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Autore: sarahrose    14/06/2014    1 recensioni
William Bruce Bailey, 17 anni.
Intelligente, sensibile e dotato.
Cresciuto a torte di mele, Sacre Scritture e cinghiate nei denti.
Figlio di Stephen L. Bailey, Pastore Pentecostale, Ministro del Culto della Lafayette Holy Roller Country Church, e di Sharon Bailey, casalinga frustrata e dedita agli antidepressivi.
Vittima di abusi dal padre-padrone e dell'indifferenza della madre.
Un unico amico su cui contare: Jeff Isbell.
E la Musica. Quella del Diavolo.
Il rock. Quello vero. Brutto, sporco e cattivo. E terribilmente proibito.
Questa è la storia di un mito. Di una leggenda.
William Bruce Bailey. Da Lafayette, Indiana, a Los Angeles in autostop.
Per diventare W. Axl Rose.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Axl Rose
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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ATTENZIONE: OGGI HO POSTATO DUE CAPITOLI. QUESTO E' IL SECONDO. SE E' IL PRIMO CHE LEGGETE, STATE BARANDO!!! (CAPITO? GUARDATE CHE VI TENGO D'OCCHIO!!!)
Capitolo 7
 
 
SHARON S. BAILEY
10 drops of Valium
 
Mio Dio, aiutami tu!
Io… io giuro che, a questo punto, non so davvero più che cosa fare…
Ci ho provato. Ci ho provato in tutti i santi modi. Te lo giuro. Ci ho provato a far funzionare le cose tra il mio Billy e Stephen, ma adesso… non lo so. Da un po’ di tempo sta andando tutto a rotoli.
Il ragazzo si è messo a frequentare brutte compagnie. O almeno, stando a quel che sostiene suo… sì, insomma. Steph.
 E lui che cosa fa?
Lo prende di punta.
E, se possibile, peggiora la situazione.
Quanto a me, indovinate.
Come al solito, sto tra la padella e la brace.
Sono, per così dire, il maledetto cuscinetto puntaspilli. Nient’altro che questo. Come moglie non esisto. Come madre, ancora meno.
No, dico. Ditemi voi. Che cosa devo fare?
Io non so più che pesci pigliare. Cosa dovrei fare, ribellarmi?
Dar fuori da matta anch’io come il ragazzo e mandare tutto- come dice lui- a puttane?
(Che, dopotutto, a quanto pare, è la specialità di mio marito.)
Ma lasciamo perdere, và, che è meglio.
Ad ogni modo, fate bello, voialtri, a giudicare!
Visto dal di fuori è tutto facile. Tutto liscio come l’olio.
Io, però, in quella roba là che puzza ci sono dentro fino al collo. E il bello è che purtroppo non so neanche nuotare!
Questa è la mia schifosissima vita! Non una di quelle sciape telenovelas brasiliane che mi auto infliggo dalla mattina alla sera solo per rincoglionirmi!
Qui stiamo parlando di me. Di Billy. Di noi.
Lo so che devo combattere! Dirne quattro a quel pallone gonfiato di mio marito. Quel porco. Che, se non lo sapete, gente, ve lo dico io, mena pure.
Lo so che a volte esagera.
(Volete che non lo sappia?)
 Soprattutto con Billy. Con la sua ossessione della disciplina. Ma so anche un’altra cosa: lui fa tutto questo SOLO e UNICAMENTE a FIN DI BENE.
Per educare i suoi ragazzi come ritiene giusto, per poter lasciare loro, un giorno spero lontano, in eredità, tutto quello per cui, in questa difficile vita, ha combattuto.
Come padre, sinceramente, non è perfetto, però non me la sento di giudicarlo troppo male. Fa tutto quello che fa col cuore e con l’anima. E se esagera… beh, ecco. Francamente, è solo per eccesso di zelo.
Come marito… niente. Ammetto che a volte lo strozzerei con le mie mani. Soprattutto quando si concede quelle che lui stesso definisce… ehm… LICENZE. Sì, insomma. Come una licenza di caccia o di pesca.
(Avete presente?)
Ma lui non va mica a pescare, sapete? E tantomeno a esercitarsi con la doppietta a spese di qualche povero animale innocente.
Nossignore.
Lui va… in Missione Speciale.
A salvare dalle fiamme dell’Inferno delle povere PECORELLE SMARRITE. Le quali, ma tu guarda caso, sono tutte DONNE. E tutte, STRANAMENTE, giovani e carine!
Che uomo, eh?
Santo subito.
