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Autore: marghe999    01/09/2008    5 recensioni
2 anni dopo la 513.
Il tempo è stato capace di lenire, modificare o cancellare?
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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.Nameless.

 

 

 

 

 

.:2nd Chapter:.

 

 

 

 

 

 

I tried to live without you

Every time I do I feel dead.

I know what’s best for me,

But I want you instead,

I keep on wasting all my time.

 

 

 

 

 

 

 

Non era nulla di particolarmente strano. Non era un peculiare caso da psichiatria, né una mia fisima mentale che si sarebbe risolta con ore di chiacchierate prive di senso steso su una poltrona nera dall’aria molto costosa.

 

Ero stato capace di dimenticarlo, di seppellirlo nel mio inconscio.  Per meglio dire, avevo brutalmente affogato i miei sentimenti e le mie debolezze, stando lontano da lui in ogni mio pensiero, vietandomi di indulgere in luoghi del mio cervello dove sapevo l’avrei trovato.

Compito a dir poco arduo, dato che la mia vita era composta esclusivamente da lui, dato che ogni angolo di me era permeato della sue presenza, del suo profumo e dei suoi occhi neri.

Non mi ero mai accorto di quanto ciò fosse vero sino a che non era venuta a mancarmi la nostra quotidianità, la semplice routine che mi rendeva felice e completo.

 

Per i primi tempi quindi era stato a dir poco impossibile, e la maggioranza delle notti venivano passate raggomitolato sotto delle lenzuola estranee ad immaginarmi il calore della sua schiena premuta contro la mia, ed il rumore del suo respiro nel buio.

Ma ricordavo a me stesso che era ciò che lui voleva, e che col tempo avrei voluto anche io. Bastava forzarsi a mettere giù il dannato telefono ogni qual volta la voglia di chiamarlo diventasse schiacciante, e occupare mani e mente in ogni modo.

 

Alla fin fine la mia volontà aveva avuto la meglio, come in ogni cosa che faccio, ed evitare di pensare a lui era un esercizio che ormai riusciva facile. Avevo pensato di doverlo bloccare fuori dal mio corpo. Col tempo avevo capito che lui era il mio corpo, perciò lo si doveva delimitare in un antro lontano e privo di alcuna visita, dove sarebbe rimasto a lungo – o per sempre.

 

Ma ancora non riuscivo a rimanere indifferente davanti al suo nome pronunciato ad alta voce da estranei ai miei interminabili monologhi interiori – o dal mio cervello ribelle.

L’insieme di lettere riportava alla luce una ferita assolutamente non rimarginata, ed il dolore diventava quasi fisico, ondate di sofferenza che mi facevano salire delle lacrime brucianti agli occhi, e la voglia indicibile di salire sul primo aereo, o anche solo di mettermi a correre sino a Pittsburgh.

 

Con il tempo – con gli anni – avrei forzato nel medesimo luogo apatico anche il suo nome, ma per ora mi limitai a chiudere la porta in faccia a Bella e ad andarmene.

 

Non avevo esattamente idea di quale sarebbe stata la mia meta, ma non avevo avuto modo di pensarci sino a ritrovarmi in metropolitana, stretto spalla a spalla con innumerevoli volti senza espressione. Mi resi conto che non vedevo non le loro espressioni, bensì i loro volti, perché ogni atomo del mio essere era accuratamente dedicato a non cadere a pezzi.

 

Sentii il cellulare che vibrava nella tasca, e decisi di non rispondere a Bella, che ovviamente si era fiondata sul telefono. Probabilmente aveva fatto cadere chissà che cosa.

Mi concentrai sugli oggetti presenti sul percorso divano-cordless, e tentai di impegnarmi per qualche minuto.

 

 

Una spallata a dir poco violenta mi ributtò nel reale, dove un grasso business man aveva deciso che non valeva la pena chiedermi di spostarmi.

 

Mi ritrovai a seguire il fiume umano, e scesi alla stessa fermata dell’uomo.

Non avevo idea di quale fosse, così mi limitai ad uscire ed a guardarmi intorno.

 

I piedi sembravano andare per conto loro, quindi li lasciai fare, e vagai senza meta e senza pensieri logici per tempo illimitato.

 

 

Poteva essere passato un minuto o un’ora, quando il cellulare si mise a squillare nuovamente. Tentai di ignorarlo, ma era deciso a non lasciare in pace le mie orecchie sino a data da destinarsi.

Presi il maledetto in mano, e lessi il nome del rompi coglioni delle 8 di sera: Neal.

