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Autore: Yoana    16/08/2008    6 recensioni
Oneshot nata dalla fanfic "L'ALCHIMIA DI SANGUE" di Axia [pubblicazione autorizzata dall'autrice dell'opera originale]
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un piccolo presente per Denise.
Perchè a volte succedono cose molti interessanti nelle zone d'ombra tra un riflettore e l'altro.


[...]
Glory entrò senza badare ai malumori storici e consolidati da anni di maltrattamenti del Diurno Artie Haviland.
Con biondi capelli color grano e un taglio anonimo che non mitigava la sua avvenenza da mezzosangue, il giovane sedicenne sprizzava collera e frustrazione dalle sue iridi color topazio. Seduto di fronte a lui, che aveva urlato insulti alla sua vita infame e ai suoi genitori che l’avevano abbandonato, Aidan Howthorne leggeva la Gazzetta del Profeta.
In tutta Slytherin, Aidan, Glory e Rawdon Harshness erano gli unici a permettersi qualche dialogo col Diurno.
Aidan poi, aveva imparato in giovane età la bellezza nell’avere un amico mezzo vampiro.
- Qui c’è tutto.- disse Glory, piazzando nelle fauci assetate di Haviland il suo pacco.
- Sono anche in ritardo.- ringhiò il ragazzo, spalancando la bocca e mettendo in mostra la dentatura affilata – Che possano bruciare all’inferno quei due schifosi!- e corse a chiudersi nel suo bagno privato, facendo traballare la porta sui cardini dopo essersela sbattuta alle spalle.
Aidan non alzò gli occhi dal giornale quando, dieci secondi dopo, si sentì un’imprecazione spaziale e una sequela di oggetti scaraventati contro la parete al loro fianco. Si sentì anche uno specchio andare in frantumi.
- Sette anni di iella.- commentò pacatamente la Frost, rimasta sulla soglia.
- Oggi è ancora di buon umore.- commentò il giovane Howthorne.
- Bhè, il mio dovere l’ho fatto.- la Malfoy si strinse nelle spalle, pregando di uscire presto da quell’incubo – Controlla che beva la merenda, Aidan. Io ho dei compiti da finire. Ci vediamo.-
Uscita di nuovo in corridoio, la Veggente udì altri colpi contro la parete.
Il ragazzo era proprio arrabbiato.
- Assorbe troppi pensieri negativi.- le disse Rebecca.
- O troppo pochi liquidi.- replicò la bionda, trattenendo uno sbadiglio.
- Ma che diavolo gli piglia a quello?- urlò un ragazzo del quinto anno, mettendo il naso fuori dalla sua camera.

TRATTO DA L'ALCHIMIA DI SANGUE







Sangue.
Sangue nella bocca e nel cervello.
Artie si lasciò scivolare a terra, la schiena lungo la parete di fredda pietra. Accanto a lui un asciugamano pregiato, color petrolio, con le cifre dorate di Aidan Howthorne. Il solito disordinato casinista di Aidan, pensò, scalciandolo via con frustrazione. Perchè doveva sempre invadere il suo spazio?
Continuò a mordersi ferocemente la lingua e le guance, un tic nervoso che lo accompagnava da anni, da quando ne aveva memoria. Un gesto inutile, dannoso, autolesionista. Il sapore del proprio sangue era qualcosa fra il dolce e l'amaro, fra l'ambrosia e il fiele. Sangue impuro. Sangue infetto, sangue marcio.
Reclinando indietro la testa a più riprese cominciò a sbatterla contro la parete, a ritmo del battito furioso del cuore che non aveva in petto, ma in testa.
Ancora, ancora, ancora.
Lampi di luce e di dolore accolti con voluttà, qualsiasi cosa che lo distraesse dalla sete di sangue che oramai da tempo l'attanagliava.
Aveva fallito ancora, nuovamente.
