.Nameless.
.:2nd Chapter:.
I
tried to live without you
Every
time I do I feel dead.
I
know what’s best for me,
But I
want you instead,
I
keep on wasting all my time.
Non era nulla di
particolarmente strano. Non era un peculiare caso da psichiatria, né una mia
fisima mentale che si sarebbe risolta con ore di chiacchierate prive di senso
steso su una poltrona nera dall’aria molto costosa.
Ero stato capace di
dimenticarlo, di seppellirlo nel mio inconscio. Per meglio dire, avevo brutalmente
affogato i miei sentimenti e le mie debolezze, stando lontano da lui in ogni mio
pensiero, vietandomi di indulgere in luoghi del mio cervello dove sapevo
l’avrei trovato.
Compito a dir poco arduo, dato
che la mia vita era composta esclusivamente da lui, dato che ogni angolo di me
era permeato della sue presenza, del suo profumo e dei suoi occhi
neri.
Non mi ero mai accorto di
quanto ciò fosse vero sino a che non era venuta a mancarmi la nostra
quotidianità, la semplice routine che mi rendeva felice e
completo.
Per i primi tempi quindi era
stato a dir poco impossibile, e la maggioranza delle notti venivano passate
raggomitolato sotto delle lenzuola estranee ad immaginarmi il calore della sua
schiena premuta contro la mia, ed il rumore del suo respiro nel
buio.
Ma ricordavo a me stesso che
era ciò che lui voleva, e che col tempo avrei voluto anche io. Bastava
forzarsi a mettere giù il dannato telefono ogni qual volta la voglia di
chiamarlo diventasse schiacciante, e occupare mani e mente in ogni
modo.
Alla fin fine la mia volontà
aveva avuto la meglio, come in ogni cosa che faccio, ed evitare di pensare a lui
era un esercizio che ormai riusciva facile. Avevo pensato di doverlo bloccare
fuori dal mio corpo. Col tempo avevo capito che lui era il mio corpo,
perciò lo si doveva delimitare in un antro lontano e privo di alcuna visita,
dove sarebbe rimasto a lungo – o per sempre.
Ma ancora non riuscivo a
rimanere indifferente davanti al suo nome pronunciato ad alta voce da estranei
ai miei interminabili monologhi interiori – o dal mio cervello
ribelle.
L’insieme di lettere riportava
alla luce una ferita assolutamente non rimarginata, ed il dolore diventava quasi
fisico, ondate di sofferenza che mi facevano salire delle lacrime brucianti agli
occhi, e la voglia indicibile di salire sul primo aereo, o anche solo di
mettermi a correre sino a Pittsburgh.
Con il tempo – con gli anni –
avrei forzato nel medesimo luogo apatico anche il suo nome, ma per ora mi
limitai a chiudere la porta in faccia a Bella e ad
andarmene.
Non avevo esattamente idea di
quale sarebbe stata la mia meta, ma non avevo avuto modo di pensarci sino a
ritrovarmi in metropolitana, stretto spalla a spalla con innumerevoli volti
senza espressione. Mi resi conto che non vedevo non le loro espressioni, bensì i
loro volti, perché ogni atomo del mio essere era accuratamente dedicato a non
cadere a pezzi.
Sentii il cellulare che vibrava
nella tasca, e decisi di non rispondere a Bella, che ovviamente si era fiondata
sul telefono. Probabilmente aveva fatto cadere chissà che
cosa.
Mi concentrai sugli oggetti
presenti sul percorso divano-cordless, e tentai di impegnarmi per qualche
minuto.
Una spallata a dir poco
violenta mi ributtò nel reale, dove un grasso business man aveva deciso che non
valeva la pena chiedermi di spostarmi.
Mi ritrovai a seguire il fiume
umano, e scesi alla stessa fermata dell’uomo.
Non avevo idea di quale fosse,
così mi limitai ad uscire ed a guardarmi intorno.
I piedi sembravano andare per
conto loro, quindi li lasciai fare, e vagai senza meta e senza pensieri logici
per tempo illimitato.
Poteva essere passato un minuto
o un’ora, quando il cellulare si mise a squillare nuovamente. Tentai di
ignorarlo, ma era deciso a non lasciare in pace le mie orecchie sino a data da
destinarsi.
Presi il maledetto in mano, e
lessi il nome del rompi coglioni delle 8 di sera:
Neal.
Cazzo. Avevamo forse
appuntamento da qualche parte? Non ne avevo assolutamente idea, né me ne
importava particolarmente. Di certo non sarebbe crollato niente nel Qatar se
avessi dato buca allo pseudo fidanzato NewYorkese.
