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Autore: loveless_fairy    11/08/2008    4 recensioni
E' la mia prima ff slash, ispirata s "Band of brothers".
"Da quanti anni era finita la guerra? Se guardavo fuori dalla finestra sembrava non essere scoppiata mai. L’America pacifica continuava a dormire sul suo letto di sogni di celluloide cancellando il ricordo di ciò che era stato. La guerra? Solo il soggetto dell’ennesimo film di Hollywood. Eppure se chiudevo gli occhi potevo ancora sentire vivo il ronzio delle granate e il passo pesante dei tank."
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autrice: Soffiodargento

Serie: Band of Brothers (sis perdonami ;_;)

Rating: non saprei effettivamente, comunque non succede nulla.

Capitolo: unico.

Declaimers: come di dic ein questi casi? I personaggi sono reali e appartengono solo a se stessi? Boh? Fatemi sapere!

Pairing: Nixon-Winter o Winter-Nixon, fate voi ^^.

Note: chiedo scusa già da ora. Voi direte: non bastavano le yaoi? Ora pasticcia pure con le slash? E avete ragione! Solo che è il compleanno della sis e, come ogni anno, voglio regalarle una mia pazzia. Tanto la sis mi perdona, vero *_*? Giù il mitra sis >.< ! È un po’ piccolina ma spero ti piacerà lo stesso.

Note 2: chiedo scusa per ogni irregolarità e diversità dalla storia originale, ma la mia memoria è ormai un treno deragliato usurato dal tempo. Forse i due protagonisti vi sembreranno ooc, ma credo che la guerra cambi un po’ tutti.

 

*** *** ***

 

La porta si richiuse alle mie spalle con un tonfo sordo. Rimasi a guardare il mio appartamento vuoto che di notte mi sembrava ancora più squallido.

Aprii il frigo e presi una birra, prima di accendere la tv e andarmi a sedere sul divano.

Da quanti anni era finita la guerra? Se guardavo fuori dalla finestra sembrava non essere scoppiata mai. L’America pacifica continuava a dormire sul suo letto di sogni di celluloide cancellando il ricordo di ciò che era stato. La guerra? Solo il soggetto dell’ennesimo film di Hollywood. Eppure se chiudevo gli occhi potevo ancora sentire vivo il ronzio delle granate e il passo pesante dei tank. A volte, la mattina, guardandomi allo specchio, faticavo a riconoscervi l’immagine che di me avevo creato nel presente. Il volto mi sembrava sempre troppo emaciato e contuso. Sui miei abiti nessun prodotto per il bucato riusciva mai ad eliminare l’odore acre del sangue.

“Devi lasciarti la guerra alle spalle” continuava a ripetermi Nixon, “Ormai è tutto finito”. Ma guardandolo negli occhi mi chiedevo se almeno lui credesse alle sue parole.

 

Dei miei compagni avevo perso ogni traccia.

Il mese precedente c’era stata una riunione di vecchi commilitoni a New York. Dopo aver cercato di convincermi a seguirlo, Nixon era partito da solo. Per tre giorni ero rimasto ad osservare il telefono muto, aspettando una chiamata che, sapevo, non sarebbe mai giunta, perché lui non ne era il tipo e perché io non la volevo, anzi la temevo e lui lo sapeva. Al suo ritorno, come da tacito accordo, la nostra vita e la nostra amicizia erano ripartite da quel momento di stallo, come se nulla fosse mai accaduto.

Solo con il tempo, centellinando le parole, inframmezzando i discorsi al rumore assordante della strada e al ronzio confuso della tv, Lewis mi aveva fornito qualche notizia. Il più delle volte l’aveva fatto sorseggiando il suo bicchiere di whisky, quello stesso che mai aveva smesso di bere, buttando giù, ad ogni sorso, un ricordo o un pensiero. Io ero rimasto in silenzio, come sempre avevo fatto, trincerato in quel silenzio un po’ imbarazzante e tuttavia familiare. E poi con lui non c’era mai stato bisogno di parole. Uno sguardo, una smorfia erano sufficienti per noi, lo erano stati in Europa, durante la grande guerra, dove ogni parola poteva significare la morte o la vita dei miei uomini, ed erano sufficienti lì, in quegli attimi che appartenevano solo a noi.

