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Autore: Sen    12/06/2014    2 recensioni
Il fumo denso della sigaretta saliva al cielo lentamente.
La notte scura, di quell’indaco marcato, rendeva le stelle iridescenti e fredde.
La luna era scomparsa, nera come un disco vuoto, una mancanza necessaria.
Lei socchiuse gli occhi bistrati, lunghi e scuri, come quelli di un gatto.
Le labbra rosse e lucide avevano lasciato un segno sul filtro bianco e sottile.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Forte, Fortissimo

Arrivarono alle prime luci dell’alba, come ogni attacco degno di nota conosciuto nella storia.

Come una fiumana scura e inarrestabile.

Come sangue che sgorga da una ferita profonda.

L’allarme era risuonato, chiaro e potente, non appena avevano varcato il limitare del bosco sacro, entrando in contatto con la barriera, sopita ed invisibile, di Athena.

Quella chiamata fatidica, che aveva, tuttavia, trovato i Santi già pronti e tesi nell’attesa della lotta e i civili già schierati, giù in quel piccolo paese.

Agathe era dietro a Minos, una corta spada a doppio taglio stretta tra le mani fredde, il respiro lento e calcolato, gli occhi puntati sulle ali nere della Surplice che aveva di fronte.

Dietro di lei, poteva avvertire gli altri cittadini stringere tra le mani forconi e badili e quant’altro poteva diventare un’arma.

Riusciva ad avvertire una cupa determinazione e una sorta di orgoglioso timore, ma non paura, mai, perché, loro, erano cittadini di Rodorio ed avrebbero combattuto per la libertà.

Albafica, ti prego, guardaci! Vedi in cosa ci ha trasformati la tua dedizione e cosa ci ha insegnato il tuo valore! Ci hai protetti a costo della vita, ed ora, noi sapremo camminare da soli!

Invocò, quasi fosse una preghiera, mentre i primi raggi del sole si allungavano per le vie di ghiaccio.

Deuteros era in piedi, dritto, di fianco a Minos, di fronte alla via principale. L’oro della corazza lucente e letale, i capelli appena mossi dalla brezza che spirava dal mare, gonfiando il mantello.

Le labbra stirate in un mezzo, beffardo sorriso, negli occhi una scintilla divertita, catalizzata dall’adrenalina del combattimento imminente.

Avvertiva i cosmi dei soldati di Hades ardere, cruenti e terribili, mentre incedevano verso la loro meta, ma ne avvertiva altri scivolare sul ghiaccio invisibile di Dégel e perdersi nei campi di fuoco di Eranthe.

Il Santo dell’Acquario fu accanto a lui, il volto serio, le mani strette a pugno.

Eranthe era pronta, appena dietro al santo dei Gemelli, la spada che stringeva tra le mani, lo sapeva, era assolutamente inutile, ma contribuiva, tuttavia, a farla sentire protetta.

Come se i muscoli tesi e possenti del suo uomo e l’oro della sua corazza non fossero sufficienti, pensò stizzita, menando un fendente in aria, come a voler sciogliere le braccia.

Sospirò voltandosi un poco verso la sua Surplice, che se ne stava appollaiata accanto a lei, in una posa conciliante.

“Per una volta che mi servivi...”, le sussurrò a mezza bocca, corrugando la fronte come si fa con i bambini capricciosi.

Non ancora…, parve rispondere la Fenice, sorridendo, a suo modo.

Deuteros si voltò, allora, verso di lei, mentre il clangore delle corazze e le grida degli aggressori si facevano sempre più vicine.

Le mani della donna cominciarono a tremare, mentre i suoi occhi erano inchiodati a quelli di lui.

Ti amo, Eranthe. Tanto da far male.

Poi si lanciò nella battaglia, e lei, guardandolo, splendido e terribile, si chiese se non avesse semplicemente immaginato le parole esplose nella sua mente.



