Prompt: “BokutoAkaashi, di baci accidentali e dichiarazioni
impreviste”, richiesto da Oducchan @ summertimerec
Note: l’idea di base nasceva per
scrivere una fanfic a parte, ma poi sposava così bene
il prompt di Odu-mama che
mi sono detta “perché no?” (L)
Faccio presente all’inizio, in modo che la lettura non risulti troppo
macchinosa: l’anno scolastico giapponese inizia ad Aprile e finisce a Marzo. Le
vacanze estive vanno dall’ultima settimana di Luglio alla prima di Settembre,
più due pause più brevi in inverno (sotto Natale, grosso modo) e in primavera.
Gli otome game sono giochi – generalmente per un
pubblico femminile – dove si impersona la protagonista e si può scegliere tra
varie storie (route) a cui
corrisponde un personaggio maschile che si deve conquistare.
Il matsuri
è un termine che indica le feste tradizionali giapponesi, spesso con origini
cinesi.
Questa fanfic è “what if” per tante cose (non sappiamo come si siano conosciuti
questi due, se si conoscessero prima della scuola, etc),
quindi prendetelo come headcanon XD
Akaashi non ha idea di che
faccia stia facendo al momento, ma è sicuro che sia ben diversa dalla solita
imperturbabilità che caratterizza la sua espressione. Per quel che ricorda
poche cose lo hanno davvero lasciato basito nella sua breve e giovane vita, e
quelle poche sono sempre state archiviabili in breve tempo nella sua testa: non
più di una manciata di secondi spesa per rendersi conto dell’accaduto,
analizzarlo e capire che non era poi così eccezionale. O che poteva esserci di
peggio, comunque.
Bokuto Koutarou è un senpai molesto: Keiji lo ha subito etichettato come tale –
non che gli si possa dare torto – e, benché abbia imparato ad apprezzarlo come
compagno di squadra e nonostante abbiano un feeling
sul campo non indifferente, questo non offusca per nulla il suo giudizio.
Considera l’altro un bambinone, e come tutti quelli della sua “specie” finisce
con l’essere irragionevole, spontaneo e imprevedibile.
Akaashi ha fatto un solo errore di valutazione, se ne rende conto mentre
entrambi si guardano in maniera più o meno allucinata, come se gli avessero
svuotato addosso un secchio di acqua gelida in pieno inverno; scorge in Bokuto
qualcosa che somiglia al terrore, ma che non sa interpretare più di così,
perché capisce che il proprio sbaglio è stato uno e uno soltanto: credere che
alla stupidità ci fosse un limite.
Bokuto ha passato la maggior parte delle vacanze incollato a un otome game. Sì, uno di quei giochi per
ragazze dove la protagonista finisce sempre irrimediabilmente circondata da
ragazzi più o meno affascinanti, dalla storia generalmente anche abbastanza
complessa, tra i quali tutte finiscono con l’avere un preferito. O due. O
magari desiderano l’harem e basta.
Quando ha fatto una testa così al suo fidato compagno di classe nonché amico
delle medie, Koutarou si è premurato di spiegare tutto nei minimi dettagli; se
si considera che è il tipo di persona che non tralascia nulla e che parte
sempre “dall’inizio”, non è difficile immaginare quanto lungo sia stato il suo racconto.
Non ha potuto tralasciare, ovviamente, come sia venuto in possesso del gioco: i
suoi vicini hanno ospitato una nipote, una ragazzina che ha appena finito la
prima media e che ha impiegato sì e no mezza giornata per iniziare a chiamarlo
“Kou-nii” e introdurlo al fantastico, mirabolante
(assolutamente gay, se ci gioca un ragazzo) mondo degli otome.
Già quando Bokuto ha reso partecipe l’amico del titolo del gioco, quella povera
anima che lo stava ascoltando si è chiesto perché mai uno della loro età
dovrebbe sentirsi invogliato a giocare anziché a fuggire: che razza di titolo è
“Your lovely, naughty coach”, per l’amor di Dio?
«Ci sono quattro route tra cui
scegliere, ero indeciso ma poi… poi! L’ho visto, era lì, non puoi capire finché
non vedi. Sembra un’idiozia» ha sproloquiato in quell’occasione, e il suo amico
ha pensato che non è che lo sembrava, lo era «ma domani mi porto dietro la console e ti faccio vedere!»
