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Autore: Flami Destrangis    14/06/2014    4 recensioni
Durante la presentazione dell'ultimo libro di Yusaku Kudo a Tokyo, a seguito di un errore Conan torna a rivestire i panni di Shinichi, risolvendo il macabro caso di omicidio in cui si trovano implicati. Nonostante cerchi come al solito di nascondere la sua comparsa, il giorno successivo sul giornale compare una foto della serata in cui sono ritratti lui e Ran. La nuova apparizione del detective liceale più famoso del Giappone sembra destare molto interesse: ma, allo stesso tempo, smuoverà le acque di una storia che non tutti vogliono riportare a galla.
“Mi piacerebbe correre fuori, lavarmi tutto di dosso. Lasciare scorrere sulla pelle ogni problema, ogni preoccupazione, ogni maschera e ruolo ed essere soltanto l'uomo che c'è oltre questo paio di occhiali e quella cravatta che mi piace tanto portare. Che cosa resterebbe secondo te?”
Il padre sembrò lanciargli uno sguardo disperato, come a chiedere aiuto. Come se avesse davvero paura che potesse non rimanere più nulla oltre tutto quello che ogni giorno lo ricopriva. Conan sorrise appena e gli porse la copia di "In bianco e nero" che teneva in mano.
“Ma che domande sono, papà. Lo sai anche tu: resterebbero i tuoi libri"
Genere: Drammatico, Generale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Gin, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In bianco e nero

 

 

“...¿ Por qué me suenan tan mal

todas la cuerdas de mis deseos?..”

(Estopa, “Luna lunera”)

 

 

 

6. L'uomo oltre la cravatta

 

 

 

 

 

 

Yukiko schiuse appena gli occhi, la mente ancora assopita in una stanchezza che non si azzardava a scivolare in un tranquillo sonno ristoratore. Stropicciò il viso sul cuscino, consapevole, in fondo, che anche dormire qualche ora era un'utopia. Accanto a lei non c'era il marito: quella notte Yusaku non aveva fatto altro che girarsi e rigirarsi tra le lenzuola, e probabilmente non si sarebbe nemmeno steso accanto a lei se non avesse capito che, per quanto forte, sorridente, incosciente e coraggiosa, anche lei era rimasta scossa da tutti gli avvenimenti della serata. Erano stati destati, se mai davvero si erano addormentati, da uno Shinichi tornato Conan. Il bambino aveva chiesto alla madre di svegliare Ran, di dirle per l'ennesima volta che non aveva potuto fare altro che andare via, uscire di soppiatto e di fretta, senza poter rimanere a godersi ancora un altro minuto, altri sessanta secondi di vita vera. Non era stato un compito facile. Yukiko aveva richiamato alla coscienza una Ran che dormiva ancora con il sorriso sulle labbra, il volto disteso e rilassato nonostante tutti gli scossoni della notte. Alle volte basta qualche forte emozione personale per farci dimenticare, forse egoisticamente ma in fondo involontariamente, le sventure altrui. Il sorriso si era spento piano non appena aveva visto il divano vuoto, come una candela che si scoglie su se stessa le labbra si erano ripiegate e gli occhi rabbuiati. Yukiko ripensò a come la ragazza l'avesse salutata, scusandosi per il disturbo, nonostante ben sapesse di essere come una seconda figlia per lei. Ran era sempre stata così: educata, un po' riservata, ma con un cuore grande come quello di nessun altro. Non avrebbe potuto desiderare una ragazza migliore per il figlio: eppure il destino si rivelava così ingiusto con chi non avrebbe dovuto esserlo. Ran non aveva chiesto di Shinichi. Aveva capito dallo sguardo della donna che le stava davanti le parole che di lì a poco sarebbero arrivate: e aveva preferito non sentirle. Non ce n'era bisogno. Nonostante le insistenze di Yukiko, non si era fermata a colazione: non aveva fame ed era già in ritardo. Doveva correre a casa a cambiarsi, aveva un compito in classe quel giorno. Prima di varcare la porta, aveva sussurrato solo: “Ha lasciato detto qualcosa per me?”

Yukiko le aveva risposto sorridendole dolcemente: “Gli dispiace, non sai quanto. Prima o poi tutto questo finirà, vedrai.”

Ran aveva sorriso a sua volta, e poi era scappata via di corsa, pensando che forse, nella vita, l'arte di accontentarsi era quella che avrebbe assicurato la miglior cura, lenendo le più profonde delusioni.

Con il testa il volto di Ran e il pensiero di Yusaku che non aveva voluto tornare a dormire, aspettando piuttosto il telegiornale della mattina, Yukiko non era riuscita a prendere sonno. Si alzò, cercando a tastoni con i piedi le ciabatte mentre legava alla meno peggio i capelli. Vide il proprio riflesso nello specchio posto accanto all'armadio. Il volto tirato, il mascara ripulito alla meno peggio che le aveva annerito il contorno degli occhi. Si sorrise. La vita bisognava prenderla al volo, con lo spirito giusto.

Trovò il marito in cucina. Sul tavolo una colazione mai consumata, stava sorseggiando quello che, a giudicare dalla tazzina e dal profumo, doveva essere un buon caffè. La televisione, ora spenta, doveva essere stata accesa fino a poco prima, come indicava la lucetta rossa che ricordava al proprietario che con un piccolo gesto avrebbe potuto staccare ogni collegamento e risparmiare l'energia che tanto serviva al mondo. Ma, quella mattina, Yusaku non aveva nessuna energia da spendere per risparmiare energia altrui.

“Ma che buon profumino, penso proprio che prenderò anche io un caffè.”

Yukiko sorrideva, nel tentativo di portare un raggio di buon umore. Salutò il marito con un bacio leggero, non potendo evitare di notare le occhiaie scure che gli contornavano lo sguardo.

“Speravo che almeno tu riuscissi a dormire un pochino.”

La voce suonava stanca, eppure si sforzò di sorridere. Quel gesto bastò a rincuorare in parte Yukiko.

“Non importa. Insieme nel bene e nel male, ti ricordi?”

“Non potrei mai dimenticarlo.”

Yusaku aveva ancora indosso la camicia della notte prima, sbottonata e sgualcita. Aveva invece messo i primi pantaloni che gli erano capitati sotto mano, non preoccupandosi nemmeno di cercare le pantofole: era a piedi scalzi. I capelli disordinati stonavano con la barba perfettamente fatta e i baffetti al loro posto, in completo ordine. Accanto a lui Yukiko che, nonostante il volto stanco e il trucco ancora un po' sbavato, manteneva la sua solita eleganza, il corpo sottile e longilineo si muoveva agile nella leggera camicia da notte, e le mani senza ancora una ruga, con quelle unghie curate e perfette. Anche se i capelli non erano acconciati con cura, lei era perfetta e bellissima anche così.

“Hai guardato il telegiornale?”

“Si, ma non c'è nessuna novità. Non hanno ancora trovato il corpo di Arthur. Mentre vorrei incontrare personalmente la famiglia del signor Sakamoto, per far loro le condoglianze e per scusarmi per quanto successo.”

“Non devi addossarti colpe che non hai.”

Yusaku posò la tazzina sul tavolo, accanto al cibo dimenticato. Si sedette, lasciandosi scivolare sullo schienale.

“Ho portato io Arthur in quell'hotel.”

Yukiko percepì tutto il dolore e la sensazione di totale impotenza che attanagliava in quel momento l'animo del marito. Si avvicinò, sedendosi con grazia sulle ginocchia di lui. Gli prese dolcemente il volto tra le mani e lo guardò negli occhi, cercando di trasmettergli tutta la forza che in quel momento poteva dargli. Non le importava di poter rimanere senza energia alcuna, Yusaku ne aveva bisogno più di lei, e in amore non esiste la paura di regalare all'altro tutto quello che si ha.