Tuttavia, quella sera, quel silenzio che mi aveva accompagnato e rincuorato durante quei giorni bui, mi appariva come un estraneo e sembrava riportarmi indietro nel tempo.

“E’ che tu la guerra te la porti dentro il cuore.” mi aveva detto una volta Nixon fra i fumi dell’alcol. Io avevo riso: “Che diamine dici? Sei strafatto di whisky!” eppure avevo sempre pensato che lui avesse una vista più profonda della mia.

In vino veritas. Forse è per questo che avevo sempre cercato di evitare ogni contatto con lui quando si ubriacava. Ogni parola, pungente come un ago, colpiva sempre dove la ferita restava scoperta, in quel millimetro di carne aperta al cielo, lasciata libera dalla benda troppo corta. Tuttavia, più io lo allontanavo, più lui mi seguiva e ogni volta che mi voltavo lo trovavo dietro di me, con quel suo passo traballante, come un cane che ritrova la strada dopo l’abbandono.

“Tu la guerra te la porti dentro al cuore” e forse aveva ragione.

Forse è vero, forse non sono mai ritornato in America, forse sono rimasto fra le alpi austriache, in Europa, a leccarmi le ferite dopo la nostra sconfitta. Sì perché a volte la mia mente, implacabile, mi sussurra all’orecchio che i veri perdenti siamo noi e che lui, quel bastardo che ci ha ucciso e che ha portato il mondo sul baratro della follia, in realtà se la stia ridendo. La guerra non è mai finita, continua ancora, nei nostri sogni, nelle nostre menti, nel nostro mondo fatto di piccole realtà, ed alla fine di ogni battaglia ci ritroviamo sul campo doloranti e pieni di ferite. È questa la vera sconfitta.

 

6 giugno 1954. Sono trascorsi già 10 anni dall’operazione Overlord che ci portò dalla pacifica America alla vecchia Europa in subbuglio, sconquassata da una lunga e insensata guerra. Mai avrei immaginato che la guerra i cui cannoni vedevamo nei brevi notiziari al cinema potesse arrivare a bussare alle nostre porte. Era tutto così sfumato e apparentemente semplice. Andiamo, ammazziamo Hitler e ce ne ritorniamo a casa, sani e salvi, alle nostre vite di sempre, congelate nell’attimo della partenza. L’America ha bisogno di noi. Il vecchio Zio Sam ci guardava dai cartelloni colorati con quello sguardo severo. E’ la guerra ragazzi e sta chiamando voi, la sentite? Sembrava dire questo, dentro la sua giacca blu laminata e sotto quel cilindro a stelle e a strisce.

Semplice: andiamo, sbarchiamo, diamo un calcio nel culo al bastardo, con tanti auguri dall’America e ce ne ritorniamo a casa.

Chi ha potuto.

C’è stato un momento in cui mi sono chiesto se qualcuno di noi sarebbe mai ritornato a casa. In Belgio, alle porte dell’infero di ghiaccio che si sarebbe rivelato Bastogne, mi sono chiesto spesso se qualcuno di noi si sarebbe mai salvato. Al di sopra della collina ghiacciata, con i miei abiti che lasciavano trapelare tutto il freddo dell’inverno del nord, mentre alzavo il fucile per sparare al bastardo crucco (un ragazzino... merda!) mi sono chiesto quanti di noi sarebbero stati seppelliti negli anonimi cimiteri di guerra.

Cosa mi abbia impedito di impazzire non lo so neppure adesso.

 

E poi alla fine ce l’abbiamo fatta. Dopo la morte di Hitler il tempo ha preso a correre, forsennatamente. Di lì a poco l’esercito tedesco e quello giapponese si sono arresi e noi siamo infine ritornati a casa. Ma quanti morti ci hanno portato alla pace? Perché per la follia di un uomo il mondo intero ha corso il rischio di sparire avvolto nelle tenebre?

Ancora adesso, a distanza di anni, certe mattine mi sveglio di soprassalto. Allungo la mano al mio fianco cercando di afferrare un fucile che non c’è più, solo perché, nella folle confusione dei miei ricordi, il clacson di un camion diventa il cigolio interrotto di un tank, o perché le urla in strada assomigliano al dolore dei feriti.