Ovviamente quando questo è successo, Koutarou si è preso la briga di
raccontargli tutta la trama fino al punto in cui era arrivato con il gioco –
acquistato, neanche a dirlo, perché sarebbe stato ancora salvabile se ci avesse
giocato solo in presenza della nipote dei vicini. Uno avrebbe potuto pensare che
lo faceva per simpatia, per gentilezza e invece no, Bokuto se l’è comprato
perché fosse chiaro che gli piaceva proprio.
Così ha spiegato di come Mitsuru, il personaggio da lui scelto come prima (e
unica) route, sia inizialmente il
coach più esigente e che non è sicuro delle tue possibilità, e come poi invece
ti sproni quando la trama prende una piega un po’ depressa. Gli ha raccontato
dell’entusiasmo che si è ritrovato a provare lui stesso, di quando si è
immedesimato così tanto con la protagonista da essersi persino commosso, e del
brodo di giuggiole che nessun liceale renderebbe noto nemmeno ai suoi genitori,
perché l’amore incondizionato non può arrivare fin lì, deve pur averlo un
limite.
Si è anche offeso, Koutarou, quando l’amico si è rifiutato categoricamente di
sentirlo fare il fanboy
sulle scene romantiche; così, il povero Bokuto si è fermato, le ali
dell’entusiasmo brutalmente tarpate.
Per il momento.
«Ehi, Kou!» si sente chiamare e si volta, un compagno
di classe che gli dà una pacca sulla spalla e lo saluta con un sorriso; lui
ricambia con uno ampio e contento, ed è probabilmente uno dei pochi che ha così
tanta voglia di rimettere piede sul suolo scolastico. I suoi amici non ci
badano nemmeno più, sapendo che per Bokuto “scuola” significa più che altro
“palestra e attività del club”, cosa che almeno giustifica tutto
quell’entusiasmo.
Le domande di rito al ritorno dalle vacanze si susseguono più o meno nel solito
ordine che sembra quasi prestabilito – “dove sei stato”, “cosa hai fatto”, “hai
finito i compiti” – ed è incauto da parte loro, perché questo dà modo a Bokuto
di ripartire con i suoi racconti, forte del fatto che non ne ha ancora rifilati
a nessuno dei tre.
«Ho provato un gioco fighissimo e—» e nessuno dei
presenti viene a sapere cosa renda così interessante il gioco in questione
perché Koutarou si blocca sul posto e assume un’aria troppo ebete persino per i
suoi massimi standard, guardando davanti a sé come se avesse visto un fantasma.
A quel punto gli amici non possono che seguire il suo sguardo come meglio
possono, ma è chiaro che non vedono la stessa cosa: ciò che inquadrano i
compagni è uno studente, certamente una matricola tra le tante, che tiene in
mano un foglietto che squadra con apparente attenzione.
Ciò che Bokuto vede è qualcosa che lo porta a partire in quarta verso il povero
malcapitato, senza dare spiegazioni. Anche per questo gli ignari compagni non
fanno in tempo a fare nulla: né registrare cosa stia effettivamente accadendo,
né fermarlo prima che sia troppo tardi.
Così il ragazzo si porta fino alla matricola, che alza lo sguardo su di lui non
perché si senta osservato, ma per lo stesso motivo per cui tutti gli studenti nel raggio di quattro metri stanno fissando lo
studente: un pazzo che corre chiamando a gran voce «Mitsuru!» come se ne
andasse della sua stessa (inutile) vita.
Naturalmente, il poveretto non si chiama affatto Mitsuru e non è il personaggio
di un gioco.
Com’è prevedibile, ignora Bokuto e si gira dall’altra parte, continuando per la
sua strada come se niente fosse.
Quando, una settimana
dopo, Akaashi si ritrova a guardare Bokuto una volta entrato in palestra per il
suo primo giorno nel club di pallavolo, non può fare a meno di vacillare per un
istante.
Insieme ad altri due ragazzi, nessuno dei quali è della sua classe, si presenta
come è prassi che le matricole facciano: «Akaashi Keiji, gioco nel ruolo di
alzatore dalle scuole medie.» pronuncia con un piccolo inchino educato, non
potendo evitarsi di sbirciare Bokuto, di cui ignora l’identità. Forse teme di
vederlo sbracciarsi e chiamarlo di nuovo con un nome che non è il suo, non lo
sa bene nemmeno lui a dire il vero.