Polvere, sudore, sangue e morte si rincorrevano per le strade di Rodorio, quella mattina. Il cielo, roseo nei colori dell’alba, era tinto di sangue scuro e l'aria permeata di urla di dolore e lamenti di agonia.

Eranthe fece appena in tempo a registrare il fatto che la spada che stringeva tra le mani fosse coperta di fiamme oscure e che la sua Surplice la seguiva in ogni movimento come un cane fedele. Un soldato di Hades la caricò, sfuggendo per miracolo alla strenua difesa di Deuteros, costringendola ad attaccare; lei tremò quando avvertì la lama affondare nel collo dell’uomo, scevro di protezione, e lacrime calde scesero sulle guance, quando percepì la vita lasciare i suoi occhi chiari.

Fiamme incontrollate presero ad ardere impietose, chiudendo, di fatto, l’apertura alla sua sinistra.

“Stai bene, Eranthe?” La voce del Santo dei Gemelli le giunse chiara, sovrastando il clangore della battaglia, con una sfumatura di accesa preoccupazione.

“Certo! Non ti preoccupare per me”, dissimulò lei, stringendo nuovamente la spada, gli occhi decisi.

Lo avvertì ridere, al suo maldestro tentativo, e poi il suo cosmo esplose in un torrente di lava.



Agathe si accorse che, di fatto, Dégel, Deuteros e Minos, stavano gestendo la maggior parte dei nemici.

I loro cosmi, che esplodevano e creavano universi, le ricordavano stelle infuocate al limite del cielo. Ai cittadini erano lasciati solo i semplici soldati, un numero esiguo, fatti passare più per testimoniare il valore dei civili, piuttosto che per effettiva utilità.

I suoi occhi verdi si posavano sul Giudice del Grifone, impegnato a trasformare un manipolo di cinque soldati in un macabro teatro di marionette.

Nonostante il pallore accentuato e le cicatrici che costellavano la sua pelle, arrossì lei stessa pensando a quanto erano state evidenti la sera precedente; i suoi occhi erano seri e concentrati e non lasciavano spazio a dolore o sofferenza.

Completamente assorbito nel combattimento, contro quelli che, fino a pochi giorni prima, erano stati suoi alleati.

A lei sarebbe piaciuto poter guardare attraverso la sua anima e capire che cosa provasse e sentisse davvero lui, al di là del suo sorriso sprezzante ed i suoi occhi grigi.

Una spinta la fece spostare di colpo, mentre Eranthe assestava un fendente di fiamme dritto nel costato di un soldato.

“Fai attenzione, Agathe”, l’ammonì con un mezzo sorriso. “Ormai sono quasi terminati.”

Poi qualcosa esplose, appena sopra alle loro teste, un’arca scura, di enormi dimensioni li sovrastava, volando su, fino al Tredicesimo Tempio.



Sage sapeva che qualcosa sarebbe successo, e che il nemico avrebbe dovuto, volente o nolente, apportare modifiche sostanziali al piano iniziale, una volta appurata la sopravvivenza e sospettato il tradimento di Minos.

Non credeva, in tutta onestà, che fossero così ben organizzati, in un assetto quasi speculare al loro.

Ce la faremo.

Si disse, sperando negli occhi azzurri del Sagittario, nei muscoli possenti di Dohko e nella saggezza di Shion.

Guardò, quindi, verso Athena, vestita della sua armatura; di fianco a lei, Tenma di Pegasus, pronto alla battaglia, fino all’ultima goccia del suo cosmo e della sua vita. La loro imbarcazione, come Arca della Speranza, si librava nel cielo, a fronteggiare quella del nemico.

Ce la faremo.

Si disse, avvertendo suo fratello Hakurei teso appena dietro a lui, pronto nel suo compito, qualora si fosse palesato il Dio del Sonno.

Ce la faremo.

Si convinse, con tutto se stesso, quando avvertì il gelo dell’Acquario raggiungerli, fulmineo, salendo da Rodorio.