 

Cazzo. Avevamo forse appuntamento da qualche parte? Non ne avevo assolutamente idea, né me ne importava particolarmente. Di certo non sarebbe crollato niente nel Qatar se avessi dato buca allo pseudo fidanzato NewYorkese.

 

Ed ecco a voi Neal…alto, bruno e con due occhi scuri come il carbone. Sì, posso dire di essere particolarmente monotono, ma a mia discolpa aggiungo che - idea molto malsana - ero convinto che avrei dimenticato più in fretta Brian facendomi uno che risultava essere una pallida fotocopia dell’originale.

 

Avrei fatto meglio a buttarmi su un biondo con due enormi occhi azzurri, ma mi limitai a rispondere a Neal, e a rimandare le discussioni con me stesso ad un secondo momento.

 

“Hey.”

“Ciao.”

 

Il silenzio dall’altro capo mi fece temere d’aver davvero dimenticato qualcosa.

Decisi di provare.

 

“…avevamo appuntamento stasera?” Azzardai.

“No, però volevo sentirti.” Un’ondata di nausea mi assalì. Il fidanzato melenso l’avevo già avuto. Decisamente non nel mio genere. Soprattutto se alla prima sera disponibile si fa il primo ragazzo disponibile.

 

“E vederti.” Aggiunse. “Ti va di venire da me? Così guardiamo un film.

Era quasi tenero che si ostinasse a chiamarlo film anche quando c’eravamo solo noi a sentire la conversazione.

 

“Just? Sei lì?!” Mi accorsi di non avergli ancora risposto.

“Uh…”Mi morsi il labbro, assente. “Sì, ok. Arrivo in 15 minuti.”

Poteva essere la distrazione che agognavo e non ci misi molto a ritornare alla fermata della Tube e ad arrivare nella sua zona.

 

Soho era decisamente più bella dell’ammasso di strade sporche che costituiva la mia zona, ma d’altronde essere il figlio di un banchiere NewYorkese comportava delle conseguenze molto piacevoli.

 

Mi aprì la porta del favoloso appartamento, e quando mi sfilò la camicia smisi di pensare coerentemente.

 

Finalmente. Potevo chiudere gli occhi ed immaginare di afferrare i suoi capelli, di mordere le sue labbra.

Questo era l’unico momento in cui lasciavo libere le porte, lo lasciavo invadere il mio cuore e il mio corpo. Le endorfine del sesso lenivano indescrivibilmente il dolore del suo ricordo, ed ero abbastanza forte da rimandare il confronto con me stesso.

 

***

 

 

“Brian…?” Michael non ricevette risposta, e all’ennesimo richiamo decise di aggiungere una mano posata sul suo braccio, per vedere se fosse in stato catatonico o semplicemente perso in un altro mondo.

 

L’oggetto dei richiami alzò di scatto la testa, togliendo bruscamente il braccio dalla stretta dell’amico.

“Eh?”

 

Michael e Debbie, la cui presenza sino a quel momento era stata ignorata da Brian, lo guardarono straniti.

“Ti ho detto che il prossimo mese c’è la inaugurazione della personale di Topino.” Rispose la donna, osservando attentamente la sua reazione.

 

Poteva anche dire ciò che voleva, ma gli occhi di onice liquida non mentivano a chi lo conosceva bene come lei.

Vide chiaramente un guizzo di fastidio attraversarli, ma l’apatia impiegò solo qualche secondo a tornare.

 

“Ah”

“Riuscirai ad articolare dei suoni coerenti o devi interpretarli io?” Sbottò Michael.

Brian si trattenne dal rispondere con un “Uh-uh”, e si limitò a fissarlo, sperando che interpretasse la sua espressione e lo lasciasse stare.

 

 

Per quale diavolo di motivo doveva andare alla stupida mostra?! L’aveva lasciato andare, il contratto del Compagno-che-si-sacrifica non comprendeva il supporto morale continuo, una volta che l’altro se ne era tranquillamente volato a km di distanza.

Dimenticarlo era stato semplicemente impossibile, ed ora che stava lentamente recuperando i suoi comportamenti pre-Justin, senza che fossero e risultassero una forzatura spaventosa sia per lui che per gli altri non era certo disposto a fare la moglie orgogliosa ad una personale.

 

 

Tutti si aspettavano che saltasse in piedi, prendesse il primo volo per NY ed andasse da lui per abbracciarlo.

Brian non capiva come potessero essere così atrocemente insensibili nei suoi riguardi.

Piuttosto che ammetterlo ad anima viva si sarebbe fatto torturare, ma era rimasto colpito da come tutti vedessero Justin come la povera vittima, isolata in un freddo orribile mondo grigio, mentre lui era semplicemente il solito stronzo privo di anima.

