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Autore: Lady1990    17/06/2014    2 recensioni
Archibald è un ragazzino di quindici anni quando compie la scelta che gli cambierà la vita. Col passare del tempo, accanto al suo maestro, il signor Fires, scoprirà su cosa si fondano i concetti di Bene e Male, metterà in dubbio le proprie certezze, cercherà di trovare la risposta alle sue domande e indagherà a fondo sul valore dell'anima umana. Tramite il lavoro di assistente del Diavolo, riscuoterà anime e farà firmare contratti, sperimenterà sulla propria pelle il potere delle tenebre e rinnegherà tutto ciò in cui crede.
Però, forse è impossibile odiare il Bene e l'unico modo per sconfiggerlo è amarlo. Proprio quando gli sembrerà di aver toccato il fondo, la Luce farà la sua mossa per riprenderselo, ma starà ad Archibald decidere da che parte stare. Se poi si somma un profondo sentimento per il misterioso e affascinante signor Fires, le cose non si prospettano affatto semplici.
[Revisionata]
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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La musica è assordante e non riesco a raccapezzarmi in mezzo al caos e al tripudio di ormoni che aleggia sopra la folla scatenata sulla pista. Ancora non so spiegarmi perché ho acconsentito a seguire il signor Fires… no, Samael in questo posto: una discoteca parigina in piena ora di punta, popolata da corpi seminudi che si dimenano forsennati sotto luci stroboscopiche e i riflettori colorati al ritmo di un pezzo house. Davvero, cosa ci trovano di così divertente? 
Osservo una ragazza mora, molto carina: balla ancheggiando come una diva, circondata da due uomini che le si strusciano addosso come mandrilli eccitati. Puah! Sono ridicoli. E il bello è che si credono pure degli invidiabili e prestanti maschi alfa. Vorrei mostrare loro un vero maschio alfa e non dovrei nemmeno andarlo a cercare troppo lontano, perché mi è seduto vicino e sorseggia il suo drink trasparente dall’odore fruttato con un ghigno sornione dipinto sulle labbra. Sembra un gatto che si lecca i baffi dopo aver trangugiato la sua ciotola di latte.
Sono le due di notte a Parigi. Dopo una passeggiata a Pigalle, il quartiere a luci rosse, abbiamo comprato i biglietti per il primo spettacolo delle dieci al Moulin Rouge, finito il quale siamo rimontati in limousine, sino ad approdare in quel locale. Dopo esserci accomodati ai lati opposti di un tavolino dal design ultramoderno, abbiamo ordinato le nostre bevande, più per non apparire fuori posto che altro, e siamo rimasti a scrutare quella bolgia esaltata per una manciata di minuti nel più completo silenzio, ognuno assorto nelle proprie elucubrazioni.
Sono stato catapultato dentro un circo infernale.
Guardo l’orologio.
“Allora, Archie, che te ne pare?”
“Andiamo via?”
Samael scoppia a ridere e il timbro della sua voce fa vibrare ogni cellula del mio corpo, provocandomi una cascata di piacevoli brividi che mi fanno venire la pelle d’oca.
“Non eri mai stato in una discoteca, così ho pensato che almeno una volta avresti dovuto vederla con i tuoi occhi.” ammicca e le sue iridi infuocate rifulgono come torce nella semioscurità della stanza.
“L’ho vista.” mugugno.
Mi sforzo di ingoiare un altro sorso del mio cocktail alla fragola e non riesco a trattenermi dallo storcere la bocca, disgustato dal sapore dell’alcool che mi scivola giù per la gola. Non ho mai bevuto qualcosa di alcolico e, col senno di poi, ammetto che avrei continuato volentieri a farne a meno.
“Guardali, Archie.” indica la pista da ballo, “Guarda come danzano, come si ammaliano e incantano a vicenda, come sfoggiano fieri e audaci le spoglie con cui sono venuti al mondo, le stesse spoglie ispirate a Dio e a Lui rassomiglianti. Gli uomini avrebbero dovuto essere il Suo specchio, ed ecco qui! Sesso, sesso, sesso. Tutto ruota intorno al sesso. E ai soldi, certo. Sai, il sesso fu esattamente la prima cosa che fecero Adamo ed Eva dopo aver mangiato il frutto proibito.” sorride, “Ma ad Eva non piacque!” sussurra e porta l’indice alle labbra per comunicarmi che è un segreto.
“Mi fanno schifo.”