Stirò le labbra in un sorriso crudele, che avrebbe fatto invidia a Manigoldo, mentre concentrava il suo cosmo in una sfera di anime, nel palmo della mano.



Il Giudice di Garuda rideva come un pazzo, con gli occhi scuri intenti ad osservare la battaglia senza quartiere che aveva investito come una piaga lo spiazzo antistante la statua di Athena.

Il suo braccio attorno alla vita di una donna terribile quanto bella, dai lunghi capelli neri e dalla pelle segnata da cicatrici e bruciature.

Gli Specter del suo esercito, combattevano fino allo stremo, per poi tornare, da cadaveri, sotto il suo controllo, e lottare di nuovo.

Sage abbassò gli occhi ai colpi di Regulus di Leo, poco più di un bambino, che si lanciava contro il nemico con la grazia felina della costellazione che rappresentava, sotto l’egida dello zio Sisifo.

E il Sagittario, le sue ali d’oro spiegate a riflettere il sole nascente e lo sguardo deciso, senza rimpianti, senza tentennamenti, che di tanto in tanto andava ad Athena.

“Sai che il tuo volto da eroe mi da il voltastomaco?”, lo schernì Aiacos, le ali nere riflettevano i raggi del sole, creando una luce oscura di disperazione.

Violate, accanto a lui, si sporse a baciargli le labbra, prima di lanciarsi sul piazzale a dare man forte agli altri soldati.

Fu solo allora, che Sisifo si accorse della mano, fredda, di Athena stretta nella sua. Il suo sguardo limpido e sorridente, prima dell’inevitabile scontro.

“Non dovresti essere qui”, l’ammonì lui, preoccupato.

Ma lei rise.

“Questa è la mia guerra, Sisifo. Tu sei il mio primo cavaliere”, gli spiegò, “E qui è dove voglio combattere. Affianco a te.”

Poi il suo viso divenne cupo.

“Hades è vicino. Avverto il suo cosmo scalpitare. Presto dovrò combattere, sola, contro di lui, nella via che è preclusa a voi umani.” Gli sorrise di nuovo. “Non voglio lasciarti solo, ora.”

Poi gli accarezzò una guancia, attirandolo a sé e cercando le sue labbra.



Il combattimento che seguì fu devastante. Il Giudice di Garuda si scagliò con tutte le sue energie contro il santo del Sagittario, fedele al suo preciso dovere di annichilire la sua stessa esistenza.

Sisifo arrivò ad accecarsi pur di non cedere alle illusioni del cosmo nemico e riuscire a sostenere gli attacchi per proteggere Athena.

Anche solo per non farla preoccupare, anche solo per salvarla da qualsiasi dolore.

Poi accadde, come un fulmine che preannuncia una tempesta.

Regulus di Leo impegnato nel gravoso compito di combattere contro Violate di Behemoth, era riuscito, al termine di ore estenuanti, a sopraffarla.

E Sisifo vide il Giudice, l’uomo, che aveva di fronte, spezzarsi.

La spavalda decisione lasciare il posto ad un cupo, profondo dolore.

La furia accecò il suo cosmo, il dolore lo rese ancora più oscuro.

No, Violate...

E dai suoi occhi che avevano sempre mostrato quella scintilla di puro, orgoglioso divertimento, cominciarono a fluire, inattese, lacrime di fuoco.



Manigoldo zoppicava ancora pesantemente quando, la mattina successiva, i cosmi dei suoi colleghi lo destarono da un sonno profondo e ristoratore, costringendolo ad alzarsi e preparare un caffè.

La sigaretta pendeva dalle sue labbra, pericolosamente angolata verso il suo petto nudo, mentre il sole, lentamente, rischiarava il cielo esplodendo nei colori dell’aurora.

Soppresse una risata, mentre stringeva i denti sul filtro, forte, fortissimo, per impedire al suo cosmo di rispondere agli altri, di brillare di quella luce terribile e perdersi nella nebulosa di Praesepe.