Non era servito a nulla mordere il cuscino notte dopo notte, costringersi a dormire ogni momento possibile della giornata per non consumare energie, per non pensare, a nulla era servito violentare sè stesso e il suo essere ogni fottuto giorno, ogni fottuta ora, ogni fottuto minuto, ogni fottuto secondo per resistere.
Alla fine aveva ceduto, ancora, e aveva implorato per avere del nutrimento.
E aveva sofferto durante l'attesa, ogni nervo fittizio del suo corpo fittizio teso nel rimembrare il liquido che avrebbe fatto scorrere giù per la gola.
Si guardò le mani, tremavano.
Le unghie rosicchiate sino all'inverosimile, una certosina opera che ripeteva ogni giorno per contrastare la sua sovrumana capacità di recupero.
Un'altra delle sue innumerevoli e vane lotte contro quello che era.
come quando, preso dai suoi raptus, rubava il rasoio di Aidan e si tagliava i capelli a ciocche disordinate per sfregiare in qualche modo la sua bellezza irreale.
Come quando, fin da piccolo, si costringeva a restare seduto storto, quasi gobbo, per evitare di attirare l'attenzione su di sè. Per proteggersi dalle lodi e dai pizzicotti delle matrone che lo vezzeggiavano.
Come quando dava il peggio si sè, ogni qual volta ce ne fosse l'occasione, rendendosi odioso e odiato da tutti tranne che per quei due pazzi che ancora si ostinavano a stargli vicino.
Sentiva freddo, e caldo. Ma non poteva realmente sentirli. Aveva saccheggiato anni prima la biblioteca di Hogwarts, dapprima le sezioni aperte agli studenti, poi, dal terzo anno in poi, anche quelle proibite. Si era fatto una vera e propria cultura su ciò che era e su ciò che fingeva di essere. Non aveva veri e propri organi interni, non aveva polmoni, non aveva un cuore. Probabilmente non aveva neanche un cervello. Era solo una gigantesca spugna assetata di sangue di forma umanoide.
Quando aveva nove anni era stato portato al San Mungo per una emergenza. La sua tata l'aveva trovato nella sua camera, intento a cercare di impiccarsi.
Aveva trafugato per l'occorrenza una delle vecchie sciarpe di seta della madre, la cara mamma che non aveva mai visto. Dopo averlo partorito si era ben guardata dall'avere a che fare ancora con quel obrobrio, aveva seguito il suo nuovo amante immortale probabilmente inconscia di essere solo un balocco come un altro per lui e il tutto si era risolto con un civilissimo e discreto divorzio, come si confà ai ceti alti. Tutte le sue cose erano state spostate in soffitta, lontano da occhi indiscreti, ma lui era molto bravo ad insinuarsi nei posti più oscuri e sporchi. Una dote innata, gli ripeteva sempre il padre, sarcastico.
E così aveva trovato tutti i vestiti di sua madre, opere d'arte in chiffon e seta, ancora pregne di un odore che sapeva di non aver mai sentito, eppure gli pareva di ricordarlo.
Era stata una settimana molto dura quella, forse la più dura mai vissuta fino ad allora.
Aveva udito spettegolare la servitù e tutto il peso del suo passato, del suo presente e del suo eterno dannato futuro gli erano piombati sulle spalle. Da quando ne aveva memoria aveva cercato di ignorare ogni accenno, ogni prova più o meno evidente. Si era addirittura inventato una balla assurda sull'essere afflitto da una strana maledizione che lo portava a potersi alimentare solo di succo di pomodoro.
Ma nella sua innocenza non aveva calcolato l'immortalità. Ed era rimasto così, penzolante come un pupazzo malconcio, il petto che bruciava e la testa finalmente leggera. Fino a quando, purtroppo, la domestica entrò e lo tirò giù.
Urla, grida, strepiti, accuse di voler rovinare, ancora una volta, il buon nome della famiglia.
E i medici sopra di lui, la luce mite e benevola degli incantesimi di guarigione.
E la sorpresa dei medimaghi nel constatare che il suo corpo guariva velocemente, troppo.