“No, Archie, non è questo l’atteggiamento giusto.” mi rimprovera in tono bonario, “Da buon emissario di Sua Eccellenza, dovresti, al contrario, imparare a comprendere e accettare tutte le sfumature dell’animo umano, per poi manipolarle a tuo piacimento per spingere oltre il baratro tutti quegli insetti che rimangono intrappolati nella tua rete. O fare in modo che ci si buttino loro spontaneamente!” ride di nuovo.
Sembra spassarsela un sacco, per lui è un po’ come essere a teatro: tutto è uno spettacolo a cui assistere e da cui trarre godimento. Forse dovrei prendere esempio e provare a sciogliermi un po’ anch’io, non mi va di fare il guastafeste.
“Dio li crea con gli istinti… istinti da soddisfare… e poi li punisce perché tentano di soddisfarli.” aggiunge meditabondo, “Non trovi che sia sadico? Pure un po’ incoerente. Ha riempito e cosparso la Terra di stimoli, un vero e proprio paese della cuccagna, e pretende che le Sue creature resistano alla tentazione, che soffrano e si consumino nel desiderio e nell’angoscia di non poter appagare e saziare la loro eterna fame. Una vita trascorsa a servire Dio equivale ad un vita votata al totale sacrificio e alla perenne mancanza. Tuttavia, l’uomo non è fatto per il sacrificio. Se lo poni di fronte a una scelta, opterà sempre per quella a lui più comoda e congeniale. Per esempio, se tu imponessi a qualcuno di scegliere tra un grossa fetta di torta, magari la sua preferita, e un pezzo di pane stantio, cosa sceglierebbe, secondo te?” appoggia i gomiti sul tavolino scuro e si sporge verso di me con aria complice, “Noi demoni, invece, diamo loro ciò che vogliono, ciò che può renderli felici, qualsiasi cosa, proprio come una squisita fetta di torta. In cambio chiediamo una cosetta da niente, che riscuotiamo solo al momento della loro morte.”
“Ma la loro morte la provochiamo noi allo scadere del tempo del contratto… e l’anima non è una cosetta da niente: è tutto, è quello che più conta!”
“Sì, però è pur sempre morte, e agli uomini non interessa molto la sorte del loro spirito. Una volta all’altro mondo, i soldi, la carriera, la reputazione, il sesso non servono più, diventano ornamenti inutili. Godere finché si è vivi! Questo è il motto di tutta l’umanità!” esclama allargando le braccia e studiando la sala gremita di gente, “Non ne esiste uno immune al peccato, nemmeno i bambini. Superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia, per non parlare della vanità: ognuno di questi peccati è insito nella natura mortale ed è impossibile imbattersi in qualcuno che non ci sia cascato almeno una volta.”
“E Buddha?”
“Siddharta*… beh, lui era un principe prima di intraprendere la sua strada di rinuncia. Credi non se la sia goduta? Si è sposato ed ha avuto un figlio!”
Non mi arrendo: “E Gandhi?”
“È diventato famoso per la sua campagna di pace solo in età avanzata. Ma in passato, quando era piccolo?”
“Però deve esistere qualcuno privo di macchia!”
“Stai cercando un Messia?” domanda e scuote la testa, “Archie, vedo che non hai ancora gettato la spugna.”
“No, è che… non penso che tutta l’umanità sia da condannare. Esistono anche le persone buone… Maria Teresa di Calcutta, Martin Luther King, il Dalai Lama! Non si può fare di tutta l’erba un fascio.”
“Davvero?” inarca un sopracciglio e sogghigna dietro il bicchiere di vetro.
“Io…” conduco una mano alle labbra e prendo a mordicchiarmi nervosamente l’unghia del pollice, “se non ti avessi ordinato di uccidere mio padre…”
“Saresti stato innocente?” conclude al mio posto, poi sbuffa, “Ne sei veramente convinto? Ah, quanto sei ingenuo. No, agli occhi di Dio eri già sudicio come un barbone, fidati. Anche se non mi avessi evocato, anche se avessi continuato a sopportare la tortura, per te non ci sarebbe stata salvezza.”
Il mio corpo sussulta in uno spasmo improvviso e strabuzzo gli occhi, segretamente ferito.
“Perché?”
“Sebbene, ad un esame superficiale, tu non sia colpevole per il male che tuo padre riversava su di te, la tua anima era già macchiata dall’odio e dal rancore. Hai provato a suicidarti due volte, se non vado errato. E prima, quando non eri che un minuscolo infante, hai spesso desiderato che la tua famiglia morisse in modi atroci. Prova a negarlo.”
Non posso negarlo, in effetti. Quindi è stata questa la mia colpa? Senza saperlo, ero già destinato a bruciare all’Inferno?
“Avrei potuto redimermi?”
