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Autore: Elefseya    24/06/2014    1 recensioni
Olim - Sprezzante e sgarbato fu il gesto con cui liberò la mano dall’altrui presa, veloce come se avesse appena toccato qualcosa di ustionante; sdegnosa l’allontanò prima che venisse catturata di nuovo dalle mani di lui e che il suo volto stesso sentisse la pressione gentile e delicata di quelle dita, costringendola a fissare la notte degli occhi di Marcus, e a lasciare che lui stesso potesse guardare i suoi. Imperdonabile.
Hodieque - «Puoi perderti ancora, sai.»
Un dolce soffio che inebria le labbra di Elena; notte che incanta e cattura fatalmente il suo sguardo, che l’attrae con prepotenza, senza concederle la possibilità di ritrarsi.
«Potrei.»

[ Repubblica di Venezia!centric - San Marino ]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Serie: Axis Power Hetalia
Titolo: Ὀρχέομαι - olim hodieque
Titolo capitolo: Hodieque - Ὀρχέω
Personaggi:
OC - Serenissima Repubblica di Venezia, OC - Repubblica di San Marino
Warning: //
Wordcount: 1120
Challenge: Writing Stuff Series
Prompt: Day # 14 - « Rinuncia al tuo potere di attrarmi ed io rinuncerò alla mia volontà di seguirti»
Note: 
- Il titolo del capitolo significa "e oggi - danzo"
- Le frasi in latino sono tratte dall'ultimo coro dell'oratorio di Vivaldi "Juditha triumphans devicta Holofernis barbarie" (più informazioni utili qui),  inno ufficiale della Serenissima, per questo lo trovate citato pari pari.
- Le frasi che trovate allineate a destra sono tratte dalla canzone La Candela e la Falena di Branduardi (-piccolo inchino al cospetto del Maestro-), che ho trovato particolarmente adatta alla situazione
Disclaimer: la serie appartiene a Himaruya, Venezia a me e San Marino alla mia bella signorina Barbara <3



« Hodieque -  Ὀρχέω »
“Adria vivat, et regnet in pace”

(Exultantium Virginum pro Judithae triumpho)

 


 «Amo me stessa e la mia morte,
con me arde il fuoco, non io nel fuoco.
Quando all’alba mi spegnerò,
di me traccia non resterà. »

- A. Branduardi, La Candela e la Falena -



Venezia, oggi

 
Il crepuscolo ha ceduto velocemente il suo posto celeste alla tenebra notturna; il chiacchiericcio allegro di una città viva ha lasciato che prendesse il sopravvento il silenzio del sonno lunare.
Nella Sala del Maggior Consiglio però il bagliore d’argento candido della Luna si spande sul marmo rosato e si posa sulla figura femminile che a passi lenti cammina; il ticchettio dei tacchi si diffonde nel grande salone, disturbando il secolare riposo della solitudine assonnata.

E nel nulla apparentemente solitario il suo requiem ritorna, dopo secoli, a render gloria al passato; una voce da soprano si eleva dal marmo verso le ampie vetrate trasparenti sotto l’egida del “Trionfo di Venezia” del Veronese.
Non vibranti percussioni, non squillanti trombe, non acuti archi: ora solo le parole possono riportare in auge quella magnificenza antica di secoli.
Solo chi ha vissuto in quel mondo può ricordarlo.
Solo Elena.
«Salve, invicta Juditha formosa, patriae splendor spes nostrae salutis!»
Ma nel sogno vigile della Serenissima ancora è tutto brillante e sfarzoso, ancora le gonne delle nobildonne si confondono nel loro infinito volare nella fulgida luce preziosa.
Elena improvvisa un cortese inchino al gentiluomo che le sta di fronte, e anche lei si unisce a quel macabro ballo di anime ormai svanite e dimenticate nel tempo, sepolte in quel cuore pulsante solo per grazia di immortalità più volte maledetta.
Vi si tuffa senza timore, incurante se poi saprà ritrovare la strada verso la realtà: perdersi in quello sfarfallio brillante e non ritornare mai più è una prospettiva più allettante.
La sua mancina si appoggia sulla spalla del nobile, la destra si stringe all’altrui mano: è l’aria immobile a condurla in questo nuovo ballo di illusioni e ricordi coperti dalla polvere e dalla cenere fumante.
«Summae norma tu vere virtutis, eris semper in mundo gloriosa.»
Nella sala riecheggiano solo la voce acuta di Elena e lo stridere stonato occasionale dei suoi tacchi sull’antico marmo d'Oriente; lenti e aggraziati sono i suoi movimenti solitari, che smuovono il nulla silenzioso e l’aria che trasporta accondiscendente le sue parole diffondendole nel vuoto, spettatore entusiasta.
Ed è il vuoto la sua compagnia chiassosa, che si sposta e le fa spazio al suo passare, che intona il passato assieme a lei.
Che dolorosamente la illude nella notte.
Che la ferisce.
Corrode l’animo superbamente disperato, tanto geloso e avido del passato da non potersene liberare se non annichilendo il presente.
«Debellato sic barbaro Trace, triumphatrix sit Maris Regina.»