E le scuse abbozzate del padre che cercava di nascondere il segreto di famiglia, la vergogna nella sua voce per l'ennesima dimostrazione di cosa era suo figlio.
E poi il sollievo quando una infermiera caritatevole gli fece bere del sangue. Non lo guardava come l'avevano sempre guardato tutti quelli che sapevano. I suoi occhi erano gentili, e umidi. Come se stesse piangendo. Per lui. E la sua voce che sussurrava dolcemente, come la voce che si era sempre immaginato sua madre avesse.
Artie, ora è tutto passato.
Artie, avanti. Bevi, ti sentirai meglio.
Artie.

"Artie, che cazzo combini ora?"
Aidan si sovrappose all'infermiera senza nome.
"Artie, se non apri butto giù la porta. E stavolta giuro che non mi prendo la colpa con Piton per vandalismo. Ci finisci tu in punizione!" Calci da dietro il pesante legno intarsiato, tutto a Serpeverde era barocco, decadente e sapeva di umido. Rassegnato, consapevole che Aidan avrebbe potuto davvero attuare la sua minaccia, si costrinse a scivolare di lato e allungò il braccio quel tanto che bastava a sbloccare la maniglia.
Non fece accenno ne di volersi alzare ne tanto meno ricomporre, lontani i tempi in cui nascondeva a tutti i suoi attacchi. Oramai Howthorne ne era diventato protagonista, non spettatore. Innumerevoli volte gli era stato accanto, aveva cercato di sistemargli i capelli, o lo scalpo come lo chiamava lui, dopo il martirio del rasoio, aveva passato notti intere a ripulire la sua camera e il suo bagno dai cocci, dai vetri infranti, dalla bile vomitata per i crampi della fame o per quelli del rimorso.
Il piccolo Howthorne, che poi tanto piccolo più non era, rimase sull'uscio e si prese tutto il tempo del mondo per sigillare con un incantesimo la porta di ingresso della loro camera.
"Cos'è, paura che ti faccia vergognare?" ridacchiò isterico, e solo allora si rese conto di non aver mai smesso di mordersi la lingua. Sputò ben poco elegantemente un grumo di saliva e sangue a terra, proprio vicino all'asciugamano del compagno.
"Fottiti." Fu l'unica risposta che ebbe. Un fottiti carico di una infinità di sentimenti. Rabbia, dolore, compassione, pietà. Aidan si inginocchiò davanti all'amico e con gesti veloci, competenti, cominciò il loro solito rito.
Gli controllò i polsi, assicurandosi che non ci fossero tagli, poi il costato e le gambe, memore di quando prese il muro a calci così tante volte da mettere a dura prova la sua rigenerazione. Staccò gli occhi dal suo corpo solo per un breve istante, quel che bastava ad assicurarsi che i rasoi fossero ancora al loro posto, accanto al lavello di marmo pregiato e che lo specchio, fonte di potenziali e letali schegge, fosse integro. Era in frantumi.
Infine passò la mano dietro la nuca del diurno e scosse impercettibilmente la testa quando la ritirò tinta di cremisi.
"Apri la bocca, coglione". Gli intimò, cercando di costringerlo a forza ad eseguire l'ordine. Artie subì tutto passivamente, senza mai interrompere una risata soffocata, insana.
"Cavolo Howthorne, mi piace quando prendi l'iniziativa. Sei terribilmente sexy."
"Mordimi e ti ficco un paletto nel cuore." Aidan gli ficcò a forza le dita in bocca non mostrando reazione alcuna ai denti terribilmente aguzzi. Con perizia controllò l'entità delle ferite, per poi pulirsi rabbiosamente le dita sull'asciugamano.
"Nel cuore magari no, ma forse-" L'ennesima battuta sconcia di Haviland fu bloccata sul nascere dallo scatto d'ira di Aidan. Il ragazzo tirò un poderoso pugno contro il muro, a pochi centimetri dalla testa del diurno.