Mi sono sempre chiesto come abbiano fatto gli altri a dimenticare, a riprendere la loro vita. Io non credo di esservi mai riuscito e non solo perché, come diceva Lewis, la guerra me la porto dentro, ma anche perché certe cose non si possono mai dimenticare.

 

Quando andai a Parigi, poco dopo la mia prima promozione, quasi costretto da Lewis, ricordo che girai per la città in preda ad un sogno sfumato. I soldati chiacchieravano fra di loro nei cafè, come non avessero mai impugnato un’arma; per strada la gente sorrideva, si scambiava sorrisi, rideva allegra. Quella città, sebbene fino a poco prima, invasa dai tedeschi, sembrava fuori dal mondo, una sorta di isola che non c’è lontana da tutto in cui nessun rumore assomigliava al fischio delle mitragliette e le uniche grida erano di gioia. In America, mi chiedevo, cosa stanno facendo? Che immagine hanno di ciò che sta accadendo qui?

Quando poi incontrai quel ragazzo sul metrò, il suo viso mi diede i brividi. Fu quello il momento in cui capii che, per quanto lo odiassi, non avrei potuto far altro che il soldato perché ormai ero diventato parte del grande meccanismo della guerra. Il volto di quel ragazzo sul metrò mi ricordò il nazista ucciso in Belgio, sopra la collina. Ricevetti elogi e una promozione per quella battaglia. Eppure non avevo fatto altro che macchiarmi di sangue. Forse in un altro tempo, in un’altra vita io e quel soldato avremmo potuto guardarci in volto e parlare da amici, perché in fondo non era che un ragazzo, vittima di una follia superiore.

 

Il telefono squillò più volte quella sera e nel silenzio irreale della mia stanza mi apparve stranamente rilassante. È Nixon, pensai. È sicuramente lui e presto verrà a bussare alla mia porta, come sempre, e come sempre accadeva quel pensiero riusciva a dileguare il fango dei miei ricordi. Rilassato come ormai non mi capitava da molto, mi addormentai sulla poltrona, con una birra in mano, con ancora i vestiti da lavoro addosso, troppo stanco persino per muovermi.

Quando sentii suonare il campanello erano già le undici di sera. Cercai di raccattare in fretta quel poco di dignità umana che mi rimaneva, mi pettinai alla meno peggio i capelli con le mani, posai la birra sul tavolo ed andai ad aprire.

“Ce ne hai messo di tempo!” mi disse facendosi largo fra la confusione.

“Entra pure” risposi ironico.

“Certo che il Grand Hotel al confronto sembra uno spogliatoio studentesco.”

“Hai ragione, ma è colpa tua. Avessi saputo che saresti venuto, con quel bel vestito da sera nero, il cappotto immacolato, avrei chiamato in fretta i camerieri!”

“Ridi ridi! E poi non hai sentito il telefono?” mi disse togliendosi il cappotto.

“Certo che l’ho sentito ed è per questo che non ho risposto, credevo fossi tu!” ridacchiai contento: “E poi dovresti essermi grato, almeno ti sei risparmiato una serata di gala della famiglia Nixon.”

“Touchè! E comunque qui c’è davvero troppa confusione. Dovresti trovarti una moglie.”

“E a che mi serve? Ho te, no? Mi basti tu a rimbrottarmi per tutto e a seguirmi dappertutto. E per la casa c’è sempre la signora Smith.”

“Che però ha disertato stamani, a quanto pare. 20 giri di campo?”

“Oggi hanno disertato tutti” dissi sedendomi con un tonfo sulla poltrona: “Oggi si festeggia”

Rimanemmo un po’ in silenzio. Lewis fece un giro del salotto e si soffermò ad osservare le fotografie appese alle pareti. Io e lui in uniforme dopo il nostro ritorno in America, io e lui davanti ad una delle sue industrie, io e lui davanti alla mia auto nuova, io e lui... ovunque in questa stanza. Io cercai nervosamente il telecomando, senza peraltro riuscirvi. Al mio ennesimo “dannazione” Lewis si voltò e si avvicinò al tavolinetto in legno.

“Idiota, ce l’hai in mano!”

Sono sicuro che arrossii, ma lui fece finta di nulla e prese la birra dal tavolo.