Samael ci riflette, poi sospira: “Se tu ti fossi pentito e avessi abbandonato la mondanità per ritirarti in un convento di frati, dedicando il resto dei tuoi giorni alla preghiera e alla rinuncia… forse sì. Chi può dirlo? Dio perdona criminali incalliti che si dolgono delle loro azioni sul letto di morte e condanna i virtuosi che peccano anche solo una volta… se questa si può definire ‘Giustizia divina’ non lo so.”
Adagio la fronte sulla superficie di plexiglas del tavolino e assaporo la freschezza del materiale, che dona un po’ di sollievo al mio mal di testa. Le tempie mi pulsano in maniera irritante e la musica non aiuta. Da un lato, mi sento come se un enorme peso fosse scomparso dalla mia anima, dall’altro non posso esimermi dal provare avvilimento e delusione.
“Scusa, Sam.”
“Sam?”
“Sì, è un diminutivo. E ‘Sam’ è un nome comune, non fa strano e puoi passare inosservato.”
“Sam sta per Samuel, io mi chiamo Samael.”
“La differenza è in una vocale, non farne un dramma.”
Le sue spalle vengono scosse da una risatina.
“Va bene, vada per Sam. Perché ti scusi?”
“Perché hai ragione: non mi sono ancora arreso all’evidenza. Quante conferme dovrò ancora esigere per convincermi del tutto? Cosa mi manca? Ormai conosco la verità, non dovrei pretendere nient’altro.”
“Archie, questa è la Caduta.”
Piego il collo e lo scruto dal basso curioso, sempre accasciato sul tavolino.
“Te l’ho detto che i primi tempi è dura e che devi quasi violentarti per sconfiggere la voglia di tornare nella Luce. La tua anima percepisce che le manca qualcosa, un pezzo fondamentale, e sa pure dove trovarlo, perciò si protende spasmodicamente verso di esso. Però è inutile affannarsi nella ricerca di qualcosa che si è perduto per sempre, è necessario stringere i denti e non voltarsi indietro. Noi lo chiamiamo ‘desiderio di fede’. Ogni angelo ha attraversato questa fase e pochissimi ne sono usciti vincitori. Su questo punto, gli uomini sono uguali agli Spiriti Celesti, perché Dio ha piantato in loro la medesima ‘matrice’, che li fa guardare a Lui come lo scopo ultimo dell’esistenza. Egli è stato il nostro punto di riferimento per molto tempo e all’improvviso ci venne negato di orbitarGli intorno, come tanti pianeti attratti dalla Sua forza di gravità. Eravamo allo sbando, disorientati, come tante falene a cui viene d’un tratto sottratta la calda e abbagliante luce della lampada.” tracanna il drink in un sorso e contrae i muscoli facciali in una smorfia assurda, tra lo schifato e l’esultante, “A distanza di… beh, di un po’, posso assicurarti che è stata la decisione più saggia che abbia mai preso! Sono contento di aver… strappato il cordone ombelicale, se capisci la metafora.”
“Sì, capisco, ma ancora mi riesce difficile, sinceramente.” 
“Imparerai.”
Rimango in silenzio e mi incanto a guardare il liquido rosa dentro il mio bicchiere, poi stringo la cannuccia tra pollice e indice e mi metto a giocare con i cubetti di ghiaccio.
Le luci psichedeliche mi danno fastidio. Voglio andare via. Mi annoio. Però non voglio imporre i miei capricci sul maestro, non vorrei sembrargli infantile.
“Vieni in pista con me, Archie.”
Mi pietrifico e il fiato mi si mozza in gola. 
“Che?! No, non so ballare e quel fetore mi fa venire la nausea…” lo imploro con voce lamentosa.
“Non è per divertirci, o meglio non solo. È addestramento sul campo.”
Assumo un’espressione scettica: “Non si può evitare? E cosa dovrei fare?”
“Vieni e te lo spiegherò.” mi sorride e mi offre la mano con un gesto elegante, come se stesse invitando una fanciulla a danzare un lento.
“Non siamo neanche vestiti in modo adeguato!” tento un’ultima resistenza, “Due uomini che ballano in giacca e cravatta darebbero nell’occhio.”
“No, saremo coperti da un incantesimo.” ammicca.
“Va bene, ho finito gli assi nella manica.” sospiro rassegnato.
Afferro la sua mano e lo seguo come un condannato che si dirige al patibolo. Devo avere un’aria da funerale in questo momento.
“Rilassati, tanto sei invisibile! Nessuno baderà alla tua goffaggine.”
“Ah. Ah. Ah.” rido senza allegria.