Ed ecco a voi Neal…alto, bruno
e con due occhi scuri come il carbone. Sì, posso dire di essere particolarmente
monotono, ma a mia discolpa aggiungo che - idea molto malsana - ero convinto che
avrei dimenticato più in fretta Brian facendomi uno che risultava essere una
pallida fotocopia dell’originale.
Avrei fatto meglio a buttarmi
su un biondo con due enormi occhi azzurri, ma mi limitai a rispondere a Neal, e
a rimandare le discussioni con me stesso ad un secondo
momento.
“Hey.”
“Ciao.”
Il silenzio dall’altro capo mi
fece temere d’aver davvero dimenticato qualcosa.
Decisi di
provare.
“…avevamo appuntamento
stasera?” Azzardai.
“No, però volevo sentirti.”
Un’ondata di nausea mi assalì. Il fidanzato melenso l’avevo già avuto.
Decisamente non nel mio genere. Soprattutto se alla prima sera disponibile si fa
il primo ragazzo disponibile.
“E vederti.” Aggiunse. “Ti va
di venire da me? Così guardiamo un film.”
Era quasi tenero che si
ostinasse a chiamarlo film anche quando c’eravamo solo noi a sentire la
conversazione.
“Just? Sei lì?!” Mi accorsi di
non avergli ancora risposto.
“Uh…”Mi morsi il labbro,
assente. “Sì, ok. Arrivo in 15 minuti.”
Poteva essere la distrazione
che agognavo e non ci misi molto a ritornare alla fermata della Tube e ad
arrivare nella sua zona.
Soho era decisamente più bella
dell’ammasso di strade sporche che costituiva la mia zona, ma d’altronde essere
il figlio di un banchiere NewYorkese comportava delle conseguenze molto
piacevoli.
Mi aprì la porta del favoloso
appartamento, e quando mi sfilò la camicia smisi di pensare
coerentemente.
Finalmente. Potevo chiudere gli occhi ed immaginare di afferrare
i suoi capelli, di mordere le sue
labbra.
Questo era l’unico momento in
cui lasciavo libere le porte, lo lasciavo invadere il mio cuore e il mio corpo.
Le endorfine del sesso lenivano indescrivibilmente il dolore del suo ricordo, ed
ero abbastanza forte da rimandare il confronto con me
stesso.
***
“Brian…?” Michael non ricevette
risposta, e all’ennesimo richiamo decise di aggiungere una mano posata sul suo
braccio, per vedere se fosse in stato catatonico o semplicemente perso in un
altro mondo.
L’oggetto dei richiami alzò di
scatto la testa, togliendo bruscamente il braccio dalla stretta
dell’amico.
“Eh?”
Michael e Debbie, la cui
presenza sino a quel momento era stata ignorata da Brian, lo guardarono
straniti.
“Ti ho detto che il prossimo
mese c’è la inaugurazione della personale di Topino.” Rispose la donna,
osservando attentamente la sua reazione.
Poteva anche dire ciò che
voleva, ma gli occhi di onice liquida non mentivano a chi lo conosceva bene come
lei.
Vide chiaramente un guizzo di
fastidio attraversarli, ma l’apatia impiegò solo qualche secondo a
tornare.
“Ah”
“Riuscirai ad articolare dei
suoni coerenti o devi interpretarli io?” Sbottò
Michael.
Brian si trattenne dal
rispondere con un “Uh-uh”, e si limitò a fissarlo, sperando che interpretasse la
sua espressione e lo lasciasse stare.
Per quale diavolo di motivo
doveva andare alla stupida mostra?! L’aveva lasciato andare, il contratto del
Compagno-che-si-sacrifica non comprendeva il supporto morale continuo, una volta
che l’altro se ne era tranquillamente volato a km di
distanza.
Dimenticarlo era stato
semplicemente impossibile, ed ora che stava lentamente recuperando i suoi
comportamenti pre-Justin, senza che fossero e risultassero una forzatura
spaventosa sia per lui che per gli altri non era certo disposto a fare la moglie
orgogliosa ad una personale.
Tutti si aspettavano che
saltasse in piedi, prendesse il primo volo per NY ed andasse da lui per
abbracciarlo.
Brian non capiva come potessero
essere così atrocemente insensibili nei suoi
riguardi.
Piuttosto che ammetterlo ad
anima viva si sarebbe fatto torturare, ma era rimasto colpito da come tutti
vedessero Justin come la povera vittima, isolata in un freddo orribile mondo
grigio, mentre lui era semplicemente il solito stronzo privo di
anima.
Non vedevano? Come diavolo si
poteva essere così fottutamente ciechi?