“Tu non potevi sapere, nessuno poteva. Andrà tutto bene, vedrai. Ci sono qui io. Perché non fai una doccia per rilassarti? Ti sentirai meglio, fidati.”

Yusaku la strinse a sé, cingendole la vita con le braccia. Quella che aveva con lui era una donna meravigliosa. Si avvicinò fino a sfiorarle le labbra.

“Te l'ho mai detto che ti amo?”

Lei rise. Farla ridere era sempre la soddisfazione e la gioia più grande. La baciò, stringendola ancora di più a sé, mentre lei si divertiva a solleticargli la nuca con i suoi piccoli polpastrelli.

Fu allora che sentirono un rumore sordo, come se la porta di ingresso fosse stata chiusa con un tonfo. Si separarono improvvisamente, e Yukiko guardò d'istinto oltre l'entrata della cucina. Tutto quello che vide fu il muro del corridoio.

“C'è qualcuno?” chiese piano a Yusaku, balzando in piedi.

“Forse l'amico di Shinichi che abita di solito qui. Vado a vedere, resta in cucina.”

“No, vengo con te.” disse lei, seguendolo, attaccata al polsino slacciato della camicia di lui. I loro passi risuonarono per il corridoio. Sentirono delle voci familiari. Una maschile e una femminile. Le voci di due bambini.

Seduti sul gradino dell'ingresso, affannati e sudati, stavano Conan e Ai. La bambina sembrava sconvolta e impaurita, e continuava a guardarsi intorno, nonostante fosse ormai al sicuro.

“E se ci avessero visti?” diceva. “Avevo la sensazione di essere osservata e..”

“Non c'era nessuno, Ai, sta tranquilla.” le rispondeva Conan, mentre sfibbiava alla meno peggio le scarpe.

“Ma che ci fate voi qui?” irruppe la voce di Yukiko, stupita. A quell'ora le lezione scolastiche dovevano già essere cominciate.

I due bambini si girarono contemporaneamente. Conan cercò automaticamente lo sguardo del padre: bastarono quegli occhi per far capire a Yusaku che era successo qualcosa, e questo qualcosa non doveva essere nulla di buono.

 

 

 

 

 

Quando Conan finì di raccontare quella malaugurata storia, il silenzio calò gelido e teso sui loro volti. Ci fu un minuto in cui nessuno seppe cosa dire. Quale poteva essere la parola giusta per commentare quanto accaduto? In una notte il mondo si era rovesciato. E, oltre al danno causato dalla morte di ben due persone, si era giusta quest'ultima, insulsa e perfidissima beffa: una piccola foto che avrebbe potuto cambiare di molto le loro vite. Fu Yusaku che, alla fine, ruppe il mutismo che si era instaurato tra le loro menti.

“Di certo non avrei mai immaginato che, per quel banalissimo errore, ci saremmo ritrovati addosso anche questo problema. Hai semplicemente scambiato due pillole e ora eccoci qui.”

“Lo sapevo che non avrei dovuto darti quella pillola. Il rischio era troppo alto. E' colpa mia.” intervenne Ai.

“Sono stato io a scambiare i farmaci tra loro, è stata una dannata disattenzione che ora pagherò mettendo in pericolo non solo la vostra vita, ma anche..”

“Adesso basta.”

Oltre quei pensieri detti a metà, si levò perentoria la voce di Yukiko. Tutti continuavano ad addossarsi la colpa di qualcosa che era successo, come a voler, inconsciamente, scaricare il proprio animo ammettendo delle responsabilità vere solo in parte. Che colpa potevano averne se la vita era guidata dal caso, dalla fortuna cieca o bendata che stringeva la mano una volta ad uno, una volta all'altro? Farsi prendere dai rimorsi non avrebbe comunque aiutato la loro situazione.

“Non è colpa di nessuno, è chiaro? Ognuno ha fatto del suo meglio, ne sono sicura. Purtroppo spesso le cose non vanno come vorremmo, ma è allora che dobbiamo tirar fuori il meglio di noi. Le lacrime, i rimorsi, i sensi di colpa sono forse utili, ma solo all'inizio. Ci lasciano sfogare, ma dobbiamo imparare a metabolizzarli, a voltar loro le spalle e andare avanti. Non pensiamo a quello che è stato, pensiamo a quello che sarà.”

“Eppure è quello che è stato che ci farà essere quelli che saremo.”

Yusaku bisbigliò appena quella frase, e solo la moglie, seduta accanto a lui, fu in grado di sentirla. E capì che, per metabolizzare quanto accaduto, Yusaku ci avrebbe impiegato forse un tempo maggiore di tutti loro. Ma era il suo tempo fisiologico e, in fin dei conti, andava bene così. Ognuno vive le emozioni in modo differente.

Furono Ai e Conan che dalle parole di Yukiko trassero il maggior conforto. Entrambi capirono che, nonostante i loro errori, era giunto il momento di dire basta ai rimorsi del passato. Era giunto il momento di vivere solo il presente: perché era quello che dovevano giocare al massimo, se volevano avere la possibilità di vivere il futuro.

“Mia madre ha ragione. E' il momento di capire che cosa dobbiamo fare.”

“Dovete andare via, non c'è scelta. Altrimenti rischierete di venire coinvolti. Non abbiamo molto tempo. Loro non si fermano davanti a niente.”

La voce di Ai era sicura, a parte il leggero tremolio che l'aveva colta nel pronunciare quel loro. Non voleva trascinare con sé altre vite oltre quelle che erano già propriamente coinvolte.
“Che cosa proporresti?” le chiese Yusaku.

Era uno strano quadretto. Due adulti che sembravano seguire gli ordini di due bambini un po' troppo seri. O, comunque, sembravano tenere in gran conto la loro opinione.

“Dovete partire. Tornare in America. O forse in qualche altro luogo.. dove non possano rintracciarvi.”

“Ai ha ragione. Forse è meglio così. Ce ne occuperemo io e lei. Questa volta si fa sul serio.”

“Ma cosa pensate di poter fare da soli? Sono troppo forti, Shinichi. E tengono quasi tutti i coltelli dalla parte del manico.” intervenne Yukiko. Non appariva intenzionata a mollare l'osso.

“Contatteremo l'FBI. Con loro non saremo soli.”

“Io da qui non mi muovo.”

Yusaku aveva pronunciato quelle parole con estrema sicurezza. Non poteva fuggire ora, quando il corpo di Arthur non era ancora stato ritrovato. E, soprattutto, non poteva abbandonare suo figlio in una battaglia più grande di lui. Era un uomo ed era un padre: entrambi i suoi ruoli in quel mondo gli imponevano di rimanere lì, ancorato con tutte le sue forze a quella maledetta situazione.

“Se non troveranno me, cercheranno voi, e poi sarebbe la volta di Ran. Dovete fuggire, tutti.”

“Non scapperò lasciandoti qui. Né abbandonerò Tokyo fino a quando il corpo di Arthur non sarà ritrovato. Non lascerò la faccenda a metà: voglio andare fino in fondo.”

Yukiko strinse la mano dell'uomo che era seduto accanto a lei. Poi, guardando sicura i due bambini, disse solo: “Nemmeno io scapperò. Sarò con voi fino alla fine.”

Conan non replicò. Conosceva i suoi genitori: quando erano sicuri di qualcosa, allora distoglierli non era per nulla facile. In fondo, da qualcuno doveva aver pur preso. A non essere convinta, invece, era Ai.

“No, è troppo pericoloso.”

“Se andassimo via lo sarebbe comunque. E ancor più che voi.” replicò Yukiko.

Gli occhi di Ai tremarono. Abbassò lo sguardo, e si rannicchiò sul divano, stringendo le ginocchia tra le braccia.