Avrebbe dovuto combattere, pensava mentre i muscoli possenti delle braccia si tendevano e le mani si chiudevano a pugno.

Avrebbe dovuto esplodere, come loro.

Con loro.


Tuttavia.

Il suo corpo si rilassò di colpo.

Tuttavia non poteva. Perché sulla sua testa gravava un compito ancora maggiore, ancora più impegnativo, ancora più importante.

E lui che era avvezzo a recidere esistenze e reclamare anime, aveva dovuto farsi carico di proteggere una vita.

Rise scuotendo il capo e bruciandosi il petto col mozzicone.

Rise, per scacciare dal suo cuore e dalla sua mente quello scampolo di donna, che ancora riposava nel letto di quella casa modesta.

Quasi come se fosse una situazione normale.

Quel tepore che lo aveva accompagnato nel sonno, accanto a lei.

Quel profumo di frutta e d’estate che sembrava accompagnarla sempre.

Quella vita che si muoveva, dentro di lei, che cresceva, trasformandola, ai suoi occhi, in una dea di fertile gioia.

Quelle labbra, che avrebbe voluto baciare ancora, e ancora, e non con fraterno affetto, come era accaduto la sera precedente.

Che avrebbe voluto dischiudere per assaggiare il sapore della sua bocca, della sua lingua.

Scosse il capo, versandosi il caffè. Nero e scuro, come la fuliggine di quel vulcano che l’aveva visto diventare uomo e tornare Santo.

Gli aveva scottato la gola, amaro come l’inferno, mischiandosi con il tabacco.

Togliendogli dalla testa quel sentimento di miele, per qualcuna che non poteva nemmeno guardare da lontano. Per lei, che aveva ancora il cuore occupato da altri occhi e da altre mani.

“Buongiorno...”, gli disse assonnata, dalla porta della camera da letto. La vestaglia sulle spalle, i capelli ancora in disordine, il sorriso abbozzato. E lui aprì le labbra per replicare, quando una folata di vento, freddo, gelido, spalancò la porta.

Con quell’istinto dettato dall’esperienza, Manigoldo la nascose, dietro di sé, nel vano tentativo di proteggerla.

“Ora è giunto il momento di pagare, Cancer, per quella tua maledetta insolenza. Per aver sigillato il mio gemello Thanatos!”, tuonò Hypnos, e sembrava ancora più maestoso e terribile, di fronte alla porta della loro casa.


“Vattene Francine, scappa.”, sussurrò, letale. “È me che vuole”, concluse allontanandola con un braccio e richiamando la sua Armatura.

La risata che esplose sulle labbra del dio del Sonno li fece raggelare.

“Sbagli, Santo!”, lo apostrofò. “Lei porta in grembo il figlio di quel bastardo che ha avuto la sfrontatezza di sigillare i miei, di figli!”

Manigoldo impallidì, la verità dietro quelle parole di tenebra lo colpì come un frustata in pieno volto.

“Merda”, lasciò le sue labbra, prima che lo potesse controllare.

Il braccio teso ad allontanarla, si richiuse, a stringerla, accanto al calore confortante dell’oro delle sue stelle.

“Manigoldo...” La voce di lei, simile ad un soffio di brezza d’estate. E a lui tornarono alla memoria le sere, giù a Rodorio, con El Cid, Albafica e Sisifo, quando l’aveva vista la prima volta da Melina.

La piccola francese un po’ scostante, per nascondere la timidezza, un po’ ruvida, per nascondere l’imbarazzo.

E Sisifo che l’aveva avuta per primo, tra tutti loro; poi Dégel, che portava il suo paese nel cuore; quindi Kardia, che doveva provare tutto quello che faceva Dégel; perfino Shion, solitamente così pacato e poco incline a quel tipo di diversivi.

Poi El Cid, e lui aveva visto i suoi occhi cambiare espressione, cambiare luce.

Ed aveva scelto un’altra compagnia.