"Sono stufo! Stufo, lo capisci?" Urlò a squarciagola, fregandosene di non aver insonorizzato l'ambiente. "Ogni anno è peggio! Non so neanche se odio più i tuoi periodi di digiuno forzato o le crisi isteriche che ti fai venire quando la fame si fa troppo forte! Non sappiamo più come coprirti, Rawdon ed io stiamo facendo i salti mortali per non farti finire ogni due per tre in infermeria e sai benissimo che hanno ordine di segnalare al San Mungo tutti i tuoi attacchi! Tuo padre non aspetta altro che qualche prova in più per rinchiuderti in qualche ospedale psichiatrico e gettare via la chiave! Che cazzo hai in testa, eh? Che cazzo hai in testa?"
Per tutta la sfuriata Haviland restò in silenzio, mugolando qualcosa che sembrava essere una nenia ossessiva quanto inconcludente. L'unico segno dell'aver percepito il tutto fu l'abbassarsi dello sguardo che si piantò sulle sue mani tremanti.
"La Malfoy se ne è andata?" Chiese infine in un sussurro.
"Sì. Sarà ancora in corridoio a spettegolare con le oche sul tuo brutto carattere, come al solito." Anche Aidan rispose in un sussurro, spossato dalla tensione degli ultimi giorni nell'attesa della consegna del sangue e della conseguente tipica crisi, dallo spasmodico impegno nel mostrarsi normale,totalmente disinteressato agli schizzi isterici dell'amico nel tentativo di farli passare solo per occasionali sbotti, dal terrore provato durante l'attesa che Glory si levasse dai piedi, la mente affollata da tutte le cretinate che il diurno avrebbe potuto combinare in pochi minuti da solo. Si lasciò lentamente cadere accanto a lui, spalla contro spalla, chiudendo gli occhi.
"Dov'è Rawdon?"
"Dove vuoi che sia? Stamattina quando abbiamo saputo della consegna gli ho lanciato uno schiantesimo per mandarlo in infermeria a fare il palo in caso qualche ficcanaso chiamasse la Chips. Mi devi un'altra punizione, amico."
Artie si ingobbì ancora di più poggiando la fronte contro le ginocchia rialzate. Senza neanche accorgersene Howthorne nè copiò perfettamente la posizione. Per qualche minuto entrambi restarono in silenzio, un silenzio che sembrava assordante.
"Quanto?"
"Almeno per tre mesi, se eviti di buttarne via metà nel cesso come fai di solito."
"Mi fa schifo."
"Lo so."
"E' sangue."
"Lo so."
"Ho fame."
"Lo so."
Questa volta fu Aidan ad iniziare a battere ritmicamente la testa contro il muro dietro di loro. Si passò la mano ancora sporca di sangue sugli occhi, incurante di sporcarsi. Scosse il capo più volte a rischiararsi le idee.
"Tu mi farai crepare giovane e quando apparirò a mio fratello come fantasma mi prenderà a calci in culo per l'eternità." Sentenziò, facendo per alzarsi.
La mano di Artie, innaturalmente veloce, si strinse sul suo braccio, fermandolo.
"Aspetta..."
"No." Fu la secca ed immediata risposta.
"Ti prego, ne ho bisogno.."
"No."
Il diurno trattenne un singulto soffocato.
"E' il primo sorso da maggio scorso. Non ce la faccio a berlo dal bicchiere, mi fa ribrezzo.." sempre più flebile, ma tuttavia incalzante. Come una goccia d'acqua che secondo dopo secondo, secolo dopo secolo, erode la roccia.
Aidan rimase in silenzio, combattuto tra quello che sapeva essere saggio e quello che sapeva avrebbe dato un minimo di sollievo al disperato che gli stava accanto. Un disperato a cui voleva un bene dell'anima. Mosse lentamente il braccio per liberarlo dalla presa del mezzo vampiro e ancora più lentamente si rialzò la manica della camicia con una meticolosità quasi esasperante.
Gli porse il polso.
"Niente collo stavolta. I dolcevita sono terribilmente out quest'anno."
Nessuno disse più nulla per molto tempo, a rompere il silenzio solo i loro respiri affrettati.
  
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