Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: Francine    20/06/2014    5 recensioni
Saori aspetta. Perché sa che oramai è questione di tempo. Oramai ci siamo. La Guerra Sacra di questo secolo è al culmine, e lei può solo attendere. Attendere che il suo fato si compia. Forse, una volta per tutte.
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cancer DeathMask, Gemini Saga, Saori Kido, Sasha, Virgo Shaka
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Shaka/Mu

 
tutti qui, tutti qui 
i miei anni alle porte 
sulle scale di un pianoforte 



 

«Hai capito, Mu?»
Per una volta, vorrebbe rispondere di no. Proprio lui, l’allievo prediletto, l’allievo cresciuto – plasmato – ad immagine e somiglianza del maestro. Quello sempre attento, quello che non s’è mai perso ad ascoltare il canto delle cince o a sognare sulla forma delle nuvole, quello sempre lesto ad ubbidire, ad assecondare, ad anticipare il proprio maestro. Maestro cui, per una volta, una sola nella sua vita, vorrebbe rispondere: «No.».
Perché Mu non ha capito. Mu non può capire. Mu sta ancora chiedendosi come sia possibile che il suo maestro sia lì, davanti a lui. Vivo. O in una qualche forma che assomiglia paurosamente e pericolosamente alla vita. Un ginocchio ha ceduto ed è sceso a terra. È Sion, si dice. È il tuo Maestro. Quello che Saga trucidò all’Altura delle Stelle. Quando tutto iniziò. In una Notte di Sangue.

So chi è. Non so perché sia vivo. Dopo tutti questi anni…

Sion sembra aspettare una sua risposta. Mu ha imparato in fretta a distinguere i silenzi. Ed è nei silenzi di Sion che lui percepisce la domanda che non gli ha mai posto. Mai. Nemmeno quand’era un marmocchio sperduto in un posto distante miglia e miglia da casa.
«Allora, Mu?»
Questa gli sta chiedendo lo sguardo sereno di Sion. Fronteggiando Doko. Giovane. Forte. Battagliero. Libero dal Misopethamenos.
E Mu sfiora, per un attimo soltanto, quanto sappiano essere terribili le benedizioni divine.
E Mu, per abitudine, per vergogna, o per orgoglio, annuisce. Anche se non ha capito, non ha compreso quello che il Sommo Sion voglia da lui.
Vuole che fermi Saga?
Vuole che si unisca a loro?
Vuole che avvisi Athena?
Mu non chiede. Non è nella sua natura porre domande al prossimo. È nella sua natura porle a sé stesso. E trovare la risposta dentro di sé. Questo Sion lo sa. Lo sa molto bene. Troppo bene.
E Mu annuisce. Un cenno lento, profondo. Bugiardo. Che comunichi a Sion che sì, ha capito cosa il Maestro si attende che l’allievo faccia. Anche se l’allievo brancola nel dubbio. Ma c’è un indizio, a voler ben vedere. Due, anzi. Una scalinata, alle sue spalle. Quella che conduce alla Prima Casa. E la Meridiana è accesa. Questo può voler dire solo una cosa. Raggiungere Athena alla Tredicesima. Per salvarla da Saga. O forse anche no.
Mu si volta e inizia a correre. La strada è lunga. E lui sa che troverà la risposta al suo quesito strada facendo, gradino dopo gradino. Pregando che non sia quella sbagliata.