Mi porta proprio al centro esatto e subito mi coglie un giramento di testa, che quasi mi fa perdere l’equilibrio. Aguzzo la vista e noto numerosi fili di fumo nero che si innalzano dai corpi sudati intorno a noi e salgono in alto, fino a formare una cappa soffocante, persino un po’ opprimente, sul soffitto della discoteca. È come una foschia, una sottile e orripilante coltre di nebbia che mi fa frizzare gli occhi, mi formicola sulla pelle, si infila sotto la stoffa dei vestiti e mi penetra nelle narici. Mi copro la bocca e il naso con una mano e mi aggrappo a Samael, che mi cinge i fianchi e mi sorregge senza sforzo.
“Non ce la faccio… ti prego, non ce la faccio!” esclamo sull’orlo delle lacrime.
Mi solleva il mento e mi coinvolge in un bacio passionale, che mi distrae per qualche secondo.
“Lascialo entrare.” mi sussurra soavemente all’orecchio, cominciando ad ondeggiare piano, come se davvero stessimo danzando un lento, “Fonditi con esso, non opporti. Più lo respingerai, più sarà doloroso. Permetti al Male di mischiarsi con la tua essenza, prova a comprendere la sua natura. Consideralo come una specie di approccio sessuale: ti sta corteggiando, ti vuole e se tu vuoi sul serio camminarmi accanto, accetterai le sue avances e ti unirai a lui come un partner consenziente, senza ritrarti o rifiutarlo. Io sono qui, non c’è pericolo.”
Le sue parole suscitano in me sensazioni contrastanti, come al solito. Mi sento schiacciare. All’improvviso, realizzo il messaggio che Samael ha voluto inviarmi e lo squadro atterrito, forse per la prima volta. È come se mi avesse detto di accettare uno stupro. Il cuore accelera, una paura atavica mi travolge e il viso deformato dalla lussuria di mio padre sostituisce quello del demone. Mi divincolo, sono spaventato e rischio di vomitare ad ogni movimento brusco. 
Il fumo nero mi entra nei polmoni, facendomi tossire e provocandomi un potente conato. Il rumore è assordante, tanto che perdo l’orientamento e tutto inizia a girare come una giostra, mentre le gambe mi si fanno molli come gelatina e gli occhi prudono per il desiderio di piangere. Non sono in grado nemmeno di urlare, perché il fumo mi ostruisce la gola e gli attacchi di tosse non accennano a placarsi. Mi dimeno come un’anguilla, tiro calci e pugni alla cieca, ma non riesco a liberarmi dalla morsa delle mani del mio aguzzino, che mi violano in ogni anfratto. No, non sono le sue mani, sono quei tentacoli maledetti di Male puro. Le dita di mio padre sono ferme sui miei fianchi e stringono la presa come artigli, si incuneano nella mia carne e temo che vogliano lacerarmela. 
In un istante, la mia mente viene soggiogata da qualcosa, una presenza viva e pulsante che abbatte con violenza tutte le mie barriere. Vengo catapultato di nuovo nel passato e rivivo tutti gli stupri che ho subito, le percosse, l’agonia, il desiderio di morte; riassisto all’omicidio di mio cugino Terence da parte di Adam, avverto chiaramente l’epidermide dei polsi squarciarsi sotto la pressione del coltello e il sangue caldo e denso colare in copiosi rivoli sul pavimento di marmo del bagno; vedo il mio riflesso nello specchio e l’immagine magra ed emaciata di me da ragazzo si mescola ad una più recente. In seguito, la scena cambia per un attimo, trasportandomi nel bagno della suite parigina. Lo specchio è appannato e vorrei allungare un braccio per togliere la condensa. Poi il pavimento cede sotto di me e precipito.
 
Sono in piedi nell’ingresso di casa mia. Villa Blackwood è identica ai miei ricordi, ma è immersa nel silenzio e dalle finestre non filtra alcuna luce. Fuori è completamente buio, uno spesso velo nero, fitto e impenetrabile. L’atmosfera che aleggia tra quelle quattro mura è la stessa della notte in cui il signor Fires mi strappò alle grinfie del mio incubo: le lampade sono accese e gettano una luce fioca sull’ambiente, tutto sembra sospeso. Le mattonelle sotto i miei piedi scalzi sono gelide e arriccio le dita pervaso dai brividi. Mi accorgo di essere nudo e che il mio corpo è costellato di lividi e succhiotti. Le mie cosce sono bagnate e su di esse scivolano gocce di liquido perlaceo, che so essere sperma. I muscoli delle gambe lanciano costanti fitte di dolore, ma il mio cervello è pieno di ovatta e a malapena sento cosa accade intorno a me. 