“Farai meglio a venirci
stronzetto, o ti ci trascino per le palle” La voce petulante s’inserì nel
monologo interiore e Brian si ritrovò al Diner, a girare il cucchiaio in una
zuppa di piselli, fredda.
“Devo andare a
lavorare.”
“Ma è domenica!” Michael urlò
ad una porta ormai chiusa.
Una folata di gelo gli frustò
il viso e Brian dovette infagottarsi maggiormente nel giubbotto di
pelle.
Era uno dei Febbrai più freddi
degli ultimi anni, in tono con l’umore di Brian, e la sensazione di avere dei
ghiaccioli sotto il mento gli fece compagnia sino alla
macchina.
La Corvette era stata congedata
in onore di una Porche nera, in cui il pubblicitario si infilò
velocemente.
Passò lentamente il dito
infreddolito sul volante di pelle, tracciando i contorni delle cuciture che lo
delineavano.
Lavorare. Un flash attraversò le nuvole apatiche che si
erano create dentro di lui, e lo riportò alla realtà. L’unico modo che conosceva
per non pensare era pensare ad altro, che si traduceva nel lavorare come un
workaholic sino alle ore più
impensabili.
Gli introiti della Kinnetik
erano saliti alle stelle, così come il senso di solitudine che sentiva
dentro.
Ma tant’è, avrebbe dovuto farci
l’abitudine.
Compose velocemente il numero
sullo stiloso telefono grigio che c’era sulla scrivania, ed aspettò che
prendesse la linea.
“Cynthia…volevo solo dirti che,
se non hai programmi, io sono alla Kinnetik, quindi puoi venire anche tu.”
“Ovviamente sotto straordinari.” Si sentì in obbligo
d’aggiungere.
A volte aveva la fastidiosa
sensazione che la sua assistente si precipitasse più per fargli compagnia che
per zelo professionale.
Aveva perfettamente compreso la
natura del cambiamento di Brian ed si era dimostrata più che disponibile ad
essere presente anche nelle ore più tarde. Rivedevano i contratti e le proposte
dei vari dipartimenti, sempre più qualificati e popolati, e magari finivano per
bersi un bicchiere di Whiskey seduti sul pavimento freddo con la schiena
poggiata al divano e le scarpe abbandonate accanto a
loro.
“Tanto non ho nulla da fare,
vengo subito.” Rispose lei con una vena di agitazione che non sfuggì
all’uomo.
“Hey, più veloce di così non
sono riuscita. Allora, che vogliamo fare?” Entrò dalla porta di vetro con un
caldo sorriso e una pettinatura alquanto
improvvisata.
“Volevo rivedere le idee del
brainstorming sulla nuova campagna della Norton Project. Per fare una tempesta
di cervelli questi dovrebbero essere nella testa di quegli idioti.”
Borbottò Brian.
In realtà avevano fatto un
ottimo lavoro, ma lui voleva lavorare e voleva la compagnia di una delle uniche
persone che non lo guardasse come un cucciolo ferito o uno stronzo senza cuore,
e soprattutto che non gli chiedesse ogni 50 secondi cosa diavolo
avesse.
“Mettiamoci al
lavoro.”
***
“Ho la sensazione che sarà
l’evento artistico dell’anno.”
Linsey era sempre leggermente
troppo ottimista, ma una iniezione di complimenti non aveva mai ucciso
nessuno.
Dopo un abbraccio degno di una
lesbica camionista mi aveva letteralmente trascinato in giro per la galleria,
pretendendo che le illustrassi ogni suo mattone.
Ormai la preparazione era quasi
terminata ed i miei quadri stavano venendo fissati alle varie pareti, pronti per
gli ultimi ritocchi in caso decidessi uno
spostamento.
La cornice era stata decisa
dalla mia agente-seconda madre-fardello instancabile, che era stata irremovibile
sull’aspetto ‘elegante e lineare’ dell’intera
personale.
Era scesa da Vancouver una
settimana prima di Mel ed i bambini, appunto per aiutarmi negli ultimi
preparativi e per asfissiarmi liberamente sulla assoluta necessità di restare a
NY almeno per altri 3 o 4 anni.
Si era sentita in dovere di
ricordarmelo appena aveva visto la mia espressione, che ormai era uno sbiadito
ricordo degli occhioni modello Bambi che sfoggiavo sino a qualche tempo prima,
più precisamente 24 mesi e 9 giorni.
Ero comunque più che felice di
vederla, perché la sua compagnia aveva sempre avuto il potere di rasserenarmi e
la sua presenza di infondermi una sicurezza quasi
materna.
Certamente sentirmi ripetere di
continuo che ‘meraviglia’ fosse ogni cosa su cui avevo poggiato un pennello non
era neanche male.