“Ho già visto troppe persone morire in questa assurda guerra. Non voglio che qualcun altro muoia. Che qualcun altro perda la propria famiglia a causa di tutto questo.”

Yukiko si alzò, andando a posarsi accanto a lei. La strinse appena, ponendole il suo braccio leggero attorno alle spalle. Poi bisbigliò piano, dolcemente: “Nessuno di noi morirà, vedrai. Uniti saremo più forti di chiunque altro. Insomma, guarda questi due, li vedi?” e indicò Yusaku e Conan, “Sono due testoline niente male, e penso che tu lo sappia. E poi guarda qui,” e indicò se stessa, “con i travestimenti vado forte, non mi batte nessuno. E infine,” e le accarezzò la guancia, guardandola negli occhi, “abbiamo uno dei più grandi geni scientifici del terzo millennio! A meno di vent'anni hai creato cose inimmaginabili. Sei forte, Ai. Come nessun altro.”

Le strappò un debole sorriso. Quelle parole ebbero un grande effetto sul cuore di Ai, scaldandola e confortandola. Fu come se, per un attimo, avesse avuto di nuovo accanto la madre. Appoggiò la testa sulla spalla di Yukiko, mormorando solo: “Grazie.”

Conan e Yusaku si lanciarono uno sguardo di intesa. Yukiko, con la dote della femminilità che solo le donne possiedono, conosceva mondi e sentimenti che a loro erano in fondo ignoti. Nessuno di loro sarebbe stato, con poche parole, in grado di far ritornare il sorriso sul volto di Ai.

“Allora, uomini!” esclamò ancora la donna, giocherellando appena con i capelli della bambina. “Qual è il piano d'azione?”

“Per ora direi che non è il caso di agire. Dovremo aspettare una loro mossa, vedere se si risvegliano dal loro sonno. Meglio stare nell'ombra e non dare nell'occhio. Ma prima di tutto, sarebbe meglio cercare di mettere a tacere la notizia, per quanto ormai sia possibile. Fare in modo che i telegiornali non ne parlino molto. Hai delle conoscenze nelle redazioni, papà?”

“Sì, ma chiedere a loro servirebbe a poco. Il giornalista vuole fare notizia, e questo è un grande scoop. Sarà meglio sentire l'ispettore Megure e chiedere a lui di intervenire con discrezione. E' una persona fidata.”

Gli altri annuirono. Era la mossa giusta da compiere.

“Per quanto riguarda noi, invece,” continuò Yusaku, “è meglio non farci vedere per un po'.”

“Sono d'accordo.”

“E come faremo?” chiese Ai.

“E' semplice.” disse Conan, che aveva intuito il piano del padre, “Assumeremo una nuova identità. Come ha detto prima, la mamma è una maga dei travestimenti. Ce la possiamo fare.”

“Oh, si, questa è la parte che preferisco.” ammise Yukiko, in fondo elettrizzata per poter di nuovo essere la protagonista della scena. Recitare le mancava e anche se quella era la vita, poco importava. L'avevano sperimentato sulla loro pelle: il confine tra realtà e finzione era troppo labile per riuscire a non oltrepassarlo mai.

“Non sarà facile. Come faremo? Scomparire improvvisamente dalla circolazione per diventare delle persone diverse..” aveva iniziato Ai, ma fu interrotta da Conan.

“Non è niente di più rispetto a quello che abbiamo fatto finora.”

Il piccolo detective aveva ragione. Perché le sembrava tutto così diverso? Con un'altra identità aveva convissuto fino a quel momento.

“Dove andremo, che faremo?” chiese ancora.

“In qualche modo ce la caveremo.” rispose Yusaku. “Ma, a mio parere, per il momento sarebbe meglio non coinvolgere né l'FBI né la polizia. Dirò all'ispettore che torneremo in America.”

“Pensi sia meglio mantenersi il più possibile nell'ombra?” incalzò Conan.

“Sì. Almeno finché non avremo elementi in più, o non saremo comunque sicuri che la situazione sia sufficientemente tranquilla. Meglio non coinvolgere altre persone.”

Gli altri annuirono. Per essere un primo piano, era più che accettabile.

“Ci sono persone che, invece, andranno protette.”

Kogoro e Ran devono abbandonare la città, subito. Non ci metteranno molto a scoprire l'identità della ragazza che era con te nella foto.”

“Lo so perfettamente. Le parlerò io stesso e..”

“No, Shinichi, è troppo pericoloso.” intervenne Yusaku.

“Non posso non essere io a parlarle, lo capisci?”

“Certo che lo capisco. Ma capisco anche che significherebbe esporsi e mettere in pericolo ancora di più la sua vita. Vorresti parlare come Shinichi, vero?”

Conan non rispose. Quello che avrebbe voluto dire si poteva leggere nei suoi occhi.

“Tuo padre ha ragione, Shinichi. Meglio evitare. Hai fatto tanto per lei, fai anche questo. E' per il suo bene.” argomentò ancora Ai. Conan non rispose di nuovo.

“Vedrai, Shinichi, le parlerai quando sarà tutto finito. Andrò io stessa da Ran, le spiegherò la situazione. Penso sia meglio non mostrarti nei paraggi nemmeno come Conan. Ti fidi di me?”

Al sentire quella domanda da parte della madre, il bambino annuì. Sapeva perfettamente che gli altri avevano ragione. Quello che gli bruciava di più era ammetterlo e farsene un motivo.

“Quando ce ne andremo?” chiese solo.

“Per oggi direi di non muoverci. Studiamo la situazione, elaboriamo meglio il piano. Potremmo muoverci nella notte, o all'alba del giorno dopo, quando ci saremo assicurati che tutto sia tranquillo. Non penso comunque che agiranno subito, quando la situazione è ancora calda. Aspetteranno che l'interesse del pubblico si raffreddi un po'. Abbiamo del tempo.”

“Non sarebbe allora meglio non bloccare la notizia ai telegiornali?”

“Dobbiamo comunque evitare di dar loro troppe informazioni.”

“E per Ayumi e gli altri? Che cosa facciamo?” domandò Ai.

“Non sanno che siamo dei bambini. Finché non lo scoprono, sono al sicuro.”

La piccola scienziata annuì. “E il dottor Agasa?”

“Me ne occuperò io.” disse Yusaku, “Voi evitate il meno possibile di farvi vedere in giro.”

Cadde di nuovo il silenzio. In quel momento non c'era altro da dire. Avevano un intero giorno a disposizione per limare ogni punto di quella strana avventura. Conan balzò giù dal divano senza dire altro, e si allontanò. Aveva un amaro in bocca che non accennava a scomparire.

 

 

 

 

 

 