Non avviene niente di tutto ciò, ma a guardarlo Keiji ha la sensazione che
l’altro sia come un cane che freme per farti le feste, ma al quale è stato
vietato di saltarti addosso perché sei un ospite.
Lo ignora comunque per la maggior parte del tempo, unendosi alle altre
matricole e cominciando il riscaldamento, portando avanti gli esercizi man mano
che gli vengono spiegati dall’allenatore, fino a che non finisce sotto rete per
il giro di schiacciate.
È un esercizio assolutamente di routine
e che gioca a suo favore, perché è il modo migliore con cui un alzatore può
prendere confidenza con attaccanti con i quali non ha mai giocato prima; opta
per un palleggio standard e ne approfitta per osservare, Bokuto compreso,
quando è il suo turno.
Nota di lui che se sta zitto e si limita a fare lo sportivo non è tanto male, o
almeno non sembra un pazzo che prende d’assalto gente che non conosce e che
scambia per altri.
Fa il grave errore di credere che sia stato un caso isolato, per poi essere
smentito a fine allenamento quando il senpai decide di volergli assolutamente
parlare mentre lui vorrebbe abbandonarsi al pocari.
«Allora non ti chiami Mitsuru, eh?» esordisce in un modo tanto assurdo che
Akaashi riesce solo a guardarlo. Non è certo di come dovrebbe rispondere, visto
che dalla presentazione che ha fatto quasi due ore prima è abbastanza sicuro
che sia chiaro che non è quello il suo nome.
«Ah, io sono Bokuto Koutarou! E sono l’ace,
beh, lo sarò comunque entro la fine dell’anno, poco ma sicuro!» comunica con un
sorriso ampio; pur nella confusione del momento, Keiji ha modo di osservare che
almeno è un tipo che tiene su il morale e non si piange addosso.
«Volevo trovarti per scusarmi del primo giorno, ti ho anche cercato per le
classi» come lo ha cercato? «e ho
chiesto in giro provando a descriverti meglio che potevo» Keiji non è sicuro di
voler sapere in quanti lo chiameranno “Mitsuru” da qui alla fine del liceo «ma
alla fine sembra che non servisse, eh!»
«Non c’è bisogno che ti scusi. Mi hai sorpreso, ma ho capito che mi hai
scambiato per qualcun altro.» assicura, ed è convinto che possa tutto sommato
finire così.
Chiaramente non sa con chi ha a che fare.
«Sì, è che vi somigliate tantissimo! Anche troppo, dico davvero!» e Akaashi
sarebbe anche disposto a starlo a sentire ancora per un poco, non fosse altro
perché si tratta comunque di un senpai che sta conoscendo il suo primo giorno
nel club, ma non riesce a mantenere il silenzio quando nello sproloquio si
menziona un videogame e soprattutto
quando Bokuto inizia a parlare di “destino”.
«…Cosa?» domanda infatti, mentre sta camminando verso lo spogliatoio per
recuperare le sue cose, fare una doccia veloce e cambiarsi.
Bokuto gli rivolge l’ennesimo sorriso allegro, mentre gli ripete: «Se ti ho
incontrato proprio dopo aver passato quasi tutte le vacanze a giocare la route di Mitsuru, deve proprio essere
destino!»
Keiji non sa se lo preoccupi di più scoprire nel dettaglio di che gioco si
tratti, o il fatto che l’altro sembri credere sul serio a quanto sta dicendo.
Per Akaashi non è stato difficile
capire che Bokuto tutto sommato è una persona innocua, che va preso come un
bambino certe volte, ma che sul campo è uno di quegli atleti che ti motiva con
un solo cenno, uno di quelli che probabilmente vengono indicati come “leader
nati” da un certo momento della loro carriera in poi.
Koutarou gli ha reso tutto molto semplice, visto che da quando Keiji si è unito
alla squadra lui non ha smesso un attimo di stargli addosso: ha iniziato
durante il riscaldamento, per poi chiamarlo di continuo perché gli alzasse
qualche pallone ad allenamento finito, affiancandolo una volta usciti dallo
spogliatoio per fare un pezzo di strada insieme. Akaashi non ha mai capito se
fossero scuse o meno, ma non ci ha mai visto nulla di male se non il fatto che
il più grande è rumoroso; non è nulla di insopportabile però, quindi lo ha
lasciato fare.