 

Non vedevano? Come diavolo si poteva essere così fottutamente ciechi?

 

“Farai meglio a venirci stronzetto, o ti ci trascino per le palle” La voce petulante s’inserì nel monologo interiore e Brian si ritrovò al Diner, a girare il cucchiaio in una zuppa di piselli, fredda.

 

“Devo andare a lavorare.”

“Ma è domenica!” Michael urlò ad una porta ormai chiusa.

 

 

 

Una folata di gelo gli frustò il viso e Brian dovette infagottarsi maggiormente nel giubbotto di pelle.

Era uno dei Febbrai più freddi degli ultimi anni, in tono con l’umore di Brian, e la sensazione di avere dei ghiaccioli sotto il mento gli fece compagnia sino alla macchina.

 

La Corvette era stata congedata in onore di una Porche nera, in cui il pubblicitario si infilò velocemente.

Passò lentamente il dito infreddolito sul volante di pelle, tracciando i contorni delle cuciture che lo delineavano.

Lavorare. Un flash attraversò le nuvole apatiche che si erano create dentro di lui, e lo riportò alla realtà. L’unico modo che conosceva per non pensare era pensare ad altro, che si traduceva nel lavorare come un workaholic sino alle ore più impensabili.

 

Gli introiti della Kinnetik erano saliti alle stelle, così come il senso di solitudine che sentiva dentro.

Ma tant’è, avrebbe dovuto farci l’abitudine.

 

 

Compose velocemente il numero sullo stiloso telefono grigio che c’era sulla scrivania, ed aspettò che prendesse la linea.

 

“Cynthia…volevo solo dirti che, se non hai programmi, io sono alla Kinnetik, quindi puoi venire anche tu.” “Ovviamente sotto straordinari.” Si sentì in obbligo d’aggiungere.

A volte aveva la fastidiosa sensazione che la sua assistente si precipitasse più per fargli compagnia che per zelo professionale.

 

Aveva perfettamente compreso la natura del cambiamento di Brian ed si era dimostrata più che disponibile ad essere presente anche nelle ore più tarde. Rivedevano i contratti e le proposte dei vari dipartimenti, sempre più qualificati e popolati, e magari finivano per bersi un bicchiere di Whiskey seduti sul pavimento freddo con la schiena poggiata al divano e le scarpe abbandonate accanto a loro.

 

“Tanto non ho nulla da fare, vengo subito.” Rispose lei con una vena di agitazione che non sfuggì all’uomo.

 

 

 

 

“Hey, più veloce di così non sono riuscita. Allora, che vogliamo fare?” Entrò dalla porta di vetro con un caldo sorriso e una pettinatura alquanto improvvisata.

 

“Volevo rivedere le idee del brainstorming sulla nuova campagna della Norton Project. Per fare una tempesta di cervelli questi dovrebbero essere nella testa di quegli idioti.” Borbottò Brian.

 

In realtà avevano fatto un ottimo lavoro, ma lui voleva lavorare e voleva la compagnia di una delle uniche persone che non lo guardasse come un cucciolo ferito o uno stronzo senza cuore, e soprattutto che non gli chiedesse ogni 50 secondi cosa diavolo avesse.

 

 “Mettiamoci al lavoro.”

 

 

***

 

“Ho la sensazione che sarà l’evento artistico dell’anno.”

Linsey era sempre leggermente troppo ottimista, ma una iniezione di complimenti non aveva mai ucciso nessuno.

 

Dopo un abbraccio degno di una lesbica camionista mi aveva letteralmente trascinato in giro per la galleria, pretendendo che le illustrassi ogni suo mattone.

Ormai la preparazione era quasi terminata ed i miei quadri stavano venendo fissati alle varie pareti, pronti per gli ultimi ritocchi in caso decidessi uno spostamento.


La cornice era stata decisa dalla mia agente-seconda madre-fardello instancabile, che era stata irremovibile sull’aspetto ‘elegante e lineare’ dell’intera personale.

Era scesa da Vancouver una settimana prima di Mel ed i bambini, appunto per aiutarmi negli ultimi preparativi e per asfissiarmi liberamente sulla assoluta necessità di restare a NY almeno per altri 3 o 4 anni.

Si era sentita in dovere di ricordarmelo appena aveva visto la mia espressione, che ormai era uno sbiadito ricordo degli occhioni modello Bambi che sfoggiavo sino a qualche tempo prima, più precisamente 24 mesi e 9 giorni.

 

 

Ero comunque più che felice di vederla, perché la sua compagnia aveva sempre avuto il potere di rasserenarmi e la sua presenza di infondermi una sicurezza quasi materna.

