un ragazzo totalmente fatto di qualche polvere mi spinse con poca
grazia addosso alla grossa schiena color viola, che si voltò
all’istante.
Non sembrò assolutamente imbarazzo per la
sua vistosa mise, anzi mi offrì un drink, occhieggiando come aveva fatto poco
prima con il Go go boy.
Che tentasse in ogni modo di portarmi a
letto era una cosa che avevamo entrambi assodato, così come il fatto che non ci
sarei mai andato.
Nonostante questo apprezzava il mio talento,
e aveva persino deciso di organizzare una mia personale, forse ancora nel vano
tentativo di avvicinarsi al mio sedere.
Che i motivi fossero nobili o meno, non
aveva importanza. Erano mesi ormai che non facevo altro che dipingere,
entusiasta all’idea di una possibilità del genere.
Lynsey era della stessa idea, e la cosa era
stata ovvia dopo il perforamento del mio timpano. Credo che l’urlo si sarebbe
sentito anche in assenza di un telefono, direttamente da
Vancouver.
Non avevo sentito il resto della
conversazione, corredata di “Ma è fantastico” e “Grande
opportunità”.
Ora la personale era pressoché pronta, e si
sarebbe tenuta da Marzo a Giugno. Grant mi aveva dedicato due dei molti corridoi
della galleria, ed una grande sala su cui entrambi sbucavano. Mentre mi mostrava
gli spazi saltellava sui piccoli piedi, slanciando le mani il più possibile. Ero
più preoccupato ad evitare che mi arrivassero in faccia che non ad osservare il
luogo, ma praticamente ogni giorni ci passeggiavo, immaginando i miei lavori al
posto di quelli che attualmente occupavano i muri color
seppia.
Dopo essere stato congedato dal padrone
della galleria, uscii, per essere accolto dal glaciale vento New Yorkese, che
spazzava le grigie e macroscopiche strade.
Non mi sarei mai abituato alla grandezza
media di ogni cosa nella Grande Mela. Ero rimasto scioccato dai 4 piani del
negozio delle M&Ms, e continuavo a non capacitarmi di come le cose più
inutili ed impensabili a Pittsburgh fossero grosse quanto la città stessa a
NY.
Camminai velocemente per la strada, che
costeggiava il lato nord di Central Park, osservando gli impettiti portieri
delle case più belle di tutta la città. Arrivai alla fermata della Tube, e con
un sospiro di sollievo per la mancanza di freddo al suo interno mi ci infilai
svelto.
La lontananza della Galleria dal cubicolo –
pardon, l’appartamento – era proporzionale alla differenza tra le due zone.
Difatti scesi 40 minuti più tardi dalla metropolitana, trovandomi immerso tra
universitari ed immigrati messicani.
Il Bronx non era esattamente il posto più
tranquillo dove vivere, ma gli affitti New Yorkesi erano da capogiro ed io ed i
miei due coinquilini non potevamo permetterci molto di più del
cubicolo.
Salii le scale sporche ed arrivai al 7°
piano, combattendo con la chiave prima di sfondare letteralmente la porta con
una spallata.
Bella saltò giù dal divano, portando con sé
anche il tavolino ed il bicchiere che ci aveva posato sopra.
“Ti ho già detto che basta bussare! Perché
sia tu che Mike buttate giù tutto?!”
Feci finta di non vedere il tavolo
sgangherato e l’acqua che si spandeva sulla moquette, le sorrisi e mi rivolsi al
piccolo frigorifero rosso, per tentare di mettere sotto i denti
qualcosa.
Prima che me lo domandiate, risponderò io.
No, non sono particolarmente veloce a spostarmi, ma l’appartamento è talmente
minuscolo che tutto è facilmente raggiungibile in 3 passi.
Tirai fuori un panino del giorno precedente,
e Isabella allungò la mano, per chiederne la metà.
Era sull’orlo della comicità che l’unica
ragazza presente s’ingozzasse come un profugo ogni giorno, mentre Mike fosse
quello delle insalate e Diet Coke.
In ogni caso gliene diedi la metà e la misi
al corrente dei vari apprezzamenti al quadro di Grant.