In quella stanza sufficientemente grande per potercisi muovere agevolmente, ma piccola abbastanza da poter instaurare un'atmosfera di intima e segreta confidenza, stava calando una sera in cui sembrava mancare l'aria. Forse era il venticello della primavera che prepotentemente entrava a sbuffi dalla piccola finestrella in alto, sfrecciando attraverso le grate che non le impedivano il passaggio. Forse era la luce soffusa che si arrampicava per le pareti rivelandone a tratti le imperfezioni piccole e nette, quelle macchie di nero e muffa che si estendevano agli angoli, come edera senza spessore fusa all'intonaco ormai vecchio. Correva fino a nascondersi dietro quei pochi mobili spogli che di tanto in tanto speravano di dare un tocco di vitalità alla camera, conferendole invece un'aria ancora più grigia e, se così si poteva dire, gelida. Una libreria senza libri, solo qualche foglio poggiato sopra senza cura, come se fosse di poca importanza. Un appendiabiti con solo un cappotto nero a coprirlo. Al centro, un tavolo di ferro, tremendamente stonante lì in mezzo, con qualche sedia intorno che scivolava con difficoltà sulle piastrelle bianche. Un uomo, le spalle larghe e il petto ampio, si lasciò cadere sopra ad una di esse. Si tolse il cappello nero, appoggiandolo sul tavolo, e si stiracchiò piano, cercando di sbadigliare il più silenziosamente possibile, come se fosse spaventato dell'improvviso arrivo di qualcuno da cui non poteva permettersi di farsi vedere stanco. Si sistemò gli occhiali sul naso e rimase lì, apparentemente tranquillo. Eppure il piede, che tamburellava sul pavimento, tradiva il suo nervosismo. Era stata un'altra giornata stancante, l'ennesima. La notte precedente non aveva dormito, le trattative con quell'uomo stupido e spaventato, e poi al ritorno le strade piene di macchine della polizia, e quel casino sul ponte. Chissà cos'era successo, poi. Non aveva più avuto tempo di interessarsene: tutta la mattina a sorvegliare una persona, il pomeriggio a intercettare le conversazioni di un'altra. E ora lì, alle undici di sera, ad aspettare il suo capo per parlare di non sapeva minimamente cosa. La vita era dura anche se recitavi la parte del cattivo, altroché. In fin dei conti era un lavoro come un altro, solo che la gente sembrava non capacitarsene. Socchiuse appena gli occhi oltre quelle lenti scure, e sciolse i primi bottoni della camicia. Pensò che avrebbe potuto addormentarsi lì, su quella sedia, senza bisogno di niente di più comodo. La mente stava già sprofondando pian piano nei fumi dell'inconscio, quando sentì un fastidioso e urtante cigolio. Ci mise un secondo per realizzare che l'uomo che stava aspettando era probabilmente arrivato. Si rizzò a sedere di botto, rischiando di cadere come un bambino. Credendo forse di non aver fatto abbastanza, si alzò in piedi, salutando l'altro uomo con un gesto del capo. Per tutta risposta, quello sembrò non curarsi minimamente di lui.

“Ti stavo aspettando, Aniki.” disse allora, sospettando addirittura che il suo interlocutore non l'avesse visto. Non aveva minimamente accennato ad un saluto.

L'uomo, dai lunghi capelli di quel biondo così particolare, camminò ancora, facendo rimbalzare i piccoli tacchetti delle scarpe sulle piastrelle. Un suono sordo che oscillava tra le pareti. Poi si appoggiò al muro, senza dire ancora una parola. Il cappello nero era ben calzato sul capo, e delle ciocche di capelli gli cadevano sugli occhi, andandone a coprire lo sguardo e lo stato d'animo. Si trascinava dietro l'odore intenso e pungente di una sigaretta appena finita: tuttavia non doveva essere soddisfatto, perché non appena si appoggiò al muro, se ne accese un'altra. Solo dopo aver inspirato profondamente, decise che era arrivato il momento di rispondere.

“Lo so perfettamente, Vodka. Non dirlo come se mi stessi facendo favore.”

La voce gelida sembrò condensare l'aria. L'uomo con gli occhiali si mise spontaneamente sull'attenti, e capì che era il caso di tacere fino ad un nuovo segnale. I nervi erano già distrutti di per sé, senza bisogno che il suo capo glieli strattonasse ulteriormente.

“Novità interessanti?” gli venne chiesto infine. Sembrava una domanda di rito, come se in realtà non gliene importasse più di tanto. In fin dei conti, che cosa interessava davvero a loro di quelle persone che ricattavano, di cui si servivano e con cui collaboravano fin tanto che era necessario? Niente, in sostanza niente. Questa ricognizione serale era per entrambi una gran pena: eppure dovevano farlo, era il loro ruolo, e non c'era scappatoia. Sì, in fin dei conti quello era soltanto un lavoro, per quanto particolare. E dietro ad ogni cravatta e cappotto nero, c'era un uomo a cui non interessava se quello avesse pagato il debito in tempo, o se quell'altro avesse fornito le armi giuste. Impersonavano un ruolo, come fanno tutti nella vita. Come l'avvocato che controlla le sue carte e progetta le sue arringhe, incastonando i termini giusti per creare il discorso più convincente, pensando a quando, la sera, potrà tornare a casa e riposarsi, facendo volare la mente oltre ogni noioso imprevisto quotidiano. A quanti di loro importa davvero della vita che si nasconde dietro quelle pagine? Quanti, in fondo al cuore, piangeranno per la sorte di un condannato da loro difeso? Non importerà invece ai più di aver personalmente perso, di non aver raggiunto un successo professionale, di non aver adempiuto al meglio al loro ruolo? Per quegli uomini vestiti di nero era esattamente lo stesso: c'era un ruolo, e bisognava impersonarlo. Nel loro caso, poi, la situazione diveniva ancora più semplice: i seccatori potevano essere eliminati con un semplice click. Nel loro lavoro c'era, alla fin fine, poco di esaltante: ma quando qualcosa del genere capitava, allora l'adrenalina scorreva come linfa nelle vene, e l'uomo andava a fondersi con il suo ruolo.

“No, niente di rilevante.” si limitò a rispondere il bestione chiamato Vodka.

Rimasero in silenzio, fintanto che il capo, o meglio Gin, avesse finito di fumarsi in pace il suo piccolo regalo quotidiano. Quando infine la sigaretta si spense per terra, il discorso riprese.

“Nessuna conversazione fuori dalla norma?”

“No.”

“Nessun movimento al di là di quelli consueti?”

“No.”

“Niente di niente?”

“Esatto.”

“Beh..” iniziò Gin. Aveva la voce roca. “Che giornata noiosa.”

Vodka avrebbe voluto rispondere qualcosa del tipo “A me lo dici?”, ma pensò che non era il caso. Si limitò a fare spallucce, come se quelle dodici ore una più uguale dell'altra non lo avessero minimamente toccato. Non aveva mai il coraggio di osare quel qualcosa in più: e probabilmente era per questo che era rimasto relegato in fondo, tra chi doveva sempre e solo obbedire. Per arrivare ai vertici, o anche solo un poco più in alto, ci volevano intelligenza, calma, sangue freddo, prontezza di riflessi e lui, lo riconosceva, non aveva pieno controllo di nessuna di queste. Se c'era una cosa che non gli mancava, quella era la forza fisica: ma, si sapeva, da sola faceva ben poco.

Gin si staccò dal muro, sistemandosi il capello sul capo. Il suo sguardo felino, fino ad allora nascosto dall'ombra delle ciocche bionde e disordinate, volò sul suo compare. Il volto era perfettamente disteso. Vodka si chiese come diavolo facesse a non essere mai turbato da una minima stanchezza fisica o mentale: davvero il suo capo era sempre impassibile nei confronti del mondo che gli scorreva davanti, oppure era in grado di celare alla perfezione ogni sentimento sotto quel cappotto nero e quegli occhi vitrei?

“Direi che possiamo porre fine a questa altrettanto noiosa conversazione.”

Vodka sentì un peso scendergli lungo le gambe, fino a posarsi delicatamente per terra liberando il suo animo. Quello di Gin non era certo un modo particolarmente garbato di augurargli la buonanotte, ma non si lamentava. L'importante era il concetto, non la forma: e il concetto diceva a chiare lettere che era libero di andarsene.

“Allora a domani, capo.”

Gin non rispose, mentre si incamminava verso l'uscita. Era ormai quasi arrivato alla porta, ancora un passo e per Vodka sarebbe iniziata una fantastica nottata di libertà: un drink in un bar, anche due, poi magari qualche bella ragazza e una notte di quelle che non viveva da troppo tempo. Mancava solo un passo, e poi sarebbe uscito dietro al suo capo e avrebbe staccato la spina da tutto il resto. Quando Gin si arrestò improvvisamente, quel peso che era prima scivolato sul pavimento risalì pronto come non mai fino a schiacciargli la testa.