 
La palla sale alta nel cielo.
Rotola, rotola, rotola, mostrando spicchi di colore diverso, azzurro e arancio. La palla è di cenci, di scampoli avanzati cuciti assieme dalle donne del Santuario. «Si chiamano
Attendenti», gli ha detto Sion. Per chiarezza. Per amore di precisione. E perché Mu non chiamasse di nuovo Filotea, «mamma». Per i bambini è facile confondersi. Confondersi e riconfigurarsi. Una madre, un padre, dei fratelli. Questo è una famiglia. E se una famiglia non ce l’hai, allora te la costruisci. Con quello che hai. Come fossero costruzioni di legno da assemblare assieme. Anche se manca qualche pezzo. Creando una casetta sghemba e traballante, ma che agli occhi del bambino è una reggia sontuosa. Una madre, un padre, dei fratelli, forse. Se ce li hai. Se ti avanzano. Se vuoi metterli nell’equazione. Come fossero balconi, abbaini o cancellate dipinte di verde.
Mu ha capito che Filotea non è sua madre. E che non potrà nemmeno
fare finta che lo sia. Neppure nella sua testa. Filotea è Filotea. Che gli prepara i vestiti puliti, gli serve i pasti, gli sistema il letto e lava le sue cose. E gli allunga una zolletta di zucchero. Di nascosto. Dietro la schiena. Quando il Sommo Sion non vede. Anche se Mu sa che il Sommo Sion sa. Ma che mantiene il segreto. Per una convenzione sociale. In questa famiglia scombinata il Sommo Sion potrebbe essere il nonno, forse. Ma questo, Mu, non ha il coraggio di metterlo nell’equazione scritta sulla lavagna del suo cuore. Perché il Sommo Sion che direbbe? Si dispiacerebbe? Ne sarebbe felice?
La palla sale alta, nel cielo.
Ma cadrà. E chi la raccoglierà dovrà rispondere alla domanda di Aiolos, prima di rilanciarla ad un altro compagno. E la domanda è: «Quali sono i nomi dei Tre Giudici Infernali?».
«Aiacos», risponde Shura, prima di lanciare la palla.
«Minos», aggiunge Mask. Regalandogli un sorriso. Un sorriso
malvagio. Mu sa che c’è il suo zampino dietro lo scherzo fatto ad Aldebaran. E sa che quella palla, lanciata proprio a lui, che il greco lo mastica poco, è una cattiveria. Gratuita. E per questo ancora più stupida.
Mu allunga la mani. La palla sta finendo tra lui e Shaka. Che è più lesto. Più armonioso. Le braccia di Mu si fermano, come per magia, vedendo quella pelle chiara. Lasciandole la precedenza. E la palla a spicchi arancioni e azzurri cade tra le dita sottili di Shaka. Che risponde: «Salamandra.».


 
Rhadamanthys della Viverna non assomiglia affatto ad una salamandra.
Rhadamanthys della Viverna è l’archetipo dell’avversario. Forte. Dotato di un cosmo mostruoso. Enorme. Immenso. Una montagna troppo alta da scalare. Montagna davanti la quale Mu si sente una formica. Talmente piccola che un sassetto, di quella montagna, potrebbe schiacciarla. E Rhadamanthys non si lascia certo pregare.
Al castello di Ade l’aria è pesante. Il Cosmo è pesante. Sembrano fatti di piombo, lui, Aiolia e Milo. Rhadamanthys, no. Rhadamanthys sembra fatto di vento. Un vento nero, caldo e ustionante. Come i vapori di un vulcano. Come il soffio di un drago. Li afferra, uno ad uno. E li sbatte via, come fastidiose zanzare. Basta un piccolo gesto del dito, come a muovere una biglia su una pista di sabbia. Ed è con un gesto naturale che Rhdamanthys raccoglie Milo. Come fosse un gattino bagnato. Lo raccoglie, issandolo per il collo. E guardandolo negli occhi.
Mu non sente cosa la Viverna stia dicendo allo Scorpione. Il suo cervello ha staccato ogni contatto uditivo. C’è solo il vento che urla nella sua mente. Nel suo sguardo, l’immagine di Milo sospeso nel vuoto. Come un gattino di cui liberarsi in maniera atroce. Soffocandolo. Affogandolo. O in entrambi i modi.
Lo sguardo di Rhadamanthys è seccato.
Si aspettava forse che fossero avversari più resistenti? Degni di lui? Mu vorrebbe spiegargli che è un miracolo essere sopravvissuti all’urlo di Athena. All’urlo di Athena che conteneva in sé il colpo di Saga dei Gemelli. Che è un miracolo il solo stare eretti, al castello di Ade. Perché la pressione è forte. Troppo, per loro. E vorrebbe chiedergli come diamine faccia lui, invece, a muoversi come se fosse fatto di carta.
Aiolia lo chiede al suo posto. Forse. Mu non ne è certo. La Viverna s’è voltata, scoccando al Leone un’occhiata velenosa. Assassina. Della Baccante davanti al capretto. Aiolia sarà il prossimo, questo promettono gli occhi di Rhadamanthys. Che prima si libererà dell’insetto. Poi del gattino. E quindi scannerà l’agnello. La Viverna mormora qualcosa, cosa Mu non lo comprende. Poi le sue mani si aprono, le dita si allentano e Milo cade. Giù. Nel buio. Sparisce davanti allo sguardo stravolto di Mu. Milo. Come se fosse immondizia che finisce nella pattumiera. In un angolo del suo cervello Mu si stupisce di non vedere Rhadamanthys  sbattere le mani tra loro, come quando si è finito un lavoro pesante e noioso. E lo si è finito per bene.
Perché non ha finito, si dice. Manca ancora Aiolia. Manco ancora io.
Rhadamanthys si avvicina, le nere ali della sua Surplice che risplendono. Cupe. Una luce nera. Un ossimoro impossibile. Ma Mu sa che la parola impossibile è cancellata e bandita da ogni dizionario, stanotte. E forse, per tutte le altre notti a seguire.