“Fantastico tesoro, lo ho sempre detto che
avresti sfondato in pochissimo tempo.”
Mi metteva in soggezione fissarla dal basso,
ma le regalai lo stesso una occhiata scettica.
Sperai raggiungesse il suo metro e ottanta,
dove per me c’erano ormai le nuvole, e possibilmente qualche aquila che
girava.
“Bells, sono qua da 2 anni. Pochissimo tempo
è una definizione decisamente ottimistica.”
Fece una smorfia, mi diede un bacio
affettuoso sulla guancia e si riaccomodò sul divano, tirandosi sulle gambe il
grosso tomo di anatomia comparata, facendo cadere della salsa sulla ormai
inguardabile moquette.
Isabella Stones era altissima, bellissima,
permalosa ed incredibilmente goffa. Sarebbe riuscita a far cadere qualunque
cosa, ed era letteralmente ricoperta di cerotti e lividi, avendo l’abitudine di
inciampare in qualsiasi oggetto fosse nel suo campo
d’azione.
Dopo tanti mesi passati gomito a gomito con
lei, io e Mike ci eravamo abituati a sgombrare i
“Mike ha detto che stasera sta da…com’è che
si chiama?” Aveva anche la caratteristica di dimenticarsi all’istante i nomi. Ci
aveva chiamati ‘Biondino’ e ‘Boccolo’ per un mese.
“George?”
“No, l’altro.”
“Nick?”
“Quello è biondo, questo è scuro di
capelli.”
“Steve?!” Ero esasperato, l’ultima cosa di
cui avevo voglia era giocare all’Impiccato con i nomi delle conquiste di
Mike.
“Lasciamo stare. Sta da qualcuno, quindi non
torna stanotte.” Mi rispose mordendo il panino con aggraziata
soddisfazione.
Annuii e mi sedetti sulla poltrona – meglio
definibile ammasso di molle e improbabile tessuto fiorato – e fissai il vuoto
per alcuni secondi, prima che mi giungesse la sua voce.
“Anche tu dovresti uscire di più. Da quando
non…”
“Non ho tempo.” Guardai in giro in cerca di
una via di fuga.
“Si che ne hai, è che non vuoi. Cazzo, le rarissime volte in cui
ti abbiamo trascinato fuori non hai fatto che declinare ragazzi, che mi sarei
fatta persino io…”
Continuò a borbottare e rompere le palle per
lungo tempo, mentre io mi agitavo disperato sotto i lamenti della poltrona.
Il lato negativo del cubicolo era il non
avere vie di scampo se Bella si sentiva in vena di spassionate filippiche.
Restai inerme ad ascoltarla.
“…Devi dimenticare Brian, anche se…” Persi la parte prima e
quella dopo della frase, ma il nome mi rimase impresso a lettere di
fuoco.
Mi bruciava la pelle come carbone ardente
che mi ostinavo a tenere tra le mani, e chiudere gli occhi per far andare via le
ondate di malinconia non servì assolutamente a nulla.
Fanculo a Bella, a Mike e a Brian. Perché
doveva sempre tornare nella mia vita?
Cazzo, volevo solo che se ne andasse. Che mi
lasciasse in pace, che riuscissi a costruirmi una stupida vita, senza che
somigliasse solo ad una orribile copia di ciò che avrebbe dovuto essere. Accanto
a lui, con lui.
Mi alzai dalla poltrona, presi la giacca e chiusi la porta in faccia a Bella, che continuava a parlare.
~O~
Ovviamente non potevo esimermi dallo scrivere una Longer Fic sulla ipotetica 6° stagione. Ovviamente è il genere che va maggiormente in una serie conclusa in modo tanto idiota...
Non ho la minima idea di dove la storia porterà, nè il titolo a cosa sia collegato XD ma durante questo mese di prigionia - vacanza - al mare vedrò di tirare fuori qualcosa.
Credit: le lyrics ad inizio fic provengono da Hate me - Blue October
Per quanto riguarda Bella, da Twilight ho preso solo il nome e la goffaggine. Per il resto, è decisamente meno idiota e tendente al lamento fine a se stesso della protagonista del libro *.*
Le recensioni sono come sempre gradite.
*Marghe*