“Quasi dimenticavo.” disse, con la sua voce impassibile. Vodka si chiese se il suo compagno fosse umano. Come poteva vivere senza un attimo di pausa? Scorreva davvero il sangue nelle vene di quel corpo statuario?

“Cosa c'è, Aniki?”

Gin rovistò in una delle tasche del cappotto e ne tirò fuori un foglio stropicciato di giornale. Lo stese fino a renderlo leggibile.

“Guarda qui.”

“Cos'è?”

Vodka non era realmente interessato, anzi. Ma il suo ruolo era di acconsentire, e così doveva essere.

“Raccontano dell'idiota che ieri si è buttato dal ponte. A quanto pare è stato un caso alquanto eclatante.”

Da oltre le sue lenti nere, Vodka lanciò un'occhiata distratta al giornale, mugugnando qualcosa del tipo: “Meglio così, si saranno già dimenticati del colpo di Korn a Niigata.” Avrebbe voluto aggiungere: “Possiamo andare, ora?”

“Ti ricordi di aver notato qualcuno sul ponte?” chiese Gin, socchiudendo appena gli occhi, come a scrutarlo meglio. Vodka si mise di nuovo involontariamente sull'attenti.

“A cosa ti riferisci, Aniki?”

Lottò per trattenere uno sbadiglio. Sperò di non aver fatto qualche strana smorfia nel suo goffo tentativo.

“Potresti provare a pensare almeno per un secondo? Non dirmi che sei come i mocciosi, che dopo le undici devono andare a dormire.”

La voce seccata di Gin lo trafisse da parte a parte. Si aggiustò il cappello e gli occhiali, come a darsi un tono di professionalità e si schiarì la voce. La notte di libertà era rimandata di almeno un'ora.

“Stai parlando del casino di ieri, con tutti quegli sbirri in giro per la città?”

“Hai detto di essere sicuro di aver già visto qualcuno che era lì.”

Vodka sembrò pensarci un attimo su. Sì, si ricordava di qualcosa del genere, ma quel volto gli sfuggiva dalla mente. Era un ragazzo, sì, un qualcuno di conoscente. Ma non ricordava dove l'avesse visto prima, né i tratti di quel viso. E se si fosse semplicemente sbagliato? Ebbe la sgradevole sensazione di star perdendo tempo per niente.

“Sì, era un ragazzo, mi sembrava di averlo già visto. Ma come mai te ne interessi tanto?”

Come al solito non capiva l'intricato groviglio di pensieri che si distendeva nel cervello del suo capo.

“Guarda questa foto.”

Prese in mano il giornale. Era la prima pagina di un quotidiano abbastanza noto, dedicata interamente a quello che veniva chiamato il caso dell'Haido City Hotel. Si mise a leggere qualche riga dell'articolo.

Yusaku Kudo? Noto scrittore? Io non l'ho mai sentito.”

“Lascia stare il testo, guarda la foto. E' quello il ragazzo?”

Le pupille si lasciarono cadere sulla figura accanto a quelle parole così fitte. Erano ritratte due persone, un ragazzo e una giovane dai capelli lunghi. Si tenevano per mano, e sembravano correre, i volti distinguibili senza particolare difficoltà. Si concentrò sul ragazzo. Mugugnò qualcosa, come se stesse pensando ad alta voce.

“Allora?” incalzò Gin, senza che la sua voce lasciasse però trasparire l'impazienza di volere una risposta da lì a qualche secondo.

Vodka osservò meglio la foto. D'improvviso ebbe come un flash. Un ponte, le luci, un ragazzo in piedi accanto ad un uomo con gli occhiali.

“Sì, capo, è lui, è lui ne sono sicuro. Sai chi è?”

“Era quello che volevo sapere da te.”

“Io l'ho già incontrato questo moccioso. A te non ricorda nessuno?”

“Sai che dimentico in fretta le persone che non vale la pena ricordare.”

Vodka non rispose: si stava concentrando sull'articolo, e non era abituato a fare due cose contemporaneamente. O meglio, non gli riusciva poi così bene. Scrutò la foto. La ragazza non gli diceva assolutamente niente, ma quel giovane, sì, l'aveva già visto. Lo sguardo cadde sul titolo, che fino ad allora aveva stranamente trascurato.

 

“Il ritorno della salvezza della polizia giapponese: Shinichi Kudo risolve il misterioso caso dell'Haido City Hotel.”

 

Shinichi Kudo. Un flash gli abbagliò la mente d'improvviso. Quella volta al Luna Park, quell'impiccione che li aveva seguiti e su cui avevano testato il nuovo farmaco. Un ragazzino delle superiori, che aveva risolto il caso dell'uomo sgozzato sulle montagne russe. Tutto sembrava combaciare. Ma com'era possibile che fosse ancora vivo? Avevano testato su di lui quello che doveva essere un potentissimo veleno.

“Capo, ho capito.” disse solo, alzando il volto a guardare Gin, che per tutta risposta fece un cenno con il capo, come a intimargli di sbrigarsi a parlare.

“E' quel ragazzino del Tropical Land, sarà passato ormai più di un anno.”

Gin socchiuse appena gli occhi. Si accese un'altra sigaretta. Il suo commento fu breve.

“Continua.”

“Aveva risolto un caso di omicidio, un uomo sgozzato sulle montagne russe se non sbaglio. Ricordo che si sentiva Sherlock Holmes mentre..”

“Non mi interessano particolari inutili.”

Vodka ebbe di nuovo l'istinto di mettersi sull'attenti, ma cercò di rimanere immobile. Meglio andare subito al sodo.

Shinichi Kudo dovrebbe essere morto da un pezzo. Ci stava spiando, tu te ne sei accorto e l'hai colpito alla testa. Poi gli hai fatto ingerire una pillola, il veleno che avrebbe dovuto ucciderlo senza lasciare alcuna traccia.”

Gin sembrò ricordare all'improvviso. Il volto si irrigidì e gli occhi si spalancarono, lasciando trasparire uno sprazzo di verde gelido. La sigaretta di scivolò dalle labbra, e la schiacciò a terra infastidito, come stizzito per aver mostrato un minuscolo e misero secondo di debolezza. Fece sprofondare le mani nelle tasche. L'uomo oltre il cappotto nero sembrava essersi destato.

“I fantasmi non esistono. Sarà un fotomontaggio dei giornalisti. Lo sai come sono: disposti a tutto pur di far notizia.”

Vodka non era davvero quello che può definirsi un uomo intelligente: ma, dopo averci lavorato accanto per anni e anni, poteva dire di conoscere bene il suo capo. Capiva perfettamente quando Gin aveva in mente qualcosa, quando aveva voglia solo di essere lasciato in pace e di riflettere lontano da rumori inconsistenti, quando era nervoso e l'unico rimedio era una sigaretta e quando, colto alla sprovvista, mentiva per non lasciare intravedere niente di più che la solita fredda schermata. E quella volta si trattava dell'ultimo caso. Cercò di calibrare la risposta più adatta a non ferire l'orgoglio dell'uomo che gli stava di fronte. L'illuminazione arrivò di colpo, inattesa quanto soddisfacente. Sapeva che toccando quel tasto avrebbe risvegliato l'interesse del capo.

“Capo.”

“Che c'è?”

“Mi è venuta in mente una cosa.”

Gin sembrò infastidito da tutto quel giro di parole. Fece solo un cenno con la testa, come ad intimargli di sbrigarsi a parlare: non aveva tutta la vita da dedicargli.

“Ricordi chi ha confermato la morte di Shinichi Kudo?”