Quindi, tirando le somme, come marito fa PIETA’, ma non ha importanza: io me lo sono scelto, io me lo cucco. E poi, in fondo, a voler ben guardare, non è che io, quando l’ho sposato… voglio dire, capitemi. Nelle mie condizioni non è che ci fosse la fila, fuori dalla mia porta. Insomma, come ve lo devo dire? Non avevo scelta. E non è una scusa. E’ un dato di fatto. E poi ero giovane e stupida. Pero' in fondo avevo i miei motivi.
Quali? Se non vi spiace, vorrei tenermeli per me. Sapete com’è… una parola tira l’altra. E basta una chiacchiera per rovinare una persona e via dicendo.
Yaaaaawnnnn!
Che sonno!
(E poi, se lo viene a sapere il ragazzo succede un macello. Un’Apocalisse. Avete presente il Giudizio Universale? Ecco. Sinceramente, mi fa meno paura.)
Quindi, vi prego.
Non puntate il dito.
Mio marito va compatito, più che biasimato. E’ una vittima della sua stessa insana ossessione per il peccato e per tutto ciò che, secondo le Scritture, è PURO o IMPURO.
(Anche se devo ammettere che è molto più incline a vedere la pagliuzza nell’occhio di Billy che non la trave nel suo.)
E ricordatevi che, alla fine, il cane che abbaia non morde mai. O almeno, insomma, non sempre.
Ad ogni modo, tutto sommato, per i due piccoli è un buon padre.
Quanto a Billy… sta crescendo. E’ un ragazzo molto sensibile, che ha sofferto molto da bambino per cose che, come ho già accennato, non me la sento di dare in pasto alla gente. Ad ogni modo, accontentatevi di sapere che, quello che oggi è un adolescente ribelle, da bambino ha subito traumi di portata devastante.
La vita non è stata mai facile per lui, quindi, a maggior ragione, ha bisogno di una mano ferma. Di una figura paterna valida di riferimento che non vacilli e gli mostri senza tentennamenti la retta via.
Ordine e disciplina?
Forse.
Pugno di ferro?
Sicuramente.
Perché con quel ragazzo, se vacilli è finita.
E se gli dai un dito, ti prende anche il braccio e ti trascina a fondo con lui.
Io credo in Stephen come padre. L’ho detto e lo ripeto.
E Billy… ebbene, diciamocelo una volta per tutte chiaro e tondo. Lui l’ha proprio deluso. E anche tanto, a dirla tutta.
No, dico. Guardiamola per un attimo dal punto di vista di mio marito.
Il ragazzo da piccolo era un genio. Un bambino prodigio. Sapeva tutta la messa a memoria e cantava come un cherubino.
A scuola, i suoi insegnanti, mi dicevano che era un asso pigliatutto.
Poi, puff! Tutto è cambiato. E’ successo verso i quattordici, quindici anni. Prima la tempesta ormonale della pubertà. E va bene. Poi il figlio degli Isbell, Jeffrey, che lui chiama Izzy. E poi il nulla. Il tracollo. I vestiti da straccione. Le parolacce. Addirittura le bestemmie. I capelli lunghi. Le borchie. Gli anelli con i teschi e tutto il suo look da tossico. E, tra parentesi, suo pa- sì, insomma. Quello che è. Mio marito. Chiamiamolo così. Ha ragione quando dice che si ubriaca. L’ho sentito anch’io, tornare tardi e incespicare ovunque in corridoio per non accendere la luce. La scala di legno non e' a dir poco sua alleata. Anzi. Lo tradisce tutte le sante volte. Ed eccolo. Mi sembra di vederlo. Trascinarsi di sopra come uno zombie sfatto e sconvolto. Buttarsi a letto vestito con magari, perché no, ancora le scarpe ai piedi. E poi, immancabilmente, lo scalpiccio furioso  verso il bagno. E lo sciacquone. Tirato cinque, dieci. Venti volte.
Sempre così. Tutte le sere che esce con quel poco di buono, poi passa la notte con la testa nel water a vomitare l’anima.
Una volta l’ho beccato in pieno.
E devo ammettere che anche i capelli, legati con un elastico di Amy perché non si sporcassero, hanno fatto la loro parte. Insomma, francamente, conciato in quel modo, Bill non faceva una bella impressione.
“Tesoro, ma cos’hai?”
“Niente, ma’” ha borbottato, sempre a capofitto nella tazza. “Va’ a letto.”
“Ma cos’è stato?”
“Boh. E che ne so. Forse una coca ghiacciata. L’ho bevuta troppo in fretta.”
Certo. Come no.
(E gli asini volano.)
 “vuoi che ti faccia una camomilla?”