“Sei sempre così. Quando sei stressato non troveresti neppure la tua testa.” e dopo un assaggio continuò: “Ma che schifo bevi? Meno male che c’ho pensato io!”

Solo allora mi accorsi della busta di carta appoggia sul divano.

“Whisky?” domandai indicando la busta.

“Della mia marca preferita!”

“Un giorno dovranno cambiargli nome e chiamarlo Whisky Nixon!”

“Non suona male, no?”

In quel momento dalla strada, giunse il rumore assordante della popolazione in festa. Il mio appartamento, fino ad allora immerso nel silenzio, si ravvivò di suoni e colori. Nixon si affacciò alla finestra.

“E’ festa per tutti” mi disse continuando a darmi le spalle: “E noi due siamo qui, nel tuo appartamento rumoroso, con due bottiglie di whisky a ricordare il passato...... Cosa c’è di meglio?”

“Niente” risposi andandomi a risedere sulla poltrona: “Proprio niente.”

Lewis chiuse la finestra e andò in cucina.

“Come hai fatto a stare chiuso qui con tutto quel baccano?”

“Non lo so. Non l’ho sentito.”

“Continuo a dire che dovresti trovarti una moglie.” disse porgendomi un bicchiere colmo fino al bordo.

“E se poi mi diventi geloso?”

“Basta che a me riservi sempre il meglio. Alla salute!” disse buttando giù tutto d’un fiato il primo bicchiere: “Non c’è niente di meglio di una buona sbronza!”

“Che ti dirà Nadine (NDA: nome puramente inventato) quando tornerai a casa ubriaco?”

“Urlerà, sbraiterà un po’... come le altre, insomma. E se sono fortunato la trovo già a letto a dormire.”

“Non sei stanco di tutto questo girare attorno? Continua così e finirai con il perdere il conto di tutte le mogli che collezionerai!” dissi sorseggiando il mio bicchiere.

“Buttalo giù d’un fiato o non fa effetto! E poi che posso dire? Sono innamorato dell’amore.”

“Lo dirò alla tua prossima moglie.” dissi valutando i centimetri di liquido ambrato nel mio bicchiere.

“Per quel che vale.... L’importante è che ci sia tu, per il resto...”

Bevve altri due bicchieri con l’abilità del bevitore incallito. Anche nell’Easy conoscevano tutti questo lato di Nixon eppure nessuno se ne era mai lamentato. Un buon bicchiere di whisky riusciva a farti dimenticare persino chi dov’eri. Ognuno trovava il proprio modo per scacciare i fantasmi.

“Ancora il primo? Eh no amico! Mica sono venuto qui per vedere un bicchiere vuoto!”

“E allora perché sei venuto?” risposi un po’ piccato mentre riempivo il bicchiere.

“Sono venuto per te, perché oggi festeggeremo anche noi.”

Si alzò e fece un giro su se stesso alzando il bicchiere come a proporre un brindisi.

“Alla Easy Company! A chi è tornato a casa e... a chi non ce l’ha fatta! A noi e ai nostri fantasmi!”

Buttai anche io giù il mio bicchiere di veleno e in un attimo mi sentii bruciare dentro, come se un fuoco fosse stato acceso proprio nelle mie viscere.

“E’ il whisky! Quando lo bevi in un sorso ti manda dritto all’inferno.”

“Avremmo potuto usarlo a Bastogne per riscaldarci.” mormorai riempiendo un altro bicchiere: “Alla nostra salute!”

 

Tre bicchieri dopo ci ritrovammo nella fase allegra della sbornia. Lewis, seduto ai piedi del divano, senza scarpe né giacca, con la cravatta slacciata e i gemelli gettati chissà dove, rideva ricordando le nostre facce quel giorno in cui partimmo per l’Europa, mentre assaggiavamo il gelato.

“Quei bastardi ci hanno proprio fregato, eh?”