Gin strinse appena le palpebre. Le immagini scorrevano a ritroso nella sua mente, fino a ormai molti presi prima, dove quella storia andava collocata. Il film si riavvolgeva veloce, e le scene si susseguivano una dopo l'altra, come un vivido viaggio indietro nel tempo. Era esattamente come leggere un libro al contrario, con la differenza che ad essere selezionate erano solo le pagine più importanti: le stupidaggini e le piccole cose non erano degne di essere tenute a mente. Per un attimo non ci fu Vodka davanti a lui: c'erano chiazze di vita che si spingevano l'una contro l'altra e poi, di colpo, fu come premere il piccolo tasto centrale che indicava la funzione play. I suoi occhi videro solo una ragazza, i suoi capelli castani, lo sguardo basso ma la voce sicura, il camice bianco che sembrava quasi dipinto addosso. Quelle iridi azzurre che a tratti si piantavano su di lui, tremando di paura e soggezione intorno a quelle pupille nere che invece esprimevano solo tutto l'odio che lei provava per lui, l'assassino di sua sorella. Ricordava le sue parole, quando gli aveva detto che la pratica era chiusa, che era tutto a posto. Per un piccolissimo secondo gli sembrò di sentire quel profumo che tanto gli inebriava la mente e offuscava i pensieri, ebbe come la sensazione di essere mesi indietro, quando lei era ancora davanti a lui, quando poteva divertirsi a stuzzicarla come meglio preferiva, prima che sparisse, volatilizzandosi come acqua nel deserto. Fu la sua stessa voce a riportarlo al presente.

“Sherry.” bisbigliò appena. Il sapore del sangue si diffuse nella sua bocca: doveva aver morso il labbro senza rendersene conto. Ma non dispiaceva, non gli era mai dispiaciuto. E in quel momento, poi, quella sensazione si accoppiava perfettamente ad ogni suo pensiero.

“Esatto, capo. E se ci avesse mentito?”

Gin lo guardò appena. Sembrava improvvisamente rinvigorito: il pensiero di quella donna aveva risvegliato l'uomo che stava al di sotto di quel cappotto, e ogni più piccola molecola che scorreva nel suo sangue andava ad alimentare nel suo cervello un solo, unico pensiero: ora sì che avrebbe cominciato a divertirsi.

“Sherry è sempre stata più furba di quanto pensassimo.”

“Beh, capo, è un cervellino niente male. E non solo quello, direi..” aggiunse, ridacchiando maliziosamente. L'occhiata lacerante che gli riservò Gin raggelò la sua risata. Forse aveva detto qualcosa di troppo. Tossicchiò, cercando di ricomporsi.

“Che facciamo?”

“Ridammi il giornale.” rispose l'altro, strappandoglielo di mano senza nemmeno attendere la risposta. Scorse in fretta l'intero articolo. Un istante dopo, sapeva cosa fare.

“Ho sentito per caso un notiziario alla radio prima di arrivare qui. Il corpo dell'idiota che si è buttato giù dal ponte non è stato ancora ritrovato. Non ti pare strano?”

“Potrebbe essere caduto in fondo al fiume.”

Vodka stesso si rese conto di quanto quella risposta suonasse stupida, ma in fondo era solo dettata dalla voglia di concludere quella conversazione il prima possibile. Aveva la netta sensazione che il suo capo avesse in testa per lui una nuova missione.  Gin non sembrò nemmeno considerarlo.

“Potrebbe essere ancora vivo. Quando vuoi morire, finisci sempre per non riuscirci.”

“E anche se fosse? Buon per lui.”

“Invece potrebbe tornarci utile. Segui il mio piano senza preoccuparti di elaborarne uno: comunque non lo adotteremmo.”

Vodka lasciò cadere la battutina nel vuoto, senza curarsene. Ormai era talmente abituato che aveva imparato a mettere da parte l'orgoglio.

“Che cosa credi che dovremmo fare?”

“Controllare che sia davvero morto. Se è vivo, lo voglio.”

“Ma come facciamo a trovarlo?”

“Come farai a trovarlo. Io ho altro di cui occuparmi.”

“Capo, io non capisco.”

“Non c'è molto da capire, devi cercare questo tale Arthur Newman, per verificare se sia davvero morto o meno.”

“Ma lo cercano da un giorno intero senza risultato, e..”

“Se ci mettessimo più di un giorno a trovare un latitante da quattro soldi, ci chiameremmo polizia. Capito il concetto?”

Gli scappò una risatina. Gin invece rimase impassibile.

“Dove potrei trovarlo?”

“Dove andresti se sapessi di avere il mondo alla calcagna e non te ne importasse nemmeno così tanto? Se è vivo, sarà come un gattino spaurito: starà cercando un posto solitario per morire in pace.”

Vodka annuì.

“Quando comincio?”

“Stanotte.”

Non ci sperava più in un’altra risposta. Eppure sentirla gli perforava le orecchie e gli tagliava le gambe. Quel lavoro non gli lasciava nemmeno un attimo di pausa e, anche se l'attenzione del capo si era improvvisamente destata, il suo interesse per tutta quella situazione dormiva ancora da qualche parte nel profondo del suo animo.

“E di quel detective che facciamo?”

“Una cosa per volta. Se troveremo questo attore, ho già in mente un piano che potrebbe permetterci di arrivare a Shinichi Kudo senza dare troppo nell'occhio. Altrimenti, dovrò rivedere tutto.”

“E la ragazza della foto? Chi sarà?”

“Scoprirlo non sarà difficile. Ma tutto al momento opportuno, Vodka. La notizia è fresca, il nostro piccolo detective è sulla bocca di tutti a quanto pare. Vediamo se questo stimolerà la sua vanità e si farà vivo di nuovo, oppure se deciderà di agire nell'ombra. Se tutta questa storia è vera e non è solo una montatura dei giornali, questo Shinichi Kudo è una preda più astuta di quanto pensassimo. Saprà che lo stiamo cercando, e agirà con cautela. Per cui dobbiamo essere ancora più pazienti, e attendere il momento giusto, per colpire senza possibilità di fallimento. E chissà che tutto questo non ci porti anche a Sherry: sono sicuro che non è estranea a questi avvenimenti. Ricorda: il trionfo si gusta meglio quando lo si assapora con calma, boccone dopo boccone.”

“Agli ordini, capo.” disse solo Vodka, preparandosi ad un'altra notte senza sonno.

“Ora possiamo anche separarci: entrambi abbiamo qualcosa da fare. Sai come contattarmi per qualsiasi novità.”

Si voltò e andò via senza dire un'altra parola. L'uomo con gli occhiali, rimasto solo, sospirò, riprendendo il suo cappotto che era rimasto appeso. Frugò nelle tasche, e ne tirò fuori un fazzoletto avvolto su se stesso. Lo aprì, facendo attenzione e non far cadere il contenuto per terra: vi erano alcune piccole pilloline. Ne prese una, e la inghiottì senza l'ausilio dell'acqua. Quella notte non poteva farcela ad andare avanti da solo. Si infilò il cappotto e uscì a sua volta, pensando che, almeno per un'ora, gli sarebbe piaciuto essere solamente l'uomo oltre quegli occhiali da sole: ma in fondo, c'era sempre quella terribile paura. La paura di scoprire che, in realtà, in lui non c'era altro che l'involucro di pensieri e mansioni che il suo ruolo gli aveva assegnato. Più avanti, nella notte, c'era un uomo che, invece, stava riprendendo piena coscienza di ciò che c'era oltre quel cappello nero. Un solo vivido, fervente desiderio. Questa volta non se la sarebbe lasciata scappare.

 

 

 

 

 

Nella vita ci sono cose che dobbiamo fare se vogliamo continuare a definirci dignitosamente uomini. Ci sono situazioni da cui non possiamo scappare, e storie che bisogna affrontare, anche quando la soluzione più facile e sicura sarebbe semplicemente quella di sgattaiolare lontano, fuori da un pericolo troppo forte o da una paura troppo grande.