Ad un tratto, sulla pelle appaiono dei graffi ed è come se qualcuno me li stesse infliggendo proprio adesso. Grido con tutta l’energia che mi è rimasta, cado a terra e striscio lontano, fino ad aderire con la schiena al muro, terrorizzato. Ansimo e cerco di incamerare ossigeno, ma una forza invisibile mi agguanta per le caviglie, mi trascina per qualche metro, mi divarica le gambe ed entra in me senza garbo. Piango, tento di scacciarlo, di ferirlo a suon di morsi e schiaffi, poi la voce di mio padre mi accarezza l’orecchio, paralizzandomi come un agnellino di fronte al lupo affamato.
“Stai buono, Archie. Non ti agitare e vedrai che andrà tutto bene.”
Sfioro qualcosa di freddo con la punta delle dita. Giro la testa e scorgo il baluginare di un coltello. Lo osservo per una manciata di secondi e scopro che è il medesimo che usai anni fa per tagliarmi le vene. So che è affilato, so che è d’argento, so che è un pezzo d’antiquariato prezioso, che fa parte di un servito altrettanto costoso. Rammento che lo rubai dal cassetto delle posate dopo pranzo, di nascosto dalle domestiche. Lo stringo fino a far sbiancare le nocche, imprimo le impronte sulla lama e un leggero taglio si apre sul mio palmo. 
Poi torno a fissare sopra di me e mi scontro con le iridi azzurre di mio padre, con i suoi gemiti strozzati dal piacere. Lo trafiggo nel bulbo oculare destro con una ferocia che non mi è mai appartenuta e lo infilzo fino al cervello. Affondo il coltello molte volte, impossibili da quantificare, e nessun centimetro di quelle membra grassocce e disgustose viene risparmiato. Il sangue schizza in tutte le direzioni, una cascata rossa infinita che va ad imbrattare il marmo e l’intonaco bianco della parete, compreso qualche quadro antico di incommensurabile valore. Lo faccio a pezzi, mi accanisco con furia sui filamenti di cartilagine che tengono attaccati i vari moncherini, lo eviro con un sorriso folle, gli stacco la testa dal collo e faccio scempio dei suoi organi, in maniera tale che nessuno possa risalire a lui. Gli schiaccio le dita, trito le unghie delle mani e dei piedi, gli strappo le orecchie, il naso e le labbra, lo mutilo più che posso, finché le forze non si esauriscono.
Allora allento la presa sull’arma del delitto e fisso assente lo spettacolo raccapricciante che si para davanti a me: è uguale a ciò che vidi quando il signor Fires lo ammazzò, gli scarabocchi e le forme di sangue disegnate su ogni superficie ne sono l’esatta riproduzione. Tuttavia, non è stato il signor Fires l’autore di questo massacro, sono stato io. Io ho ucciso mio padre. Anzi, non l’ho solo trucidato, ma ho anche infierito sul suo cadavere, e niente mi ha mai arrecato più gioia e appagamento. Ho sperimentato un’estasi incomparabile, un delirio che credo solo una droga come l’ecstasy o l’LSD possa regalare.
Studio il mio corpo martoriato e mi pare di aver fatto il bagno in una vasca di sangue: ne sono interamente ricoperto, da capo a piedi, e non solo con qualche schizzo. I miei capelli ne sono intrisi, sono proprio zuppi, tanto che potrei strizzarli come una spugna. Ma ciò che accentua il mio schifo è il pensiero che questo sangue è di mio padre, quell’infimo bastardo. Voglio lavarmelo via di dosso, voglio ripulirmi dalla sua sporcizia. Quel sangue non è solo su di me, ma anche dentro. È parte di me.
Dei bisbigli confusi mi riscuotono dal torpore e dall’immobilità. Alzo lo sguardo e mi scontro con un crocifisso, grande come quelli che si vedono in chiesa. Come ci sia finito in casa mia, non ne ho la minima idea. Gesù è raffigurato nella famosa posa sofferente, ma il dettaglio che mi ghiaccia è che sta piangendo lacrime rosse. In cima torreggia la scritta I.N.R.I e sopra la testa del Redentore c’è il disegno di una colomba in volo che emana raggi di luce. Alla base del crocifisso ci sono delle candele accese, la cui debole fiammella sfrigola a contatto con l’aria. A questo punto non so più cosa stia succedendo. Onestamente, neanche mi importa.