 
«La palla era destinata a me.»
Shaka si volta e il suo viso, con gli occhi chiusi, è più espressivo di quello degli altri compagni. Con Shaka devi saper vedere e sentire. Mu crede lo faccia per loro. Per aiutarli a cogliere le mille sfumature dell’esistenza. Dell’animo umano. Uno sguardo racconta più di mille parole, dicono. Con Shaka è vero il contrario. Mu sta imparando a leggere le curve che assumono le sue sopracciglia. Un arco appena percettibile, tanto che si chiede se non se lo sia sognato, è quello che vede dipingersi adesso, quando Shaka ha alzato il viso verso di lui.
«Ciliegie?», chiede.
Mu annuisce. Poi dice: «Sì.».
«Perché?», chiede Shaka.
Mu si stringe nelle spalle, poi si inginocchia. Posa il cesto di vimini accanto a Shaka. Hanno raccolto quei frutti nel primo pomeriggio. Aiolia ha scoperto Mask e Aphrodite ad arrampicarsi per cogliere le ciliegie dall'albero dietro il Kerameikos. E ha chiamato Milo. Che ha chiamato Camus. Che ha chiamato Mu. Che ha chiamato Aldebaran. Che ha chiamato Shura. Che per correttezza avrebbe voluto chiamare anche Shaka. Solo che non l’ha trovato.
«Perché mi andava.»
«Allora anch’io», dice Shaka. Cogliendo una ciliegia. Rossa. Invitante, come la gemella appesa allo stesso picciolo. «L’ho fatto perché mi andava.»
«Ti andava di farti deridere da Mask?»
«No», replica Shaka. Sputando il seme della ciliegia nella propria mano. «L’ho fatto perché andava fatto.»
«Non capisco», dice Mu. Incrociando le gambe. «A me non importa se Mask mi prende in giro. Davvero.»
«Questa è una bugia», replica ancora Shaka. I capelli d’oro gli scivolano sulla spalla, Sembrano quasi vivi.
«No che non lo è!»
«Sì», e in quella pacatezza Mu trova la propria sconfitta. La forza della verità. La certezza di essere nel giusto. Di aver visto più lontano di tutti, nonostante le sue palpebre siano sempre abbassate. «A te da
fastidio che Mask rida di te. Anche se non lo ammetterai mai. Nemmeno con te stesso.»
«E allora perché?», chiede Mu. Anche se la domanda che lui vorrebbe porgli è un’altra.
Come hai fatto a capirlo?
Shaka deve avere il dono della telepatia. O forse è lui che riesce a parlare nella testa del compagno. Perché la Vergine sorride – un sorriso bellissimo e radioso, di chi è in pace col mondo e con se stesso – e risponde:«Perché io leggo nell’animo delle persone. Grazie a questi occhi chiusi.».
«E… e non ti da fastidio che Mask rida di te?»
Shaka scuote la testa da sinistra a destra, i capelli che scivolano sullo sparato color zafferano della sua veste. «No. Perché lui non voleva ridere di me. Lui voleva ridere di
te
Mu lo osserva in silenzio, quasi meditando sulle parole che ha appena ascoltato.
«Non sempre le persone agiscono in maniera diretta. È vero il contrario. Le persone reagiscono e vivono dentro Maya. Dentro l’Illusione. E illudono loro stesse, illudendo gli altri. Come hai fatto tu.»
«Io?» Mu è sconcertato. Lui ha illuso se stesso?
E quando?
