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Autore: lucabovo78    24/06/2014    1 recensioni
« La magia è dentro di noi, fa parte della nostra natura. Dobbiamo solo trovare il modo giusto per usarla. »
Se la magia fosse una cosa naturale come respirare, tutti sarebbero in grado di usarla. Invece, questo "privilegio" è affidato a pochi individui, dotati di grande potere e chiamati Stregoni.
Questa è la storia di un giovane stregone e del prezzo che dovrà pagare per questo potere.
« Non è bene sottovalutare le trame del destino, potrebbe rivoltarsi contro di noi. »
Copyright © 2013 Luca Bovo, tutti i diritti riservati
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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31. Deliah

 

«Maledizione Alomas! Non c’era un modo meno rumoroso? Ci saranno addosso tra un secondo!»

   Corgh e Jofiah, frastornati e coperti di polvere, uscirono dall’apertura nel muro della cella che era appena stata aperta dall’esplosione. L’elfo li stava già aspettando a cavallo, con il vecchio Moshi alla briglia e stranamente tranquillo nonostante gli avvenimenti. L’impassibilità del volto di Alomas faceva supporre che avesse già previsto tutto. Anche se, a pensarci bene, quella era la sua normale espressione, per cui l’oste non poteva esserne del tutto certo.

   «Cosa diavolo è successo?»

Jofiah tossiva e si sfregava gli occhi che lacrimavano.

   «Quando saremo al sicuro vi darò tutte le spiegazioni. Forza, salite in sella, amici miei, come ha detto a ragione Corghyan, non abbiamo molto tempo.»

   Jofiah salì su Moshi, mentre Corgh si accomodò dietro all’elfo. I due cavalli partirono di gran carriera in direzione della foresta.

   «Moshi…cos’è successo? Non correvi così da anni…» disse stupito Jofiah al vecchio cavallo, stringendo le redini.

Avevano percorso poche centinaia di metri quando il suono di un corno d’allarme risuonò nell’aria.

   «Eccoli, sbrighiamoci!»

Alomas spronò il cavallo che accelerò seguito da Moshi, sempre più rinvigorito, quasi non volesse sfigurare al fianco del possente purosangue. Mancava poco al limitare della foresta, dovevano però attraversare il cancello di uscita, che in quel momento era ancora spalancato. Le guardie del cancello sembravano sorprese, avevano sentito il corno e li stavano guardando, indecise sul da farsi. Non erano abituate a situazioni del genere. Improvvisamente, una di esse sembrò riscuotersi e spronò le altre a chiudere la via di fuga a quei cavalieri. Fortunatamente non era cosa semplice, il pesante cancello aveva bisogno di tempo per essere chiuso. Alle spalle dei fuggitivi, quattro guardie a cavallo erano partite all’inseguimento, spronate dal capitano Sheryan, rosso in volto dalla rabbia. Una delle guardie del cancello si parò in mezzo alla strada, puntando la lancia nella loro direzione e intimando l’alt, anche se con poca convinzione, mentre altre due spingevano i pesanti battenti. Alomas non batté ciglio e spronò ulteriormente la cavalcatura non intendendo minimamente deviare o rallentare la corsa. Il povero soldato, intuendo le intenzioni dei cavalieri, si gettò a terra appena in tempo per non essere travolto. Il cancello era oramai quasi completamente chiuso, fortunatamente però, riuscirono a varcarlo appena in tempo. Le due guardie si accorsero troppo tardi del loro passaggio e non riuscirono a tenerlo aperto per gli inseguitori, che dovettero frenare bruscamente per evitare di schiantarsi contro i battenti di metallo.

   «E con questa ho perso cinque anni di vita! Corgh, me la pagherai alla fine. Maledetto me che ti ho seguito in questa storia!»

   Il povero Jofiah era pallido e sudato dalla tensione, stringeva le redini del vecchio Moshi talmente forte da farsi venire le dita bianche e non aveva ancora smesso di tossire per la polvere. Corgh si girò verso di lui con aria truce.

   «Piantala! Siamo salvi, no? E poi, un po’ di adrenalina non può che farti bene! O preferivi restare a marcire nel tuo polveroso negozio a servire le zitelle bisbetiche del paese?»