Io, se possibile, mi ritrovavo in uno stato ancora peggiore. Incapace di formulare una frase di senso compiuto, ridevo alle battute di Nixon senza neppure sapere perché. E mentre raccontava, nuovi particolari ritornavano alla mente, particolari quasi dimenticati... il medico che correva da un ferito all’altro fra le trincee... i pasti sempre molto scarsi... i calzini bucati che proteggevano ancora meno delle nostre uniformi estive... le macerie e le città in fumo… la faccia di Lynn quando ha perduto se stesso nel buio... e poi il campo di concentramento, i prigionieri dalle ossa di cartapesta, così fragili da temere di spezzarli con il pensiero... la forza di Bull... il coraggio di Lipton... e senza neppure accorgermene iniziai a piangere, come mai mi era accaduto in vita prima di allora. Lacrime che non avevo versato neppure su un campo di battaglia, neppure alla fine di quel grande caos.

“Cosa fai, piangi?” mi disse avvicinandosi e io mi riscoprii incapace di rispondere e mi limitai soltanto ad abbassare la testa, cercando stupidamente di non farmi vedere.

“Non c’è niente di male, sai? Fa bene piangere, specialmente a te.”

Sentii la sua mano accarezzare piano i miei capelli e spingere, con un leggere tocco, la mia testa sulla sua spalla.

“Per una volta lascia che sia io a vedere le tue lacrime.”

Rimanemmo in silenzio, accompagnati solo dalle mie lacrime e dai miei singulti.

Sentivo la mano di Lewis scivolare sulla mia nuca, in un gesto che mai avrei permesso a qualcuno, solo a lui.

“Devi smetterla di farti del male. La guerra è finita. Non dico che tu debba dimenticare, perché questo è impossibile, ma devi accettare quel che è accaduto e andare avanti.” e la sua voce riusciva a calmare il mio animo sconvolto.

Per anni avevo cercato di dimenticare, di gettarmi alle spalle tutto ciò che avevo vissuto. Avevo provato a ritornare alla mia vita, così come era stata prima di arruolarmi, ma non vi ero riuscito. Per quanto avessi provato, avessi camminato, non ero mai riuscito a dimenticare. La notte mi assalivano, in un turbinio frenetico, i ricordi della mia vita passata, i volti disperati dei caduti sul campo di battaglia, voci che urlavano il mio nome, che chiedevano aiuto, occhi che mi rimproveravano di essere ancora vivo.

“Non è stata colpa tua! Se non fosse stato per te, non ce l’avremmo fatta a tornare a casa. Lo sai?” mi disse scostandomi da lui e guardandomi negli occhi: “Sei il mio eroe personale (*)!”

Ed accadde proprio in quel momento. Fu la fine di tutta le mie certezze e della mia vita così come l’avevo vissuta e l’inizio di qualcosa ancora più sorprendente. Non so come accadde, forse fu l’atmosfera fra di noi pervasa di ricordi e malinconia o forse semplicemente era destino che accadesse, forse era solo la naturale evoluzione di ciò che fra noi c’era sempre stato. In quel momento, in quel preciso attimo in cui il tempo stesso sembra essersi fermato, ogni suono tacque. Il brusio proveniente dalla strada scomparve e persino il silenzio che prima aveva regnato sovrano assunse un altro colore e un’altra consistenza. Tutto attorno a noi sfumò e scomparve inglobato da un bianco splendente. Mai prima di allora avevo provato quel senso di annullamento e agitazione e fermento. Non so come accadde, so solo che avvenne in un attimo. Inconsciamente le sue labbra toccarono le mie in un tocco leggero. Lewis rimase a guardarmi, mentre le sue dita accarezzavano le mie guance. Forse disse qualcosa, ma io non sentii nulla. Chiusi gli occhi e accarezzai le sue labbra e il nostro secondo bacio, dapprima soffice carezza, divenne sempre più profondo, fino alla perdizione.

Fu la fine e l’inizio.

La fine della nostra amicizia, semplice e pura com’era stata, e l’inizio di quel sentimento, profondo, avvolgente e unico, che ci avrebbe tenuto legati fino alla morte e ancora oltre. Un sentimento che annullava tutto il mondo e le sue convinzioni emarginanti e che ci avrebbe donato solo calore e leggerezza, anche fra le lacrime. L’amore che avevamo sempre cercato.

 

Fine

 

Ps: tanti auguri sorellina! Miliardi di giorni felici e che tu possa ottenere dalla vita solo il meglio!

 

Ti voglio bene,

tua sist Soffio

 

 

 

(*) sis scusa per il furto ;_;! Per chi non lo sapesse la frase è tratta da una ff su Slam Dunk della sis *_*

  
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