“Grazie, ma non credo sarà così
sensazionale. Qui è pieno di artisti emergenti esattamente come
me.”
“Ma quanti hanno in cantiere
una personale alla Grant Gallery di NY?!” Mi fissò con i dolci occhi azzurri,
passando una mano sulla mia nuca, dove incontrò una folta coltre di capelli
biondi. Avevo perso il conto dei mesi passati dall’ultimo incontro col
parrucchiere, ed ormai avevano raggiunto la lunghezza di prima che li facessi
impietosamente rapare a zero da una pazza con il rasoio, in onore dei Ping
Posse.
“Forse tutti quelli il cui
sedere è particolarmente interessante per il padrone della galleria.” Azzardai.
Mi lanciò una occhiataccia e
tornò a guardarsi attorno, prima di fermare imperiosamente un operaio che
maneggiava grossolanamente una tela rosso fuoco.
Sfruttai l’occasione per
allontanarmi e sparire tra i corridoi. Tanto non se ne sarebbe accorta,
impegnata com’era ad organizzare la mia ‘unica ed incredibilmente irripetibile
occasione’.
Finii inevitabilmente per
raggiungere il muro terminale di una delle due
gallerie.
Era di un caldo color crema,
illuminato accuratamente da una serie di faretti. Era esattamente come molti
altri posti in quell’edificio, ma ciò che lo rendeva speciale era la posizione.
Arrivando dalla direzione opposta risultava nascosto agli occhi e ciò
permetteva, appena girato l’angolo, di restare impressionati dall’opera appesa.
Doveva essere di grandi dimensioni e rappresentare una sorta di conclusione in
grande stile alla esposizione.
Avevo deciso, prima ancora di
dipingerlo, quale tipo di quadro sarebbe stato posizionato sul muro
dell’eccellenza.
La Personale era come una sorta
di conferma, un punto di svolta nella mia vita artistica e personale. Perciò
avevo deciso di esporvi quadri che rappresentassero veri e propri frammenti del
mio vissuto.
La maggioranza non erano
episodi materialmente accaduti, ma piuttosto la loro ripercussione su di me ed i
cambiamenti che avevano procurato, in bene e in
male.
La mia
prima notte con Brian. Il piccolo titolo nero scritto accanto era
Certainty. Si riferiva
all’esplosione di colori rosso-arancione al centro esatto di un magma liquido di
toni spenti e freddi. Così come saltava subito all’attenzione quella piccola
eccezione all’atmosfera generale del dipinto, in me era stato chiaro come il
fatto che respiravo che Brian sarebbe stato mio, lo sarebbe stato per molti anni
a venire, se non per sempre.
Ne ero sicuro ed i suoi rifiuti
successivi non erano stati in grado di scoraggiarmi a sufficienza. Mi veniva
quasi da ridere al pensiero di cosa eravamo diventati negli anni a
venire.
Il
Bashing. Il ricordo della rabbia, del dolore e della solitudine intensa che
avevo dentro mi colpiva ancora violentemente ed ero in grado di tracciarne ogni
singolo contorno con precisione.
Ero totalmente privo di fiducia
nel genere umano, non capivo come potesse essere successa una cosa del genere,
come un semplice bacio avesse scatenato un incubo, con delle conseguenze che
ancora adesso sono visibili.
La tela aveva numerosi
soggetti. Una mano filiforme e inumana, serrata in una contrazione involontaria.
Schizzi di rosso che inondavano i bordi dello spazio rettangolare, così come
avevano inondato la mia vista prima che perdessi i sensi, subito dopo aver
sentito il grido disperato che tentava di salvarmi. E quell’unica persona che mi
aveva realmente salvato.
Naturalmente, il quadro posto
sul muro finale avrebbe dovuto rappresentare una sorta di conclusione ad un
periodo della mia vita, un sintetico riassunto del mix di emozioni che mi
agitavano in quei giorni, di ciò che sentivo pur senza riuscire ad
identificare.
Non sapevo che il risultato
fosse soddisfacente, ma potevo chiaramente vedere la mia anima impressa a fuoco
tra le pennellate e tutto ciò che erano sentimenti privati e nascosti ad occhi
esterni e fastidiosi. Avevo deciso di tirare fuori tutto, convinto che mi sarei
sentito meglio.
Non era stato così, ma avrei avuto la soddisfazione di vedere i volti confusi degli spettatori, di fronte a ciò che non capivano.
Capitolo di passaggio, parecchio noioso a mio avviso. Spero lostesso che vi piaccia, e come sempre le recensioni sono graditissime ^.^
Credit: Lyrics by Three Days Grace - Over and over