Non perdendo occasione di schernirla, così da dissimulare i suoi autentici sentimenti.

Possibile che il caprone avesse capito? Possibile che mi conoscesse così bene?

Evitando perfino di guardare nella sua direzione, di incrociare il suo sguardo o di sfiorarla.

“Non preoccuparti, Francine. Ci sono io.” Morirò io al posto tuo. “Sei talmente meschino, Hypnos, da combattere contro una ragazza incinta?”, lo schernì, il viso distorto in un ghigno.

La lasciò andare, la mano stretta nella sua solo per un secondo, gli occhi oltremare a comunicarle di scomparire.

Il dio attaccò, il suo cosmo esplose e lei fece appena in tempo ad uscire dalla finestra della cucina e correre lungo la via, fino al mare.

Le lacrime le offuscavano la vista, il dolore le mozzava il respiro.

Non di nuovo, non di nuovo! Athena, ti prego, non prenderti anche lui!

Ma continuava a correre, attenta a non inciampare, a non mettere in pericolo la vita dentro di lei che, catalizzata dal timore, faceva capriole nel suo ventre.

Arrivò al mare, un urlo di frustrazione le esplose dalle labbra, mentre si inginocchiava sulla sabbia.

Avvertì il cosmo di Manigoldo esplodere, come un vento caldo sulla pelle.

“Athena, aiutaci”, pregò, come le aveva insegnato Melina, tempo prima, in quel greco strascicato, sporcato da quel francese ormai lontano.

E come a voler rispondere a quelle preci, una mano calda le sfiorò il capo, protettiva.

Francine alzò lo sguardo, specchiandosi negli occhi sorridenti di Hakurei.

“Rimani qui, bambina”, l’apostrofò. “Vado a vedere cosa combina quel Manigoldo!”


Le fece l’occhiolino, e a lei sembrò per un attimo di avere di fronte non un saggio guerriero ma solo un ragazzo.



Qualcosa non quadrava, sul serio. Minos era un traditore, un rinnegato, era stato ferito dai nemici, dagli alleati e dalla donna che amava. Ma non era uno stupido. E l’attacco dei soldati di Hades ed alcuni Specter minori giù a Rodorio, non l’aveva convinto. Affatto.

”Ehi, Gemelli”, aveva quindi apostrofato il Santo che aveva appena atterrato il Licaone, poco distante. “Non sembra anche a te che manchi qualcosa?”.

Annuì al sorriso di scherno che aveva stirato le labbra di Deuteros.

“Ci puoi giurare”, ammise l’altro. “Ma credo che questa sia solo la quiete prima della tempesta”, concluse, mentre andava con lo sguardo ad Eranthe, a fianco di Agathe, che combatteva decisa, le sue fiamme indaco brillanti nella sera.

L’ultimo soldato fu atterrato da un gruppo di cittadini, che si guardarono attorno stupiti, nel silenzio irreale che si era venuto a creare dopo il clangore di Surplici e Armature.

I forconi, badili e spade alzati al cielo in segno di vittoria, urla ed esclamazioni di gioia, stornelli appena accennati, mentre si curavano i feriti, si contavano i morti e si parlava di andare alla taverna di Giorgòs a festeggiare, domani.

Solo loro rimasero all’erta. Eranthe si avvicinò cauta a Deuteros, la Fenice fluttuava accanto a lei.

“Grazie! Mi sei stata davvero utile...”, la schernì lei, mentre avvertiva qualcosa colare dal braccio.

“Sei ferita”, asserì il santo dei Gemelli, cupo. “Fa’ vedere”, le intimò prendendole la mano dolcemente, in contrasto con il suo tono ruvido, e tamponando il sangue col suo mantello.

Minos si era avvicinato, assieme ad Agathe.

“State bene?”
Ma prima che potesse udire una risposta, con un sobbalzo dalle stelle, l’Armatura dei Gemelli abbandonò uno stupito Deuteros per sparire ad occidente, in una scia di luce, richiamata da un cosmo sconosciuto.