Così sono passati fin troppo velocemente all’estate, con il caldo fastidioso
che rende la palestra qualcosa di anche troppo simile a un girone dell’Inferno,
l’aria che si secca tanto che sembra di non respirare nemmeno, gli allenamenti
in cui il pocari
sembra l’unica cosa per cui valga la pena vivere e penare finché la maglietta
non diventa una seconda pelle addosso.
Bokuto ha smesso di parlargli di allenatori giovanissimi che ti ammiccano in un
gioco presumibilmente per ragazze da quasi due mesi, e Keiji non potrebbe
esserne più felice. In compenso, l’altro si sente ancor più a suo agio in sua
presenza, o almeno così crede visto che sono aumentate le occasioni per un
contatto fisico – nulla di che o di prolungato, Akaashi ha solo notato la facilità
con cui l’altro gli dà una pacca sulla spalla, gli lascia qualche colpetto
affettuoso sulla testa, lo picchietta con l’indice sulla fronte quando secondo
lui Akaashi si acciglia troppo, perso a pensare a chissà quale strategia.
Keiji a volte ha la tentazione di dirgli che se lo risparmierebbe, visto che è
soltanto al primo anno e in teoria non è nemmeno un titolare, se non fosse che
Bokuto ha la capacità di sentirsi il padrone del mondo un istante prima e un
incapace che crede la palla sia quadrata l’attimo dopo.
Non glielo dice perché i contro sono molti, molti più dei pro.
Sobbalza appena quando si ritrova a pochi centimetri dal naso un ghiacciolo, e
gli basta alzare di poco lo sguardo per notare un Bokuto sorridente che glielo
porge; prende il bastoncino tra due dita e continua a guardarlo, cerca di
capire il senso ma non ce n’è uno particolare. Lascia perdere, perché entrare
nella testa di Bokuto ucciderebbe chiunque, di questo è sicuro anche dopo pochi
mesi di conoscenza.
«Non mi dici nemmeno grazie?»
«Grazie.»
«Ma così non conta, sembra che ti ho costretto io!» lo riprende, s’imbroncia,
poi ridacchia e comincia a camminare gustandosi il ghiacciolo. Keiji, mentre lo
affianca, si rende conto che non smette mai di stupirsi nel notare quanto
espressivo sia il viso dell’altro: forse anche quello lo rende il tipo di
atleta che va d’accordo con tutta la squadra e che è apprezzato dai pari ruolo –
non il fatto che sia mezzo lunatico, no, il fatto che riesca ad essere così
spontaneo e trasparente da non aver bisogno di celare le emozioni dietro
espressioni costruite ad arte.
Questo gli piace.
Luglio raggiunge la fine, e con essa arrivano le vacanze estive.
Akaashi le passa fra compiti, campo estivo con la squadra e ancora compiti, una
visita ai nonni fuori città e con il fedele ventilatore nella sua stanza. Non
ha nemmeno il tempo di far caso a quanto senza Bokuto l’ambiente che lo
circonda sia poco rumoroso, perché il campo estivo è proprio a metà – o quasi –
delle vacanze. I quaranta lunghi giorni che dovrebbe passare lontano dai suoi
compagni vengono dimezzati, e verso la fine della pausa estiva si organizzano
persino per un matsuri
nelle vicinanze, al quale Keiji non riesce ad andare proprio all’ultimo minuto.
Nonostante la sua squadra gli piaccia non reputa grave la propria assenza,
specie perché non può farci nulla; se ne pente quando all’una di notte gli
arriva un messaggio da Bokuto pieno di emoticon idiote e piagnucolii che gli
fanno sentire la voce nella sua testa come se l’altro fosse nella stanza.
Sorride e nemmeno se ne accorge – anche se gli scrive per ripicca che stava
dormendo e che lo ha svegliato, senza motivo visto che da lì a tre giorni si
vedranno nuovamente a scuola.
Settembre passa più in fretta del previsto, e l’unica cosa degna di nota è che
Bokuto si fa offrire (ossia chiede spudoratamente ad Akaashi di farlo) una
ciotola di ramen
di ritorno dalla trasferta di un’amichevole; motiva il tutto con un
melodrammatico: «Sei l’unico che si è dimenticato il mio compleanno!» con tanto
di sospiro teatrale.