Quel giorno, Yusaku Kudo si era trovato davanti ad una scelta di quel genere. E aveva deciso di poter continuare a guardarsi allo specchio senza nessun rimpianto, senza vedere persino riflessa sulla sua immagine una macchia nera e nitida nella sua coscienza. Non poteva lasciare Tokyo fino a quando il corpo di Arthur non fosse stato ritrovato: lo doveva a quel ragazzo, lo doveva al signor Sakamoto, che era morto senza nemmeno potersene rendere conto, lo doveva a se stesso e sì, lo doveva anche al suo libro, a quelle pagine che stava nervosamente sfogliando nella penombra di quell'enorme stanza ricolma di libri. Lo doveva a Shinichi, a suo figlio. Seduto sulla sedia, la luce della piccola lampada da tavolo accesa, le gambe scompostamente poggiate sulla scrivania, osservava l'atmosfera magica che lo circondava. Quell'enorme libreria, che anno dopo anno si era costruito, era davvero il suo mondo interiore. Amava passarci le giornate, e, quando si trovava a Tokyo, era quello l'unico posto in cui riusciva davvero a scrivere: alle volte, lontano dai suoi amati libri, tra i grattacieli di New York si sentiva un po' solo e spaesato. Provava nostalgia per il suo nido caldo e sicuro.

Rilesse l'ultima riga, per poi ripoggiare il libro sulla scrivania.

 

L'essere umano, per quanto forte si creda, muore schiacciato dalla più stupida inezia.

 

Nonostante le avesse solo pensate, nel silenzio surreale di quella stanza esse sembrarono quasi riecheggiare. Era passato lentamente un giorno dalla notte precedente. Ed erano successe talmente tante cose, come se la vita si fosse accanita di colpo. D'improvviso si era stufata di starsene quieta, e aveva cominciato a picchiare, lasciando lividi che non se ne sarebbero andati tanto facilmente. La scorsa notte avrebbe dovuto essere un vero sogno: ritrovarsi a vivere l'atmosfera del libro che lui aveva creato, respirare l'aria dei suoi stessi personaggi. Ma finzione e realtà si era fuse fin troppo, e non era più stato possibile separare una dall'altra e distinguerle. Sentì la testa pulsargli. Avrebbe voluto immergersi nel silenzio del vuoto, senza rumore alcuno, fino a sentire lo scorrere nel sangue dentro, fino a sentire solo se stessi. Si stropicciò gli occhi assonnati sollevando appena gli occhiali. Nonostante sentisse il fisico cedere pian piano, la mente non riusciva a riposare. Quando sentiva che stava per esplodere o che qualcosa stava per schiacciarlo, scrivere era sempre stato il miglior rimedio. Ci aveva provato anche quella notte, ma il suo tentativo di dimenticare, di immergersi in un altro mondo, era miseramente fallito. E quella era stata davvero la conferma: ora che finzione e realtà si erano fuse, non sarebbe stato possibile allontanarsi da quest'ultima, per sprofondare solo nella propria immaginazione. Quando l'arte diventa realtà, ne prende tutte le caratteristiche: perde ogni funzione catartica e lascia spazio solo ai martellanti rimorsi e sensi di colpa. E bisogna rialzarsi un poco alla volta, capire fino in fondo, smacchiarsi l'anima e accettare quello che è successo e che si è fatto perché tutto torni come prima. Yusaku, in cuor suo, sentiva che ci avrebbe messo molto ad accettare quel che era successo: sentiva chiaro e forte dentro di sé che, anche se fosse riuscito a scrivere, per un po' le sue parole non lo avrebbero convinto. Sarebbero state vuote, perché lui non sarebbe stato in grado di far involontariamente fluire il suo inconscio attraverso di esse. Non sarebbe stato in grado di perdere ogni controllo e lasciarsi andare: no, perché la realtà di tutto quello che era avvenuto e non si era ancora concluso sarebbe stata sempre davanti ai suoi occhi.

Ed era arrivato quel momento in cui ogni suo desiderio stonava con la vita che il destino gli stava lanciando addosso.

“Papà.”

Una vocina aveva fatto capolino tra lui e i suoi libri. Ma non era una voce invadente: era la voce di colui che tra tutta quella carta ci era cresciuto. Era la voce di colui con cui si era ritrovato immerso in quello strano gioco del destino. In quel pomeriggio avevano deciso come agire. Dato che nessuno si era fatto vedere né avevano riscontrato niente di sospetto nei paraggi, avrebbero abbandonato la casa la mattina presto, al sorgere del sole. Avrebbero preso una macchina in affitto sotto falso nome, e si sarebbero allontanati se non da Tokyo, almeno da quel quartiere. La mattina stessa Yukiko, abilmente travestita, si sarebbe presentata all'agenzia di Kogoro, e avrebbe spiegato ad entrambi la situazione. Alla fine, avevano convenuto che l'unica soluzione era quella di coinvolgere l'ispettore Megure per quanto riguardava la fuga di Ran e Kogoro: da soli non avrebbero potuto mantenere il segreto. Yusaku si era recato quel pomeriggio al commissariato, con la scusa di informazioni sulle ricerche del corpo di Arthur. Parlando in privato con l'ispettore, gli aveva spiegato una situazione vera solo a metà: Shinichi era coinvolto in un caso alquanto pericoloso, e non voleva rischiare di mettere in pericolo la vita della sua amica. Megure aveva strabuzzato gli occhi, affermando che, senza ulteriori informazioni, non avrebbe potuto aiutarlo. Yusaku aveva detto che il caso non coinvolgeva la questura di Tokyo, e di fidarsi di lui e basta, in nome di una vecchia amicizia. Non poteva aggiungere altro. L'ispettore, alla fine, aveva accettato con un profondo sospiro: in fondo, Yusaku Kudo non l'aveva mai deluso.

Shinichi. Non dormi?”

Il bambino gli si avvicinò, saltando agilmente sulla scrivania. Lanciò un'occhiata al libro sul tavolo: la piega fresca della copertina gli fece capire che era stato aperto da poco. Guardò gli occhi stanchi di suo padre e si chiese se anche i suoi apparissero così, spenti e desolati ma, in fondo, coraggiosi. Si strinse nel suo pigiama scolorito, incrociando le gambe.

“Potrei farti la stessa domanda.”

“Non ho sonno.”

“Dai tuoi occhi non si direbbe.”

“Nemmeno dai tuoi.”

“Dovremmo riposare almeno un poco. Il domani comincerà presto, e non sarà una pratica semplice.”

“E' proprio quando abbiamo questo pensiero fisso in testa che non riusciamo mai a chiudere occhio.”

La luce di quella piccola lampadina bastava appena ad illuminare i loro volti. Ma avevano la sensazione di potersi perfettamente scrutare anche nella penombra. Nessun angolo di quel luogo era per loro sconosciuto.

“Ho ascoltato il telegiornale della notte, ma non c'è nessuna novità.” disse Yusaku, con voce roca, quasi inceppata. Non si preoccupò di schiarirla.

“E' strano che non l'abbiano ancora trovato.”

“L'hanno cercato tutto il giorno, ma il fiume restituisce solo carta fradicia e parole scolorite.”

Silenzio. Poi Yusaku parlò di nuovo.

“E se fosse ancora vivo?”

“Non lo so.”

“Non posso andare via finché non lo saprò con certezza.”

“Lo so, l'ho capito. E penso di comprenderti.” ammise il bambino.

Fu ancora silenzio. Il legno di uno scaffale scricchiolò appena. Anche quel suono era terribilmente familiare. Sapeva di casa.

Shinichi.”

“Dimmi.”

“Sono contento che tu sia stato a fianco a me ieri. E sono contento pensando che affronteremo insieme quello che verrà.”

“Anche io, papà.”

“Ma?”

“Cosa?”