Scruto il volto del Figlio di Dio, ma non provo niente: né pena, né colpa, né odio, né amore, né paura, né serenità. Nulla. Quello è solo un banale pezzo di legno. Appena lo penso, gli occhi neri della scultura guizzano e si posano veloci su di me. Sussulto e arretro, ma scivolo sul pavimento a causa della pozza di sangue dietro di me. Quelle biglie nere mi sondano l’anima, mi sento più nudo di quanto già non sono. Mi sento colpevole, sudicio, immondo, una creatura che non è più degna di camminare sulla terra, un essere che dovrebbe solo marcire nelle profondità dell’Inferno in preda alle più atroci torture.
“Perché?” mormoro, “Non è colpa mia, è mio padre il cattivo! Perché devo pagare anch’io? Mi sono solo difeso!” esclamo frustrato.
L’omicidio va contro il volere di Dio. Uno dei comandamenti recita “Non uccidere”.
“Avrei dovuto continuare a subire senza ribellarmi?! Avrei dovuto continuare a soffrire e a gridare?! Perché? Perché anch’io? Mio padre è il mostro ripugnante, non io!”
Quando uccidi un malvagio, compaiono due fosse: una per la vittima e l’altra per l’assassino.
“Non è giusto! Io non c’entro! Mi stava facendo del male! Perché non mi hai aiutato? Dio mio, perché mi hai abbandonato?!” urlo con rabbia.
Mi prostro di fronte a Gesù Cristo, piango e singhiozzo disperato, ma presto i miei lamenti patetici si trasformano in una grassa risata. Sputo un grumo di sangue e saliva e sghignazzo divertito, ricambiando lo sguardo severo del Salvatore con uno saturo di scherno. Gratto le mattonelle di marmo in modo convulso, staccandomi le unghie dalle dita, ma non mi fermo. Tiepide gocce scarlatte colano sulla mia faccia e vanno a sommarsi a quelle che già mi colorano tutto il corpo: sono divenuto un demone rosso.
Scocco un’occhiata alla mia destra e lì dove dovrebbe esserci la porticina che conduce agli alloggi della servitù, di fianco alla grande scalinata centrale, vedo invece l’ingresso del bagno della suite parigina. Sulla traiettoria del mio sguardo c’è lo specchio, ma non è più appannato ed ora posso osservarmi senza ostacoli. Sembro un pazzo. Le iridi viola rifulgono come piccoli fuocherelli, ardono di pura follia, e il sangue che mi fa da seconda pelle rende la mia figura inquietante. Scoppio a ridere di gusto.
“Se stai cercando di farmi provare ribrezzo per la mia immagine, non ci riuscirai! Sono fiero dell’atto che ho compiuto! Ammazzerei quell’uomo di nuovo, ancora e ancora, e proverei la stessa, soverchiante ebbrezza, puoi starne certo.” sibilo con un ghigno derisorio e diabolico, poi gattono verso lo specchio, lasciando al mio passaggio una scia cremisi sul pavimento.
Tocco la superficie gelida e mi stupisco di quanto la sensazione sia reale. Poi esamino le mie spoglie mortali con cipiglio critico e infine, soddisfatto, do un bacio al mio riflesso, come Narciso.
Un attimo più tardi, un profilo conosciuto entra nella mia visuale, attraverso lo specchio.
“Archie, cos’hai fatto?”
“Adam…” boccheggio e mi ritrovo a desiderare di avere a portata di mano qualcosa per coprirmi, per nascondere i segni del mio peccato.
Mio fratello mi fissa sconcertato e impaurito e le lacrime non tardano a rigargli il volto di adolescente.
“Perché…?” soffia con voce incrinata, “Bastavo io, Archie. Ho sparato a Terence per salvarti e con quel gesto mi sono sporcato l’anima per sempre, ma tu… tu avevi una possibilità. Perché l’hai fatto?”
“I-io… io… Adam…” i singhiozzi spezzano la frase a metà, impedendomi di respirare regolarmente, “Adam!” protendo le braccia verso di lui, ma mio fratello indietreggia scuotendo il capo.
“Perché l’hai fatto?” mi domanda ancora.
“Sarei morto!”
“No, saresti sopravvissuto, invece. Tu sei forte, più forte di me, e papà non sarebbe campato per molto. Sai, aveva il cancro.”
È come se un macigno di dimensioni colossali mi investisse in pieno.
“Co-cosa?” balbetto incredulo e intontito.
“Dovevi solo aspettare e resistere, poi tutto sarebbe finito da sé. Archie, perché ti sei arreso?”
È lui ora ad allargare le braccia, un implicito incitamento a gettarvisi dentro. 
“Vieni con me, ti aiuterò. Vieni e troveremo insieme una soluzione per redimerti.”