Certamente sentirmi ripetere di continuo che ‘meraviglia’ fosse ogni cosa su cui avevo poggiato un pennello non era neanche male.

 

“Grazie, ma non credo sarà così sensazionale. Qui è pieno di artisti emergenti esattamente come me.”

“Ma quanti hanno in cantiere una personale alla Grant Gallery di NY?!” Mi fissò con i dolci occhi azzurri, passando una mano sulla mia nuca, dove incontrò una folta coltre di capelli biondi. Avevo perso il conto dei mesi passati dall’ultimo incontro col parrucchiere, ed ormai avevano raggiunto la lunghezza di prima che li facessi impietosamente rapare a zero da una pazza con il rasoio, in onore dei Ping Posse.

 

“Forse tutti quelli il cui sedere è particolarmente interessante per il padrone della galleria.” Azzardai.

Mi lanciò una occhiataccia e tornò a guardarsi attorno, prima di fermare imperiosamente un operaio che maneggiava grossolanamente una tela rosso fuoco.

 

Sfruttai l’occasione per allontanarmi e sparire tra i corridoi. Tanto non se ne sarebbe accorta, impegnata com’era ad organizzare la mia ‘unica ed incredibilmente irripetibile occasione’.

 

Finii inevitabilmente per raggiungere il muro terminale di una delle due gallerie.

Era di un caldo color crema, illuminato accuratamente da una serie di faretti. Era esattamente come molti altri posti in quell’edificio, ma ciò che lo rendeva speciale era la posizione. Arrivando dalla direzione opposta risultava nascosto agli occhi e ciò permetteva, appena girato l’angolo, di restare impressionati dall’opera appesa. Doveva essere di grandi dimensioni e rappresentare una sorta di conclusione in grande stile alla esposizione.

 

Avevo deciso, prima ancora di dipingerlo, quale tipo di quadro sarebbe stato posizionato sul muro dell’eccellenza.

La Personale era come una sorta di conferma, un punto di svolta nella mia vita artistica e personale. Perciò avevo deciso di esporvi quadri che rappresentassero veri e propri frammenti del mio vissuto.

La maggioranza non erano episodi materialmente accaduti, ma piuttosto la loro ripercussione su di me ed i cambiamenti che avevano procurato, in bene e in male.

 

La mia prima notte con Brian. Il piccolo titolo nero scritto accanto era Certainty. Si riferiva all’esplosione di colori rosso-arancione al centro esatto di un magma liquido di toni spenti e freddi. Così come saltava subito all’attenzione quella piccola eccezione all’atmosfera generale del dipinto, in me era stato chiaro come il fatto che respiravo che Brian sarebbe stato mio, lo sarebbe stato per molti anni a venire, se non per sempre.

Ne ero sicuro ed i suoi rifiuti successivi non erano stati in grado di scoraggiarmi a sufficienza. Mi veniva quasi da ridere al pensiero di cosa eravamo diventati negli anni a venire.

 

Il Bashing. Il ricordo della rabbia, del dolore e della solitudine intensa che avevo dentro mi colpiva ancora violentemente ed ero in grado di tracciarne ogni singolo contorno con precisione.

Ero totalmente privo di fiducia nel genere umano, non capivo come potesse essere successa una cosa del genere, come un semplice bacio avesse scatenato un incubo, con delle conseguenze che ancora adesso sono visibili.

La tela aveva numerosi soggetti. Una mano filiforme e inumana, serrata in una contrazione involontaria. Schizzi di rosso che inondavano i bordi dello spazio rettangolare, così come avevano inondato la mia vista prima che perdessi i sensi, subito dopo aver sentito il grido disperato che tentava di salvarmi. E quell’unica persona che mi aveva realmente salvato.

 

Naturalmente, il quadro posto sul muro finale avrebbe dovuto rappresentare una sorta di conclusione ad un periodo della mia vita, un sintetico riassunto del mix di emozioni che mi agitavano in quei giorni, di ciò che sentivo pur senza riuscire ad identificare.

 

Non sapevo che il risultato fosse soddisfacente, ma potevo chiaramente vedere la mia anima impressa a fuoco tra le pennellate e tutto ciò che erano sentimenti privati e nascosti ad occhi esterni e fastidiosi. Avevo deciso di tirare fuori tutto, convinto che mi sarei sentito meglio.

Non era stato così, ma avrei avuto la soddisfazione di vedere i volti confusi degli spettatori, di fronte a ciò che non capivano.

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo di passaggio, parecchio noioso a mio avviso. Spero lostesso che vi piaccia, e come sempre le recensioni sono graditissime ^.^

Credit: Lyrics by Three Days Grace - Over and over

 

 

 

 

 

 

  
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