   Jofiah scaricò una serie d’insulti sull’oste, dopodiché scoppiò in una risata fragorosa che contagiò, incredibilmente, lo stesso Corgh. Nel frattempo, il capitano Sheryan schiumava di rabbia e dispensava minacce di severe punizioni sulle teste dei suoi uomini. Non poteva ordinare loro di inseguirli, il trattato di pace con gli elfi prevedeva il divieto per la milizia di attraversare il cancello con la foresta e infrangere tale divieto sarebbe stato troppo pericoloso. Non poteva nemmeno rivalersi sul fatto che era stato un elfo a farli scappare, non aveva l’autorità per perseguire gli abitanti della foresta. Non aveva nessuna intenzione, però, di lasciarselo scappare, non ora che l'aveva avuto in pugno. Doveva trovare il modo di averlo di nuovo nelle sue mani, ad ogni costo. La soluzione, forse, era una sola. Congedò in malo modo i suoi uomini, dopo aver inflitto consegne straordinarie e cancellato permessi, dopodiché si diresse verso la taverna più malfamata della città, dove era sicuro di trovare il suo uomo, non prima però di essersi camuffato com’era sua abitudine prima di recarsi in un posto che non si addiceva molto al suo rango. Indossando un ampio e logoro mantello con cappuccio e bavero alto a coprire il viso sotto gli occhi, entrò alla “Rosa nera” e si diresse al bancone. Il fumoso locale era come al solito pieno della peggior feccia della città. Li conosceva quasi tutti, avendoli almeno una volta visti dietro le sbarre della sua prigione. Motivo in più per non farsi riconoscere. Sapeva che, bardato in quel modo, non avrebbe corso rischi, quella era gente che non dava peso a un losco figuro a volto coperto che, con ogni probabilità, era uno di loro, ovvero un ladro o un qualche altro tipo di furfante. L’uomo dalle spalle larghe, curvo sul bancone, non mosse un muscolo quando gli si sedette affianco. Era di corporatura piuttosto robusta, sui cinquant'anni. I capelli neri tagliati corti erano brizzolati, il volto segnato da profonde rughe e con un’appariscente cicatrice che gli attraversava la guancia destra. Gli occhi azzurri erano vivi e ne traspariva una grande forza d'animo. Era notevolmente diverso dal resto degli avventori del locale.

   «Vedo che non hai molto da fare, ultimamente».

L'uomo appoggiò il bicchiere. 

   «Non sono affari tuoi».

Non voltò neanche il viso verso il suo interlocutore. La sua voce era profonda e graffiante.

   «Può darsi. Però penso sia un peccato, il fatto che un uomo con le tue capacità se ne stia con le mani in mano a bere acquavite scadente in un posto del genere».

   L'uomo non rispose e riprese a sorseggiare dal suo bicchiere.

«Taglia corto. Hai qualcosa da offrirmi? Altrimenti ti consiglio di andartene...»

   Abbassò la voce, chinandosi verso di lui.

« ...Capitano Sheryan.»

    «Così si ragiona!» 

Arrivarono ad Aglarfuin, la città degli elfi nel mezzo della Foresta Nera, dopo due ore di cavalcata, senza che nessuno li seguisse. Il capitano, come Alomas aveva previsto, non se l'era sentita di infrangere le regole della Tregua. Non appena sbucarono dal folto degli alberi nella radura che si apriva sulla città, Corgh trattenne il fiato. Erano passati vent’anni dall’ultima volta che era stato lì, un senso di nostalgia lo assalì. La città si mostrò in tutto il suo splendore: le maestose mura di pietra candida riflettevano la luce della luna producendo un effetto di bagliore soffuso su tutta la radura. All’interno delle mura si vedevano i palazzi, anch’essi in pietra bianca, finemente decorati con statue e fregi. I tetti spioventi, ricoperti di tegole di pietra vulcanica nera e opaca, creavano un contrasto fortissimo con il candore dei muri lucidi, le costruzioni sembravano sovrastate da dei triangoli di oscurità. Per questo la città era chiamata Aglarfuin, ovvero “Luce delle tenebre”. Nel centro esatto della circonferenza disegnata dalle mura, si ergeva il Palazzo della Luna, residenza di Eromas, signore degli elfi neri e padre di Alomas. Il palazzo ospitava anche il tempio dedicato al culto della Signora Della Luce, di cui era somma sacerdotessa Deliah. Corgh realizzò solo alla vista delle guglie nere del palazzo che era giunto il momento di rivedere la sua amata consorte. Fino a quel momento aveva cercato di non pensarci, per non farsi prendere dall’emozione, anche perché la notizia che le stava portando non era delle migliori.