“Il dolore era insopportabile… tu non capisci! Anche tu mi hai scopato, te lo ricordi?!” lo aggredisco, ma resto inginocchiato accanto allo specchio, “Anche tu hai provato piacere e hai spruzzato il tuo sperma nella mia carne! L’hai dimenticato?! Non me ne frega un cazzo della redenzione! È troppo tardi, ormai.”
“Papà mi costringeva, lo sai bene. Forse tu hai dimenticato quanto piangevo in quelle situazioni. Piangevo per te.”
Rido e mi alzo in piedi barcollando: “Certo, papà ti obbligava, ma tu hai goduto come un porco. Negalo, se hai il coraggio.”
Indico a destra. Una porta comparsa dal nulla si spalanca sulla mia camera, principale palcoscenico di quel teatrino di cattivo gusto, e lo spettacolo ributtante che lo assale lo fa irrigidire: mio padre è lì, accanto al letto, nudo ed eccitato, mentre osserva il suo intrattenimento quotidiano, cioè me, venire sodomizzato da mio fratello. Decido di prolungare quella tortura per metterlo di fronte alla realtà, privandolo di ogni via di fuga. Voglio che guardi attentamente. La violenza dura per un arco di tempo incalcolabile, finché l’Adam della visione non si svuota i testicoli nel mio ano con un gemito roco e compiaciuto.
La porta si chiude ed io torno a fronteggiarlo. Digrigno i denti, stringo i pugni e lo raggiungo. I miei capelli gocciolano, il sangue non cessa di sgorgare da una fonte ignota, ma adesso non so più se si tratta del mio o di quello di mio padre.
“Tu non sei migliore di me, Adam. Sei nauseante come lui. Ero solo un bambino!” grido accusandolo. 
Lo spintono e Adam inciampa, ma miracolosamente mantiene l’equilibrio.
“Ti ho salvato! Terence, a differenza di me, si divertiva a stuprarti. L’ho tolto di mezzo!”
“È vero, però hai risparmiato il re.” ringhio e avanzo, saturo d’ira e risentimento, “Avresti dovuto mirare a papà, non a quell’idiota di Terence. Dopo la tua drammatica uscita di scena, ne è passato di tempo prima che riuscissi a liberarmi di quel mostro. E tu dov’eri?” gli arrivo ad un palmo di naso e affondo nei suoi occhi azzurri, identici a quelli di Amos, “Adam, perché mi hai abbandonato?”
Il coltello riappare tra le mie dita, non so come, così lo stringo e lo affondo nello stomaco di mio fratello, dove apro uno squarcio. Si ripete il medesimo scenario di prima, solo che non mi sfogo contro Adam come ho fatto con mio padre. Adam mi voleva bene, lo so, e sono consapevole che ciò che mi ha fatto non l’ha fatto volontariamente. Lo pugnalo più volte sul busto, lo trafiggo all’inguine per rimembrargli la sua colpa, poi lo afferro per la cute, lo giro di schiena e gli poso la lama sulla gola.
“Ti amo, Adam, anche se l’omicidio di cui ti sei macchiato è stato inutile, purtroppo. Ti amo e continuerò a farlo, tuttavia ora devi morire e pagare per il dolore che mi hai inflitto, allo stesso modo di papà.” gli dico all’orecchio.
Ormai è in fin di vita e il cuore sta pompando molto lentamente. Pochi minuti, forse un paio, e scivolerà nel gelo della morte.
“Avrei voluto essere come te.” 
Gli piego la testa verso sinistra, intercetto le sue labbra e lo bacio con trasporto, assaporando il gusto del sangue sulla lingua. 
“Avrei voluto essere immune alla depravazione di papà, avrei voluto essere brutto, deforme, con un qualche disturbo mentale, qualsiasi cosa che potesse impedirgli di sfruttarmi. Ahimé, sono nato con questo corpo e sfortunatamente pure con una discreta intelligenza. Il mio aspetto ha contribuito a trasformarmi in una preda, ma non lo rinnegherò, perché non ho scelto io di venire al mondo così.”
Gli accarezzo gentilmente una guancia.
“È giunto il momento di cancellarti.” sollevo il coltello in aria, nella parodia dell’arcangelo Gabriele che sconfigge l’orda demoniaca, “Io ti uccido, Adam, figlio di Dio.” sibilo trionfante.
Calo l’arma e un arco scarlatto si disegna nell’aria, schizzando impetuoso dal taglio sulla gola di mio fratello. Mollo la presa sui suoi capelli, chiudo gli occhi e sospiro, sentendomi più leggero. Quando li riapro, al posto del cadavere di Adam c’è la statua di Gesù Cristo, o ciò che ne resta. Le schegge di legno sono volate dappertutto e frammenti del crocifisso sono sparsi caoticamente qua e là, come se fosse esploso.