Keiji non ha cuore di dire che non l’ha dimenticato, non l’ha proprio mai
saputo che il venti di quel mese era il suo compleanno. Ha questa visione di
Bokuto che gli si attacca addosso piagnucolando cose come “sono così poco importante per te che non hai nemmeno mai saputo quando
sono nato?” che non vuole assolutamente rendere realtà.
Ottobre porta con sé quello che un compagno di classe di Bokuto definisce, in
presenza di Akaashi, “il male incarnato sulla Terra”; lui è già pronto ad
aspettarsi un cataclisma quando scopre che il problema è l’uscita di un otome game, che di per sé non sarebbe nulla
di tragico e soprattutto non lo interesserebbe affatto, non fosse che rende
Koutarou scalpitante come se fosse improvvisamente la Vigilia e Babbo Natale
fosse in debito con lui di dieci anni e dovesse saldare tutto insieme.
Pochi giorni dopo, mentre Bokuto gli piazza sotto il naso una console sul cui schermo sta in bella
mostra il menù principale del gioco, con quattro tizi che lo fissano ammiccanti
e il titolo “Your lovely, naughty coach II”, Akaashi rimpiange di aver
sottovalutato la questione.
«Cos’è.»
«Il gioco dove c’è la tua copia con cinque anni di più, Akaashi!»
Ovviamente Keiji non ha la minima intenzione di guardare.
Come c’è da aspettarsi, a Bokuto la sua opinione non interessa.
Akaashi ha fatto un solo errore di valutazione, se ne rende conto mentre
entrambi si guardano in maniera più o meno allucinata, come se gli avessero
svuotato addosso un secchio di acqua gelida in pieno inverno; scorge in Bokuto
qualcosa che somiglia al terrore, ma che non sa interpretare più di così,
perché capisce che il proprio sbaglio è stato uno e uno soltanto: credere che
alla stupidità ci fosse un limite.
Il paragone con il secchio non è poi così sbagliato, visto che Febbraio è
appena iniziato e di certo non fa caldo.
Bokuto lo sta guardando come se nemmeno lui si capacitasse di quanto avvenuto;
Keiji sente ancora nelle orecchie il «Mi piaci!» che l’altro ha quasi urlato,
questo dopo averlo baciato a
tradimento per motivi che lui non comprende – e buon per loro che lì non c’è
nessuno, al momento, per una serie di fortunati eventi che Akaashi non ha la
forza di considerare.
Koutarou è una persona semplice e sincera, questo ormai lui lo sa meglio di
chiunque altro: è quasi un anno che sta con lui tutti i giorni, a volte anche
dopo gli allenamenti. Sa che Bokuto è il pilastro della squadra ma che ci sono
momenti in cui non si sente abbastanza nemmeno per essere il pilastro di se stesso.
Sa che non scherzerebbe mai su una cosa del genere, che non la direbbe senza
motivo – o meglio lo direbbe senza nemmeno rendersi conto che può essere
frainteso, e al massimo ci riderebbe su se questo avvenisse, ma non direbbe mai
“mi piaci” a qualcuno senza crederci davvero, non facendo quella faccia. Quella
consapevolezza spiazza Akaashi perché sì, aveva notato che era lui la matricola
con cui Bokuto passava più tempo, ma niente gli aveva mai fatto pensare che ci
fosse un trattamento speciale con un secondo fine.
Semplicemente perché non farebbe mai il torto di credere che Koutarou sia quel
tipo di persona. Ma questo rende l’affermazione del compagno ancora più forte,
ancora più destabilizzante, e Keiji si sforza di capire perché proprio lui,
perché non qualcun altro, perché non una
ragazza. Non ha preconcetti, è solo una questione di “logica”.
E di non sapere cosa dire e cosa fare. Non si tratta di opzione migliore come
quando deve decidere se servirlo in partita o se aprire il gioco dalla parte
opposta, no.
Sarebbe facile, se si trattasse solo di quello.
«Bokuto—» inizia anche se non ha deciso nella sua testa cosa dire, ma si rivela
inutile preoccuparsene perché Koutarou sembra uscire dal momento di panico che
lo ha bloccato sul posto e si avvicina con due, tre falcate al massimo; gli
poggia le mani sulle spalle e lo sente stringere immediatamente la presa, come
se solo in quel modo avesse la certezza di non vederlo girarsi e correre via.