“Ti conosco. Quando la tua voce si appropria di quell'inflessione, c'è qualcos'altro che vuoi aggiungere.”

Conan sorrise. Non gli si poteva nascondere nulla.

“Ero indeciso se dirtelo o meno.”

“Ormai è andata.”

Esitò un attimo prima di cominciare, come se non sapesse esattamente quale fosse la parola giusta per iniziare. Ed essa sembrava rivestire un'enorme importanza. Alla fine, decise che era meglio parlare senza pensare: quando si trattava di esprimere sentimenti, era sempre la soluzione migliore, anche se non era quella che gli si addiceva propriamente.

“La scorsa notte, sul ponte, mentre tu ed Arthur parlavate.. ho provato una strana sensazione. Come se.. come se lì fossi di troppo. Non so spiegartelo. Per un attimo mi è sembrato che fra di voi si fosse instaurata un'intesa perfetta, e io ne ero tagliato fuori, ma non in senso negativo. Mi sono sentito paralizzato nel ruolo di spettatore.”

Sì, proprio così. Si era sentito estraneo ad un mondo che a tutti gli effetti non gli apparteneva. Lui era troppo razionale, troppo calcolatore per lasciar fluire l'immaginazione fino agli elevati livelli della fantasia.

Yusaku sorrise, reclinando il capo all'indietro. Sorseggiò un po' dell'acqua che aveva portato con sé. Sapeva che quella non era il tipo di confidenza per cui serviva una risposta. Quando c'è qualcosa che si vuole dire, alle volte basta dirlo e nient'altro. E il ruolo altrui è solo quello di ascoltare, lasciando liberare l'animo di chi vogliamo bene.

“Meglio così, allora. Perché penso che nei prossimi giorni ti toccherà il ruolo da protagonista.”

Conan sorrise. Eppure c'era una cosa che voleva sapere.

“E tu?”

“Cosa?”

“Non l'hai avuta questa sensazione? Non ti sei sentito, per un attimo, solo, con il resto del mondo lontano più che mai?”

Suo padre leccò appena le labbra ancora bagnate, come a prendersi il tempo per rispondere. Gli occhi lasciavano trasparire una mente ancora persa nel ricordo di quella notte troppo vicina.

“E' stata una sensazione strana, davvero strana.”

“Bella?”

“Definirla così mi sembrerebbe davvero un delitto.”

“Forse, ma lo sai che non ti giudicherei.”

Yusaku sospirò appena. Poi bisbigliò piano, in un sussurro: “Sublime. Sì, la definirei così.”

“Dicono che solo gli animi grandi e nobili siano in grado di percepire a pieno il sentimento del sublime.”

“Lo prenderò come un complimento.”

Conan prese in mano la copia di In bianco e nero che stava riposta in silenzio sul tavolino. Forse era giunto il momento di parlare anche per lei. La aprì alla prima pagina e lesse piano, scandendo le parole:

 

“Il giorno nasceva piano, scolorendo la luna dal cielo. Le nuvole si muovevano sospinte dal vento, sballottate di qua e di là, gonfie e boriose, come terribilmente sicure di loro stesse. La rugiada che scivolava sulle foglie..”

 

“Basta. Non ora. Quelle parole mi fanno male.” intimò la voce incrinata del padre. Il bambino non osò proseguire. Un tuono rimbombò facendo tremare le pareti della casa.

“Piove?” chiese Conan, rivolto non sapeva nemmeno lui a chi.

“Così pare. Forse dovrei dire una frase stupida e banale, del tipo anche il cielo oggi piange?”

Il figlio scosse il capo: “No, è troppo scontata. Da un grande scrittore come te mi aspetto di meglio.”

“Allora ti dirò che mi piacerebbe correre fuori, e lavarmi tutto di dosso. Lasciarmi scorrere sulla pelle ogni cosa, ogni problema, ogni preoccupazione, ogni maschera e ruolo ed essere soltanto l'uomo che c'è oltre questo paio di occhiali e quella cravatta che mi piace tanto portare. Che cosa resterebbe secondo te?”

Il padre sembrò lanciargli uno sguardo disperato, come a chiedere aiuto. Come se avesse davvero paura che potesse non rimanere più nulla oltre tutto quello che ogni giorno lo ricopriva. Conan sorrise appena e gli porse la copia di In bianco e nero che teneva in mano.

“Ma che domande sono, papà. Lo sai benissimo anche tu: resterebbero i tuoi libri.”

 

 

 

Al piano di sopra, avvolta da un lenzuolo candido e leggero, una bambina non riusciva ad addormentarsi, tormentata anche lei da una notte di pensieri e domande senza risposta. E, oltre i tuoni che padroneggiavano nel buio, le sembrava di sentire confuso con essi ma abbastanza nitido da essere percepito, il rombo del motore di una vecchia macchina scoppiettante. Cercò di non pensare, di avvolgersi in quel lenzuolo e sprofondare in quel cuscino morbido. Ma era tutto inutile. Non bastava un cuscino a proteggerla dai fantasmi. Facendosi coraggio, si alzò, camminando piano in punta di piedi fino alla finestra. La tapparella non era del tutto abbassata, quella sera aveva avuto paura del buio. Sbirciò oltre la fessura che aveva lasciato, ma la pioggia le appannava la vista. Sembrava scendere dal cielo come un torrente in piena, e scrosciava ininterrottamente sul cemento della strada. Fu allora che un lampo illuminò la via. I suoi occhi azzurri scorsero, parcheggiata poco distante, una macchina nera. In quell'istante di luce improvvisa, le sembrò di riconoscerla chiaramente. La gola si seccò, l'urlo impietrito non trovò la forza di uscire. Corse nel riparo labile del suo lenzuolo, cercando di calmarsi. Forse era tutto solo una grande, paurosa suggestione.

 

 

 

 

 

 

 

 

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E dopo ben due mesi, eccomi di nuovo qui! Anche questa volta in ritardo, anche se non c’è stato un solo giorno in cui non abbia pensato a questa storia. Purtroppo maggio è stato davvero un mese di inferno, ho dovuto affrontare un esame davvero difficile e ci ho messo tutta me stessa. E ora, che ho qualche giorno di “studio tranquillo” prima degli altri esami, ho ripreso in mano il capitolo, l’ho completato e l’ho corretto. Alcuni pezzi non mi convincono molto, ma lascio giudicare voi. E’ il più lungo dall’inizio della storia, spero non l’abbiate trovato annoiante. Mi piace “perdermi” a scrivere sulle emozioni dei personaggi, su quello che possono rappresentare e lasciarmi andare a qualche riflessione :) Per me la scrittura è il modo di evadere per un po’ dalla realtà quotidiana. So che in questo modo forse la storia potrebbe risultare lenta, ma è il mio modo di scrivere e vedere le cose, e penso non riuscirei a fare altrimenti.

Adesso la storia entra davvero nel vivo, dato che i nostri Gin e Vodka si sono svegliati dal letargo :) 

Che cosa dire.. spero che il capitolo vi sia piaciuto e che, nonostante i miei ritmi, continuiate a seguirmi :)

Ringrazio tutti, ma davvero tutti quelli che hanno letto, recensito, messo la storia tra le seguite, preferite e ricordate. Un grazie grande come al solito ad Aya_Brea che sopporta i miei deliri mentre scrivo u.u

Se avete tempo di farmi sapere cosa ne pensate, ne sarei felice :)

Concludo augurando a tutti la buona fortuna se anche voi siete in pieno periodo di esami, e buone vacanze a chi invece l’estate l’ha già cominciata.. e se lavorate, tenete duro in attesa delle ferie ;) E infine: coraggio Italia per questa sera!!! (Eh si, sono una fan sfegatata del calcio u.u)

Un bacione grandissimo,

Flami

 

 

  
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