Lui ha scosso la testa.
“Ma’, va’ a letto” ha ripetuto, spazientito. “O sveglierai pa’.”
E giuro che ha passato il resto della notte in bagno, tanto che Amy, una mattina, quando si è alzata per fare pipì, ha trovato suo fratello riverso a terra in una pozza di vomito. Lo ha creduto morto e si è messa a strillare, svegliando tutta la famiglia. Incluso mio marito, che ha dovuto raccoglierlo, ripulirlo e portarlo a letto.
E non è la prima volta che succede.
(Quando ci arriva, in bagno.)
E, credetemi, va ancora di lusso. Perché a volte, invece, la mattina, scendendo dabbasso per colazione, abbiamo trovato la scalinata con la moquette… ehm. Ridipinta di fresco.
Poi marina la scuola. E non ogni tanto, come tutti.
Lui lo fa sistematicamente.
Però posso capirlo. Mio figlio, dico.
Non lo approvo, certo. Ma lo capisco.
La sua è la rabbia cristallina dell’adolescenza. La ribellione alle rigide imposizioni convenzionali fatte di ordini e di disciplina.
E’ il dissenso dell’artista- perché è questo quello che è, in fondo, il mio Bill. Un artista. Un cantante nato. E anche un poeta, se volete saperlo.
Dicevo, il suo è il giusto, sacrosanto dissenso dell’artista  alle convenzioni stereotipate. Ai codici di comportamento mummificati, come diceva un eminente filosofo in TV.
Ma qui a Lafayette, artisti e poeti non sono troppo ben visti.
Quelli coi soldi, i sognatori, gli intellettuali, qui non ci stanno.
Hanno ville eleganti. Piscine. Auto di lusso. E abitano sull’altra sponda del fiume Wabash.  
Ma noi, sfortunatamente, non siamo così ricchi.
Di qua dal fiume, le cose sono differenti.
Qui la gente lavora sodo. In fabbrica. Dalla mattina alla sera a spaccarsi la schiena.
Non ha tempo di sognare ad occhi aperti.
Bill, invece… lui è diverso.
Lui non appartiene a questa sponda del fiume. E forse, pensandoci bene, neppure all’altra.
Io lo vedo bene in California.
Non so perché. So solo che avverto in lui un profumo di classe alta che non ha niente a che fare col denaro.
Mio figlio è speciale.
Per questo non voglio che si rovini la vita.
Non voglio più vederlo stare male per qualcosa che noi non gli sappiamo dare.
Sono sua madre. Lo conosco bene.
So cosa gli passa per la testa. Cosa credete?
Sarò anche rincoglionita per via dei medicinali che prendo, ma dopotutto, sono e resto pur sempre sua madre. O no?
E quanto agli psicofarmaci che prendo… beh. Sono ansiolitici.
Soffro di attacchi di panico.
Crisi di ansia.
Agorafobia.
Chiamateli come diavolo volete. La sostanza non cambia.
La mia è una malattia seria. Invalidante.
Non posso mettere il naso fuori di casa che mi gira la testa. Il cuore mi va via come un treno e non riesco più a respirare.
Non giudicatemi male. Non voglio piangermi addosso, ma tutto questo, lo sapete quand’è cominciato?
Più o meno da quando ho avuto Bill.
Anzi. Senza più o meno.
Da allora, per vivere una vita decente- si fa per dire- sono costretta a imbottirmi di Valium e Prozac.
Quindi, come vedete, non lo faccio per sport. Per sballarmi. O- passatemi l’espressione- cagate varie.
(Quando ci vuole, ci vuole.)
Io lo faccio per SOPRAVVIVERE. Punto e basta. Anche se poi mi addormento sul piatto e ciondolo per casa tutto il santo giorno come una non-morta e scoppio a piangere come una deficiente davanti ad Andrea Celeste.
Lo so cosa pensate di me. Non sono mica scema.
Che sono una pappamolla. Una zombie. Praticamente un ELETTRODOMESTICO. Senza cervello e, soprattutto, senz’anima. Una vigliacca. Che dovrebbe prendere le parti di suo figlio e che, invece, si rifiuta per paura trincerandosi dietro un muro chimico di silenzio.
Credetemi se vi dico che non è così.
 
Avevo anch’io dei sogni, sapete?
(E che sogni!)
Da bambina volevo fare la ballerina. Pensate. Ho studiato danza classica dai tre ai diciassette anni. E… sì, insomma. Modestamente parlando, ero piuttosto portata. Tanto che, a diciassette anni, ho vinto una borsa di studio per il Metropolitan di New York.