“Archie.”
Samael?
Mi giro di scatto e mi imbatto nel mio maestro, nel mio angelo, che mi porge una mano dallo specchio in un esplicito invito ad avvicinarmi. Sorrido rassicurato, lascio cadere il coltello, che rimbalza sul marmo con un tintinnio metallico, e mi dirigo verso di lui senza esitare. Alle mie spalle, le candele si spengono una dopo l’altra, come vittime di una leggera raffica di vento, e l’illusione si sgretola e torna ad essere cenere vorticante.

Mi ridesto come se riemergessi da una prolungata apnea e annaspo alla ricerca d’aria. 
Sono ancora in discoteca, sulla pista da ballo, e sembra non essere trascorso più di un secondo. Una lacrima mi riga la guancia e Samael la raccoglie prontamente su un polpastrello.
“Ecco, l’ultima stilla di purezza…” la contempla come ipnotizzato, “Qui dentro è racchiusa la più intima essenza della tua anima, il baluardo finale del tuo candore.” se la porta alla bocca e la lava via con la lingua.
Serra le palpebre e trema, impossibile dire se di piacere o disgusto, ma il sorriso che mi rivolge subito dopo mi suggerisce che ha gradito. Le percussioni mi rimbombano nello sterno, ogni cellula del mio corpo vibra e la testa è leggera come una piuma. L’impressione di essere cambiato è ancora più forte e il fumo che sale in spirali verso il soffitto non è più un nemico, il serpente maligno che vuole avvilupparmi tra le sue spire. È parte di me, ora.
“Ah, dovresti vederti, Archie.” sospira il demone, “Sei uno splendore! Ne ero sicuro.” mi adula e mi fa voltare per riflettermi in uno degli specchi attaccati alle pareti del locale.
Ammiro la mia immagine e quasi non mi riconosco. Gli occhi color malva brillano come lava liquida, la pelle ha assunto un pallore spettrale e conturbante, è serica e priva di imperfezioni, mentre i capelli castani si sono liberati dalla consueta costrizione dell’elastico e si sono adagiati in soffici onde sulle mie spalle. Non sono più umano. È una certezza che striscia nella mia coscienza e mi pervade di un’euforia inaspettata.
“Che ne dici, ti troviamo un nome?”
“Eh?” chiedo perplesso.
“Ogni demone che si rispetti ha un nome importante, un nome che lo rappresenta, che fa tremare gli esseri inferiori di paura. ‘Archie’ non ti calza più a pennello, è troppo… non mi viene la parola giusta.”
Sì che la sa, ma vuole farla pronunciare a me.
“Umano.” scandisco.
“Precisamente! Ne ho pensato uno che potrebbe essere adatto, ma la scelta spetta a te.”
“Ti ascolto.”
“Alastor.”
“Alastor? Ha un significato?”
“Sì, vuol dire ‘vendicatore’. Sai, nella mitologia greca era lo spirito delle lotte famigliari. Egli è stato anche associato con i peccati che si tramandano dal padre al figlio.” mi scocca un sorrisino insinuante, “Nella mitologia romana, invece, ha incitato le persone a uccidere e a compiere altri peccati. Secondo la leggenda, era un mortale, in origine, poi è stato abbassato di grado a demone minore dopo che lui e suo fratello uccisero Eracle. Nella mitologia greca classica, Alastor era anche il soprannome di Zeus, in qualità di punitore delle malefatte e giudice universale. Non è un caso che la ‘figura alastoriana’ sia sovente associata al fulmine. Alastor è anche il nome di uno dei cavalli che trainano il carro di Ade. Beh, che te ne pare? Mi sembra azzeccato.”
“Wow… ma non è che il vero Alastor poi si offende?”
“Il vero Alastor? No, no, questo spirito non è mai esistito, è soltanto frutto di antiche superstizioni. Tranquillo, al momento non è usato da nessuno. Non ti avrei mai proposto un nome di uno spirito o un demone realmente esistenti, altrimenti si farebbe confusione.”
“Allora vada per Alastor.” annuisco e mi guardo allo specchio, “Io sono Alastor, emissario di Sua Eccellenza Oscura, e sono qui per riscuotere la tua anima!” recito e mi metto in posa tipo James Bond, fingendo di aver in mano una pistola.
Samael ridacchia, poi mi afferra per i fianchi e mi fa piroettare in mezzo alla pista, mentre gli altri ballerini, ignari della nostra presenza, continuano a strusciarsi e ad irradiare effluvi tossici.









*Siddharta: nome secolare del Buddha. 
  
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