“Che diamine sta succedendo?”, esclamò lei preoccupata, guardandolo negli occhi.

Una risata sguaiata che proveniva cupa dal limitare del bosco attirò la loro attenzione.

“Anche la corazza ha deciso di abbandonarti, Santo dei Gemelli?”

Il viso di Minos, se possibile, impallidì ancora di più.

“Rhadamanthys”, soffiò a mo’ di saluto, gli occhi grigi attenti, dentro di lui, una morsa di gelo gli serrava la gola.



Lune di Balrog era uno Specter attento e paziente. Il suo compito di catalogatore e storico gli forniva elementi di vantaggio su potenziali avversari e lo aveva istruito all’arte di gestire strategie ed attendere il momento opportuno.

Lune di Balrog, tuttavia, era anche un uomo decisamente permaloso e raramente perdonava un torto. Non avrebbe mai coscientemente compreso la decisione del suo Generale di abbandonare le armate per difendere una mera femmina che, con ogni probabilità, aveva utilizzato le sue arti per distoglierlo scientemente dal suo obiettivo, magari proprio per fornire un vantaggio ai Santi di Athena; ma era più che deciso ad impartire a suddetta donna una lezione che difficilmente avrebbe scordato.

Così aveva messo in atto un piano perfetto, osservando, scrivendo, attendendo il momento in cui colpire.

Era planato a sera, dolcemente, sulla spiaggia di un’isola minuscola, trovandovi una catapecchia nella quale risiedevano un’anziana signora ed una bambina dagli occhi verdi.

“Buonasera”, l’aveva salutata lui, lo sguardo cordiale, la tunica nera a celare la Surplice. “Sono un amico della mamma, puoi dirmi dove la trovo?”, aggiunse sfoderando un sorriso di miele.

La bambina lo guardò piegando la testa di lato, i capelli di un biondo cenere ondeggiavano sospinti dalla brezza che spirava dal mare.

“La mamma non c’è”, disse, seria come solo una bambina di quattro anni può essere. “E tu sei troppo brutto per essere suo amico.” Si voltò e fece per rientrare quando lui la fermò di nuovo.

“Aspetta, piccina.” Dimitra si voltò lentamente, per nulla convinta. Lune sospirò, doveva farsi venire in mente qualcosa, e in fretta. Quella monella aveva letto al di là della sua facciata e doveva rimediare, prima che arrivassero i rinforzi.

“Ti faccio vedere un gioco, che ne dici?”, concluse mentre la frusta prendeva forma nella sua mano.

“No. Mi piacciono solo le marionette dello zio con le ali.” Incrociò le braccia, spingendo il labbro inferiore in un broncio deciso. Lune sbuffò sonoramente; Minos era molto più brutto e inquietante di lui, con quella sua improbabile capigliatura...

Rabbrividì, involontariamente, al solo pensiero del Grifone che faceva ballare marionette per la bambina, srotolando la frusta.

“Poco male”, sfuggì alle sua labbra tese.

Poi sollevò il braccio.

Areia giunse correndo, urlando alla piccola di scappare.

Concentrò il cosmo in volute di oscurità.

Dimitra sorrise.

Calò la frusta verso di lei, con precisione.

Colpendo senza successo l’armatura dei Gemelli che le si era materializzata davanti, proteggendola.

Areia cadde in ginocchio, il cuore le martellava nel petto, mentre prendeva in braccio la bambina, come se potesse proteggerla.

“Maledizione!”, imprecò Lune, distruggendo, in un attimo, la maschera di calma e pazienza che si era imposto per tutto quel tempo.

Concentrò il suo cosmo.

Reincarnation!”

Ma nel cielo, appena sopra le loro teste, si materializzò la nebulosa di Praesepe.

Il sommo Sage scaricò su di lui il suo colpo più potente, distruggendo la Surplice, e recidendo il filo della sua esistenza.