Shaka afferra un’altra coppia di ciliegie. «Tu», ribatte la Vergine. «In inglese esiste il verbo to pretend. Che significa far credere qualcosa a qualcuno. Partendo da una menzogna. Come fa l’attore quando sale sul palcoscenico, hai presente? Tu sai che lui non è il Re, il Principe o l’assassino, ma è un’altra persona. Eppure, quando recita lui fa finta. Ed è quello che fai tu. Tu act like you don’t care what he thinks about you. Ti comporti come se non ti interessasse quello che lui pensa di te. È quello che tu fai quando mostri a Mask che no, non ti importa che lui rida di te; vuoi farglielo credere, con l’intento di ingannarlo.»
«Io non…», ma la protesta di Mu gli si smorza nella gola. Perché è vero. Lui vuole che Mask creda alla sua bugia. Pietosa, senza dubbio. Per risparmiarsi lo scherno e le risate del compagno più grande. Il Sommo Sion gli ha spiegato che Mask lo stuzzica e lo provoca perché sa che lui ci resta male. Che ha terreno fertile per le sue provocazioni. Che non c’è gusto ad infastidire chi non ci dà corda. E secondo questa logica, la cosa migliore da fare è comportarsi come se le beffe del Cancro non scalfissero la seraficità dell’Ariete.
«Come ragionamento in sé non è sbagliato», ribatte Shaka, dopo aver ascoltato la spiegazione di Mu, mentre il cesto di ciliegie si va pericolosamente assottigliando.
«E allora
perché è sbagliato», chiede Mu. Perché non esistono scale di grigio, a questo mondo. Esistono il bianco ed il nero. O no?
«È sbagliato perché si basa su un
come. Che contiene in sé una bugia. Un millantare qualcosa che non esiste. Perché a te dà fastidio che lui ti provochi.»
«E allora come se ne esce?», chiede Mu. La pazienza lo sta abbandonando. Gli sembra di essere caduto in un labirinto, di quelli dalle siepi alte il doppio di una persona, con i corridoi tutti uguali. È entrato nel labirinto. Ed ha perso la spoletta del filo.
Shaka sorride. Paziente. Sereno. Come se si aspettasse quella domanda. «Rompendo il velo di Maya», risponde. «Un passo alla volta. Piano piano. Distruggendo le illusioni. Le illusioni sono attive fino a quando tu ci credi. Come i giochi di prestigio. Quando conosci il trucco, la magia è finita.»
«Quindi dovrei credere che…»
«No», lo interrompe Shaka, prima che lui si perda ancora di più nel labirinto. «Non devi credere nulla. Devi smettere di credere che non t’importi e fare sì che non t’importi
davvero
Mu storna lo sguardo dal compagno ed osserva il panorama davanti a sé senza vederlo. E medita sulle parole di Shaka, mentre questi continua a mangiare le ciliegie e a tenere da parte i semi. Mu sa che vuole piantarli nel Giardino di Sala, alle spalle della Casa della vergine, ma cancella questo pensiero, tornando a focalizzarsi sulle parole di Shaka. E a meditare. Solo. Accanto all’amico. Nel silenzio. Sul bianco e sul nero.
Il Sacerdote li troverà solo a sera, ancora lì a meditare, ognuno per i fatti propri, quando il sole sarà già declinato oltre i monti.