Ma ci pensate?
Da Lafayette, Indiana, al Metropolitan di New York.
Avete presente quel bel film con Jack Lemmon di qualche anno fa?
Un provinciale a New York.
Ecco. E’ così che mi sentivo.
L’unica cosa che mi rodeva era che, per più di un anno, non avrei potuto rivedere il mio ragazzo.
Lo amavo molto, sapete?
Certo. Ci saremmo scritti. Ma a diciassette anni… voglio dire. Pieni di ormoni e innamorati com’eravamo. Anzi. Come io credevo che fossimo… insomma. Era chiaro come il sole che scriverci non sarebbe bastato.
Ad ogni modo, io mi torturavo.
Da un lato non stavo più nella pelle dalla smania di partire. Dall’altro, la paura di perdere il mio fidanzato mi stringeva in una morsa fino a togliermi il respiro.
Così, ho lasciato che accadesse ciò che doveva accadere.
Cioè. Diciamo che, se quello era il mio destino, non ho fatto nulla per evitarlo.
Insomma. E’ successo.
Punto e basta.
E poi?
Poi niente.
Era l’anno del diploma. E dopo il ballo di fine anno è successo il patatrac.
Io mi sentivo strana.
E, capitemi. Non mi sono meravigliata più di tanto quando, a luglio, ho saltato.
Il ciclo, dico.
Pochi giorni prima di partire per New York, di nascosto da mia madre, ho fatto un test di gravidanza.
Si trattava di fare pipì su una pipetta e di aspettare qualche minuto per il risultato.
Basta.
Inutile che vi dica come mi sentivo mentre attendevo il responso.
So che, alla fine, tirando lo sciacquone, ho gettato via tutti i miei sogni e le mie speranze.  
Addio balletto.
Addio New York.
Le scarpette di raso rosa con le punte di gesso le ho bruciate assieme agli ultimi scampoli di magia dell’infanzia.
Il tutù l’ho fatto a pezzi lacerandolo coi denti.
Le donne incinte non ballano.
(Anche se sono ancora solo ragazzine)
Dopo circa sette mesi, a febbraio, nacque Billy.
E la mia vita cambiò per sempre.
Capito?
Non pensate male.
Io amo mio figlio.
Non dovrei dirlo, ma è il primo nel mio cuore.
Insomma. Amo tutti i miei figli.
Però Billy è Billy.
Punto e basta.
Eppure, una parte di me non si è mai rassegnata. Voglio dire. Non posso fare a meno di pensarci. Di chiedermi come sarebbe stata la mia vita se-
(-SE.)
E adesso scusatemi.
Devo proprio andare.
Sono fuori tempo massimo.
Tra poco i ragazzi torneranno da scuola- povera me!
(E io non ho ancora messo su da mangiare!)
Forza, SHERRY.
Mettiti dietro.
Fa’ presto, che tra un po’ sono qua tutti e quattro!
No, dico. Meno male che poi, pomeriggio, ho un po’ di tempo per me.
Mentre i ragazzi sono occupati coi compiti, io mi rilasso davanti alla tele.
Dopotutto non chiedo mica la Luna!
Io mi limito a ritagliarmi un sogno fatto su misura. Lo imbastisco e lo ricucio a seconda dell’umore e del momento. Poi lo straccio e lo cestino. Padrona- se non del mio- almeno dell’altrui destino.
Io sono come una spugna. Come la carta da cucina. Quella della pubblicità.  Assorbo gli amori. Gli intrighi. Le passioni.
Li bevo. Li faccio miei.
Intanto passa un giorno. E poi un altro. E un altro ancora.
E io tiro avanti e sto zitta.
E non penso più a niente.
Ma lasciamo perdere, va’, che è meglio.
Piuttosto. Vediamo un po’ cos’è rimasto in frigo.
(Madonna Santissima!)
Due cipolle e un limone.
Tutto il resto finito. Latte. Uova. Burro. Manca tutto.
Niente.
Volo fuori in extremis così come sono, senza neanche il consenso dello specchio del bagno.
Non ho tempo. Devo correre.
E’ solo entrando a perdifiato al Seven Eleven, dopo aver travolto come un tornado ogni cosa sul mio cammino, che scopro l’incredibile, imbarazzante verità.
La leggo negli sguardi pietosi degli altri.
Sono uscita coi bigodini.
E non è tutto.
Ho ancora il grembiule coi girasoli.
E… Oh, no!
(Che figura di cacca!)
Le ciabatte di pelo che mi ha regalato Amy per la festa della mamma.
Quelle a forma di OCA.
   
 
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