La Dominante sobbalza, le sue note tremano insicure e spaventate nell’istante in cui non è più l’aria cortese ad accompagnarla, ma persona viva che le prende dolcemente la mano destra e posa la sua sul fianco sinistro di lei.
Lo sconosciuto spirito prende la forma di Marcus, che la guida nell’ultimo movimento dell’Aria che intona il soprano danzante: ancora ella si lascia spingere indietro, si lascia trascinare in avanti, lascia che il suo compagno la diriga nel suo volteggiare, che l’attiri a lui, che la liberi e ne reclami poi la proprietà al vuoto.
Si lascia nuovamente perdere.

«Et placata sic ira divina, Adria vivat, et regnet in pace.»

L’ultima vibrante nota della voce della Regina dell’Adriatico si affievolisce e muore, chiudendo quell’inno di gloria e ponendo termine alla danza del cavaliere e della sua dama.
Ad un leggero inchino della donna corrisponde un inchino più profondo del nobile dagli occhi color della notte.
Notte che custodisce e scandisce con lo scorrere degli astri sulla volta celeste la loro danza solitaria, il loro riavvicinarsi e prendersi per mano: ricomincia quel rondeau nascosto fatto di passi leggeri e volteggi, corpi che si allontanano e si avvicinano, volti che paiono sfiorarsi e toccarsi, attirandosi fatalmente, labbra che si cercano, si trovano e altrettanto velocemente si perdono.
La mano destra della veneziana viene liberata dalla stretta della mancina del suo accompagnatore, e di questa egli posa l’indice sulle labbra di lei schiuse, zittendola prima ancor che possa far sentire nuovamente la sua voce.
«Seriamente? Vuoi ballare? Potevi chiederlo a chiunque.»
Un sussurro impertinente all’orecchio, voce suadente interrompe lo spartito, e contrasta con le gloriose note prima cantate a pieni polmoni, ma che fa tremare il cuore della donna e il suo animo. 
Sogghigna presuntuosa Venezia, al sentire le stesse parole che pronunciò lei secoli prima, in un contesto simile.

Sempre lui.
Sempre lei.
La notte come scenario.
Danzavano.
Danzano.

«Smettila.»
E sogghigna lui: la destra abbandona il fianco di lei e risale in una lenta e impercettibile carezza lungo il nudo braccio, fino alla spalla, per poi sfiorare una ciocca di lunghi capelli castani. Li tira appena, costringendo la donna ad avvicinarsi a lui, per poi di nuovo avvolgerle con il braccio sinistro la vita.
«Puoi perderti ancora, sai.»
Un dolce soffio che inebria le labbra d'immortale amaranto di Elena; notte che incanta e cattura fatalmente lo sguardo insolente, che l’attrae con prepotenza, senza concederle la possibilità di ritrarsi.
Tiranno, riesce a domare.
«Potrei.»
Un sussurro che viene catturato dalle labbra di entrambi che ora, desiderose, si reclamano dopo tanto cercarsi: timide e insicure all'inizio si sfiorano appena, impazienti giocano e si mordono, poi, gelose e avide, si impossessano le une delle altre.
Elena vi si perde, in quel bacio che sa di divieto permesso, di segreto violato e perdizione redenta.
Sa di odio che si trasforma, sa di fiamma che consuma.
Vi si lascia immergere, sprofondare e attirare: inconsapevolmente è la sua stessa persona che si alza in punta di piedi facendo leva sulle larghe spalle di Marcus, su cui poggiano le sue mani; ad aiutarla c’è la stretta delle braccia di lui sui suoi fianchi, che la sollevano quel tanto da rendere nulla la leggera pressione che lei stessa esercitava sulle altrui spalle.
Il respiro le viene negato e poi restituito; si perde, annega nel buio battito che si aggiunge al suo stesso pulsare disperato.
Ritrova la strada seguendo con le dita il profilo dell’altrui volto, lentamente: risalgono dal collo fino alla mascella, carezzano leggera la guancia, sfiorano la nuca e si nascondono tra i capelli scuri come il placido mare notturno.
Vi fanno forza per attirare l'amabile volto verso il suo.

Si ferma la musica, si ferma l’eterno ballo: solo l’eco del violino risuona, sempre più fievole.
E si spegne anch’esso, vibrando nel cuore della Serenissima.
Come secoli fa.

Ma la verità è che solo lui ha la capacità di guidarla in quel mondo passato senza costringere il cuore di lei a sanguinare e dolere.
Solo lui può riportarla poi alla realtà senza farla soffocare per il dolore.
Solo lui sa come restituire un ritmo a quel battito vizioso che ora sente troppo vicino al proprio.
Lei non ha più paura, ormai.

“Vivat, vivat, vivat in pace.”

Questa volta no, non è in grado di odiarlo.


“Per amore danzo nel fuoco, per te l’amo, non ho altro amore.”

   
 
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