 
Che quella di Saga fosse una facciata l’ha capito quando Shaka ha sbarrato le porte del Giardino di Sala. Aveva avuto il sentore di essersi incamminato sulla strada giusta trovando quei tre Spectre cadaveri, spogliati delle loro corazze. Un colpo dato di taglio, come la lama di una spada. Un gelo mortale. Un’esplosione abbacinante. E quando Mu ha trovato le porte chiuse, no, non se l’è sentita di lasciar passare Aiolia. Perché Shaka aveva qualcosa in mente, di questo Mu ne era sicuro. Quel qualcosa che la Vergine ha scritto col suo sangue, sui petali dei fiori che ha affidato al vento.
Arayashiki.
L’Ottavo Senso. Il risveglio più profondo dell’anima. Superare la morte, sublimandola. Morire e non morire. Perché se entri nel regno di Ade da morto, diventi un suo suddito. E non puoi ribellarti al tuo signore. E loro no, non sono servi di Ade. Sono servi di Athena. Nei secoli dei secoli, amen. Questo il Sommo Sion voleva che lui ricordasse. Quelle chiacchierate con Shaka, all’ombra degli alberi gemelli, mangiando ciliegie sempre più buone. Voleva che ricordasse delle semplici, piccole verità. Che il Manashiki è solo uno stadio della coscienza. Che tutti gli uomini hanno in sé il seme del divino. Come i semi delle ciliegie che Shaka conservava nel pugno della sua mano.
«Shaka», mormora Aiolia, fermando il pungo della Vergine dal battere contro un enorme muro. Che sale su, fino a perdita d’occhio. Gli occhi verdi del Leone si allargano dallo stupore. Shaka li osserva, sperduto, confuso e felice che ci siano riusciti, a risvegliare l’Arayashiki. Che mentre scivolavano nella Bocca dell’Ade abbiano saputo espandere il proprio cosmo fino a raggiungere l’Ottavo Senso. In punto di morte. Per essere liberi. Di combattere per Athena. Fino alla fine. Anche nell’Aldilà.
«Shaka sei ancora vivo? È ancora vivo!», esclama il Leone rivolgendosi ai suoi compagni.
Mu annuisce. Non dice «Te l’avevo detto», perché non si addice a lui, quella battuta – anche se l’ha pensata, e Aiolia lo sa. Si addice più a Milo. Che infatti commenta: «Te l’aveva detto, no?», tirandosi fuori dalla questione. Come se lui non fosse sceso alla Sesta Casa ben deciso a trapassare da parte a parte Saga, Shura e Camus – soprattutto Camus, pensa Mu – per aver ucciso Shaka.
Shaka che è ancora vivo, pur se solo con lo spirito. Shaka che li accoglie con un sorriso, un sorriso preoccupato.
«Athena è andata con Ade. Oltre questo muro. Ed io non riesco a raggiungerla…»
«Da solo?», obietta Milo.
«Siamo in quattro, qui. Diamoci da fare», dice Mu. Prendendo il comando della spedizione.
Athena è dietro quel muro. Che li aspetta. Buttarlo giù non sarà semplice, ma neppure impossibile. Perché la parola impossibile è stata cancellata dai dizionari, in questa notte in cui i cieli urlano e la terra trema, le acque s’innalzano ed il fuoco divampa. Questa è una notte in cui tutto può succedere. Questa è una notte di miracoli. Questa è la notte di Athena.
 
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: Francine