“Areia, Dimitra, state bene?”, domandò, preoccupato, correndo ad abbracciare entrambe. L’anziana donna annuì, le lacrime che le scendevano dagli occhi rendevano impossibile parlare.

“Ciao nonnino. Hai visto che bel regalo mi ha mandato papà?”, asserì la piccola, per nulla spaventata da quanto appena accaduto.

E Sage non poté fare a meno di sorridere, di rimando, ben consapevole delle implicazioni di quell’Oro, meraviglioso e tremendo, che brillava dinnanzi a lei.

“E così hai scelto, eh, Gemini?”, si sorprese a sussurrare a quell’Armatura che aveva preteso, nei secoli, il sangue dei fratelli.

“Questa volta sei stata saggia, a scegliere una figlia unica...”, rise, baciando il capo riccioluto di Dimitra, che profumava di fiori e di salsedine.



Sisifo si rialzò lentamente, i suoi occhi feriti non riuscivano a scorgere altro che i contorni sfocati di macerie e distruzione.

L’ultima cosa di cui era cosciente era lo sguardo stupito di Aiacos, mentre la sua freccia d’oro gli trapassava il petto, talmente intrisa di cosmo da sbalzarlo letteralmente dalla sua nave e scaraventarlo giù, verso Rodorio.

I corpi degli Specter disseminati come costellazioni oscure sul marmo bianco del Santuario.

Le stelle dei Santi spente, sopite, a silenziosa testimonianza della dipartita dei loro protetti.

Shion e Dohko erano feriti, ma ancora vivi, mentre incedevano verso di lui, lentamente sostenendosi a vicenda.

Dégel era riverso poco distante, l’esplosione del suo cosmo aveva creato statue di ghiaccio perfette, tuttavia lui, quel ragazzo studioso e rispettoso, non ce l’aveva fatta.

Il sangue sotto di lui formava un cristallo di neve cremisi.


Regulus, e lì le lacrime gli bruciarono le guance, sembrava sonoramente addormentato, non fosse stato per l’angolazione sbagliata della testa ed i lividi scuri sotto gli occhi serrati.

Poco distante, l’arca oscura di Aiacos e quella di Athena erano distrutte, crollando in pezzi scomposti sulle colline antistanti il Santuario.

Sasha.

Irrazionalmente la cercò con lo sguardo e con il cosmo.

Ma lei non c’era.

Athena non era più con loro, con i suoi occhi impossibilmente saggi sul viso di ragazza, con la risata spontanea che spesso risuonava nelle stanze del Santuario.

Con la decisa determinazione nel condurre questa, ultima, battaglia.

Con le mani bianche che, talvolta, stringevano le sue.

Rammentò, il Sagittario, le labbra che aveva baciato, quella fatidica sera, ed il corpo che aveva amato, anche se solo nell’illusione creata dagli Oneroi, anche solo nella sua anima.

L’aveva protetta, mentre Hades si era palesato, terribile nella sua corazza nera e gli occhi dolenti, difendendola dal colpo diretto contro di lei.

E non aveva quasi avvertito dolore mentre la spada si era conficcata nel suo petto, sentendo solo il suo nome, urlato dalle labbra di Athena.

Poi lei, assieme a Tenma di Pegasus aveva seguito il dio dell’Oltretomba, combattendo nella via degli dei, alla quale lui non poteva accedere.

Nemmeno con tutto il suo amore.

Crollò seduto, malamente appoggiato ad una colonna rovesciata.

Chiuse gli occhi, stanco.

Sembrava che, assieme al sangue, anche le energie ed il suo stesso cosmo stessero lentamente fluendo da lui.

Sto morendo, pensò, mesto, mentre il capo ciondolava di lato.

Una mano corse mollemente allo squarcio sul suo petto, dove la spada di Hades l’aveva trapassato.