   «Come sta lei?»

Chiese improvvisamente ad Alomas. L’elfo, con la sua solita flemma rispose senza attendere un secondo, quasi si aspettasse la domanda. In effetti, era così.

   «La sacerdotessa è in ottima forma. Lo sai, finché si trova qui, non rischia nulla. »

   «Ne sono felice».

Dopo una piccola pausa, l’elfo girò leggermente il viso verso di lui, un atteggiamento confidenziale e informale che lo stupì.

   «Ha sentito molto la vostra mancanza in questi anni».

«Il destino ha voluto che ci separassimo. Sarei voluto tornare insieme a Sephyr, le avrebbe fatto sicuramente piacere».

   «Dov’è vostra figlia in questo momento?»

Corgh sospirò, il trambusto di quelle ore gli aveva tolto dalla testa la preoccupazione per la figlia, che ora gli calò addosso di nuovo come una pietra.

   «E’ con un giovane Rakhoon, lei è il suo Sigillo».

L’elfo ebbe un piccolo e quasi impercettibile sussulto a quelle parole, e l’oste se ne accorse.

   «Capisco. Quindi è questa la ragione che ti ha riportato qui».

«Non esattamente, se il problema fosse solo questo, saprei gestirlo da solo, purtroppo c’è dell’altro. Dobbiamo parlare con Eromas al più presto.»

   «Mio padre sarà felice di rivederti, ma prima devi passare al tempio».

   «Non serva che tu me lo dica».

I due cavalli entrarono dalla porta della città.

   «Sono arrivati, mia signora!»

La giovane portò la notizia con il sorriso sulle labbra, sapeva che la stava aspettando con ansia. Deliah era seduta alla finestra e si alzò di scatto verso di lei. Il suo volto era raggiante. La ragazza rimase affascinata, la bellezza della sacerdotessa era già normalmente fuori dal comune, ma in quel momento aveva qualcosa di ultraterreno. Non aveva mai visto i suoi occhi brillare in quel modo, doveva essere veramente felice. Conosceva la sua storia e aveva sempre percepito il velo di tristezza che la accompagnava per la lontananza dai suoi cari, quella tristezza era stata spazzata via al pensiero di poterli riabbracciare a momenti.

   «Grazie, Elohen. Falli entrare».

Elohen, sorella di Alomas, si congedò e fece segno alle guardie di far entrare gli ospiti. Corgh entrò preceduto da Alomas. Deliah, con le lacrime agli occhi, gli si gettò al collo senza lasciargli il tempo di aprire bocca.   

   «Quanto ho aspettato questo momento…»

L’oste, dapprima sorpreso, strinse a se la moglie.

   «Ti trovo bene, ne sono felice».

La donna lo guardò negli occhi e gli mise una mano sulla guancia.

   «Sei cambiato, amore mio».

«Vent’anni sono tanti, per noi uomini. Tu invece sei splendida come allora».

   Deliah gli sorrise e lo baciò sulle labbra. Spostò lo sguardo alle sue spalle e alla vista di Jofiah cambiò per un secondo espressione. L’oste notò la delusione nel suo sguardo, e anche Jofiah, che abbassò lo sguardo imbarazzato.

   «Sephyr non è qui, mi dispiace».

«Sta bene?»

   C’era preoccupazione, nella sua voce.    

«Sta bene. In questo momento è con un giovane Rakhoon».

   Deliah si staccò da lui e assunse un’espressione seria.

«Raccontami tutto. »

  
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