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Autore: rebxus    19/06/2014    1 recensioni
"Poi avevo deciso che se i miei genitori avevano abbandonato la città su un treno, io li avrei visti tornare su un treno.
Così avevo passato la mia adolescenza in una stazione di vecchi treni a vapore rumorosi, treni che non andavano a dormire e non ti permettevano a tua volta di farlo.
La vita a quattordici anni mi prese per mano e mi promise che sarei cresciuto di bistecche bruciate, avanzi e libri di Bukowsky; riviste di pesca e saghe di Harry Potter.
Ed io mi fidai di lei."
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fuori pioveva ed Helver nelle giornate di pioggia era triste.
Lo era sempre, non solo quel giorno.
A volte gli capitava di svegliarsi di buon umore e di diventare triste, solo perché fuori pioveva.
 
Fuori pioveva ed Helver era triste.
Sebbene non amasse definirsi così, la verità era che lui era triste.
Quando fuori pioveva, Helver si chiedeva perché tutti lo chiamassero Asshim.
Era un nome senza un significato preciso, ma tutti dicevano che per loro significasse silenzio, tranquillità: era così che lo vedevano.
Helver viveva in una comunità rom, e tutti in quella comunità lo chiamavano Asshim.
 
Quel giorno pioveva più forte degli altri giorni, e faceva freddo, più di quanto aveva fatto freddo tutto l’anno. Cefka e Yadranka passavano di fianco a lui, lo indicavano e ridacchiavano, ed Helver era sempre più triste: Yadranka era la più carina del campo e suo padre aveva deciso che l’avrebbe sposata.
La verità era che Helver si chiedeva anche perché facesse parte di quel campo; lui voleva diventare Oscar Wilde del ventunesimo secolo. Prendeva in mano un libro e si immergeva nella lettura, ovunque fosse.
 
Spesso capitava che Helver fosse triste, ma non perché pioveva: la polizia faceva irruzione spesso nel loro campo, quasi ogni giorno. Tutti vedevano il campo come qualcosa di negativo, persino lui.
Lui doveva diventare Oscar Wilde.
 
Quel giorno fuori c’era il sole, e di conseguenza Helver era felice.
Aveva sentito le sirene della polizia avvicinarsi al campo mentre lui si allontanava sempre di più, finché, passo dopo passo, ritrovò così lontano da non vedere neanche il fumo della legna che bruciava nel campo.
Helver era felice, e lo era sempre di più, man mano che si avvicinava alla stazione, anche se stava iniziando a piovere.
Ricorda che quando varcò la soglia della stazione sentì profumo di cambiamento: lui sarebbe diventato Oscar Wilde.
Le porte del treno si aprirono e lui salì: senza biglietto, né bagagli, né meta.
 
Fuori pioveva ed Helver in quella giornata di pioggia era finalmente felice.
 
 
 
Lo scrissi in corsivo su un foglio di giornale tinta unita che pubblicizzava una tinta bionda - la preferita di nonna - e una mancanza mi assalì.
Mi sembrò di sentire un respiro sempre più vicino al mio orecchio e un battito estraneo al mio sulla schiena.
«Il finale è vago, ma Helver diventa o no Oscar Wilde?» una vocina sibilante mi bucò un orecchio e sussultai dallo spavento. Il suo aspetto mi fece sobbalzare una seconda volta e lui sembrò dispiaciuto: una giacca da sera accompagnava una camicia bianca e pulita, i suoi capelli erano puliti e spostati da un lato da qualcosa che li faceva sembrare unti e appiccicosi. Portava un farfallino al collo e una borsa di cuoio appoggiata sulla spalla, e per parlare con me si era dovuto abbassare alla mia altezza. Mi chiesi se non lo imbarazzava l’idea di sporcarsi il completo, ma mi ricordai in fretta del mio aspetto e capii la sua indifferenza: ricordavo vagamente un cerbiatto investito da un tir.
«Mi chiamo Aatos, piacere» con un completo disinteresse per il mio abbigliamento mi strinse la mano, continuando a fissare a scatti me e il foglio che stringevo in mano.
«Benjamin» risposi «e ho omesso volutamente di descrivere il finale, grazie per l’interessamento.» mi voltai verso le rotaie ignorando la sua espressione saccente e autorevole.
«Mi piace come scrivi» sorrise e per un attimo lo trovai adorabile «vorrei essere tuo amico.»
A quel punto credo di aver fatto una strana espressione a metà tra il disgusto e la compassione, perché lui scoppiò in una sonora risata contagiosa. «Tu…» lo indicai e risi ancora più, credendolo uno scherzo «Vuoi essere amico di un clochard?» domandai asciugandomi le lacrime.
Lui sembrò perplesso, ma non rifletteva – anche se appoggiò una mano al mento e fece un gesto come per grattarselo – capii che non aveva intenzione di compiere nessuno sforzo mentale per me.
«Credo che tu non abbia capito, Benjamin»
«Cosa non avrei capito, Aatos?» aggiunsi il suo nome a fine frase come per imitarlo e prenderlo in giro, ma non parve accorgersene e la sua continua indifferenza mi irritò.
«Cosa pensi che io stia facendo qui?»
Pensai di rispondergli ironicamente come “Non lo so, avrai sbagliato strada per il centro estetico” ma non lo feci, un po’ per paura di ferire i suoi sentimenti, un po’ perché avevo il terrore che riuscisse ad umiliarmi con una risposta sarcastica «Non ne ho idea» mi limitai a dire.
Dai suoi occhi lo capii e preferii non sentirglielo dire, ma gli feci spazio sulla coperta affianco a me e stetti in silenzio.
«Grazie» sussurrò.
«Figurati, amico.»
   
 
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