Sì, avrebbe riposato solo per qualche minuto, magari, se gli dei decidevano di essere clementi, gli avrebbero almeno concesso di sognare la sua amata.

Magari gli avrebbero concesso di non avvertire quel dolore così pungente ed eterno. Dentro e fuori di lui.

E mentre il suo spirito si innalzava nel cosmo, finalmente libero dalle costrizioni del suo corpo, l’unica cosa che la sua anima vedeva, erano gli occhi, verdi, di lei.

Rhadamanthys avanzò verso le quattro persone che gli si paravano davanti.

Il sommo Hades aveva impartito ordini precisi, lasciare che i semplici soldati e gli Specter minori combattessero, fiaccando Santi e civili.

Poi lui, personalmente, gli avrebbe recato la testa di Minos, possibilmente separata dal resto del corpo.

E la Viverna aveva abbassato il capo, gli occhi attraversati da un lampo di puro piacere, vermiglio, come il suo cosmo. Perché, sì, avrebbe dimostrato anche a quell’irriverente di Aiacos, quanto fosse inutile l’amore, sul campo di battaglia, quanto fosse flebile la sua fiamma, di fronte alla morte, al rogo che lui avrebbe presto scatenato in tutta Rodorio.

Era partito pronto, sacrificando volentieri Valentine e Sylphid, suoi fedeli sottoposti, per fiaccare quell’improvvisato, mal assortito esercito.

Certo, non poteva sperare in avversari più patetici: un traditore, una ragazzina, un santo senza armatura ed una rinnegata.

Sarebbe stato un gioco da ragazzi liberarsi del Grifone e degli altri, fin troppo semplice.

Rise di nuovo, mentre concentrava il suo cosmo nella mani.

Greatest Caution!”

Il suo grido cupo e gutturale sembrò rimbalzare per le vie dell’intero villaggio, azzittendo ogni rumore per una frazione di secondo, quell’attimo così caro agli dei.

Eranthe vide solo una sfera purpurea di pura energia avanzare verso di loro, come se fosse al rallentatore.

“NO!”, udì la voce di Minos, dietro di loro, mentre il Giudice si lanciava verso di lei.

Non può fare in tempo.

Si trovò a pensare con la lucidità di un soldato.

Devo difenderli.

Così, d’istinto, abbracciò quell’uomo di ombra e di fuoco, sorridendo al suo sguardo terrorizzato e stupendosi di come, per una volta, le emozioni fossero così chiare sul suo volto.

Va tutto bene. Questa volta ti proteggerò io.

Avvertì calore, fiamme e disperazione, poi solo il suo nome graffiato dalle labbra di Deuteros.



Un secondo, due, poi riaprì gli occhi che aveva chiuso ermeticamente.

“Sono morta?”, domandò, non avvertendo il minimo dolore, la minima ferita.

Si specchiò negli occhi del Santo dei Gemelli, stupita, rialzandosi lentamente.

“Deuteros...”, iniziò, la voce arrochita dalla polvere. Poi si guardò le mani e le braccia, coperte di metallo nero e lucido.

Si voltò a scorgere le ali che le spuntavano dalla schiena.

Si portò una mano alla fronte a toccare il diadema della Surplice di Bennu che, calda e confortante come un abbraccio, la rivestiva.

Come catalizzato dalla Fenice, il suo cosmo esplose, in una colonna di fiamme, richiamando la corazza dei Gemelli.

Deuteros si rialzò, in pieno assetto di battaglia, accanto a lei.

Eh”, gli sfuggì dalle labbra, distorte in un ghigno da far invidia ad un demone.

“Ora sei davvero nella merda, dannata lucertola!”

NOTE:

Come sempre grazie a Francine e ai suoi consigli e correzioni, grazie di cuore.

Questo capitolo ha fatto da sfondo ad un momento particolare della mia vita, una fermata che sapevo ci sarebbe stata, tuttavia non per questo, è stata meno dolorosa.

Quindi, solo, arrivederci, Dimitra.

  
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