Perché mai dovrebbe, questo pensa Keiji, ma non sa dire se è perché non
fuggirebbe mai da Bokuto, dalla situazione, o se è perché non prova fastidio
alle sue parole.
«Io…! Non intendevo, sì beh lo intendevo, voglio dire… quello che ho detto…!» è
così nel panico che Akaashi sente il principio di confusione e agitazione che
gli aveva stretto il petto abbandonarlo come acqua che scivola su una
superficie qualsiasi.
«Ero serio— sono serio! Serissimo!» vorrebbe dirgli che lo sente, che non serve
che strilli visto che gli sta a neanche mezzo metro, ma Bokuto – lui e la sua
idiozia, lui e il suo pessimo tempismo, lui e la spontaneità che gli impedisce
di tenersi stretti i sentimenti senza doverli per forza mostrare a chiunque – è
già in avanti, troppo vicino; lo sta baciando prima ancora che Keiji se ne
renda davvero conto.
C’è quell’istante di sorpresa in cui rimane perfettamente immobile che gli
serve per considerare come siano passati da un impacciato sfiorarsi di labbra,
che poco prima e contro ogni logica ha imbarazzato più Bokuto che non lui, a un
contatto ancora innocuo ma che sa di urgenza.
Non dura comunque molto più di prima: l’altro si scosta come se Akaashi gli
avesse mollato un pugno – c’è andato molto vicino, deve ammetterlo – e lo
guarda, ancora più nel panico.
«L’ho fatto di nuovo.» lo dice come se non se lo fosse aspettato.
Keiji aggrotta le sopracciglia e alza le mani, raggiunge il giacchetto della
divisa altrui e lo stringe; non si stupisce che l’altro sembri aspettarsi un
colpo da qualche parte, o magari una testata.
«Sei serio?» lo sente scivolare tra le proprie labbra anche se aveva in mente
tutt’altra domanda.
Bokuto lo fissa e non osa fiatare, annuisce con decisione ma niente di più.
«Io ti piaccio.»
Annuisce.
«In quel senso.»
Ancora un cenno affermativo.
«…Sono un maschio, lo sai?» se ne accerta perché con
Bokuto, davvero, non si può mai sapere. Lo vede arrossire, tanto, ma non si fa
impietosire. Lo guarda, l’altro fa lo stesso, e alla fine volta il viso di lato
e sbuffa, allena la presa sulle sue spalle ma non toglie le mani da lì.
Torna a guardarlo e Keiji è sicuro che quello sia un principio di broncio:
pazienza, si dice, al momento non ha testa di fare l’alzatore giudizioso che
calcola ogni minima reazione del proprio ace.
«Certo che lo so, che sei un maschio.» borbotta offeso – ah, pensa Akaashi, l’ha presa
come se gli stessi dando dello stupido.
«Non puoi piacermi comunque?» lo chiede con una tale disinvoltura che lui
allenta la presa sulla giacca senza rendersene conto, mentre lo vede avvicinare
di nuovo il viso fino a rendere quasi fastidioso il contatto visivo.
«Mi piaci.» mormora, e la punta del suo naso sfiora quella di Keiji «Mi piaci
tanto.» la fronte di Bokuto è contro la sua, ormai «Davvero. Mi piaci davvero,
Akaashi.» sorride. Lo fa prima di colmare ancora la distanza tra loro, lo fa
mentre lo bacia senza approfondire il contatto, lo fa quando si scosta e
ridacchia piano, imbarazzato ma così contento che lo capirebbe chiunque solo
guardandolo.
Akaashi sente il calore concentrarsi sul volto e sa di essere arrossito.
Ci sono tante cose che potrebbe dirgli, ma viso a parte sente il calore nel
petto, lo stomaco chiuso, e la fastidiosa sensazione di un sorriso che spinge
per incurvargli le labbra anche se lui non vorrebbe, perché è convinto che
sembrerebbe davvero stupido se ora si mettesse a sorridere lì con Bokuto.
Sa che non ha scampo e quindi inspira, alza un piede, e pesta quello del
compagno.
Koutarou si ritrae di scatto più per istinto che non per vero dolore, e lo
guarda indignato: «Ehi!»
«Non era comunque questo il luogo adatto a dirmelo.» gli fa presente, voltandosi
e iniziando a camminare, deciso a non voltarsi finché non sarà almeno fuori dal
cancello della scuola.