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Autore: Anna Wanderer Love    25/06/2014    2 recensioni
Jemima Wright è un'ex agente dello S.H.I.E.L.D, licenziatasi dopo aver subito gravissime ferite provocate dal Soldato d'Inverno nel corso di una missione segreta.
Un anno dopo di ritrova a lanciare coltelli contro quello stesso Soldato nella sua cucina.
Perché il Soldato d'Inverno è così ossessionato da lei? Perché la controlla, la segue dappertutto? E, soprattutto, perché quando Jemima guarda quegli occhi scuri non sente rabbia, ma solo compassione?
[Dal testo:]
Si chinò, inginocchiandosi. Lo guardavo con le lacrime agli occhi e la bocca piena di sangue, ma ero determinata a non cedere.
Il suo sguardo si spostò sulla mia gamba, intrappolata sotto a pezzi di cemento.
Con uno scatto si spostò vicino alla mia anca e sollevò un piccolo masso. Il sollievo che provai nel sentire quel peso non gravare più sulla mia carne fu quasi violento, ma prima che potessi muovermi o trascinarmi via da quella trappola un palo di ferro rovinò sulla gamba.
Urlai con tutto il fiato che avevo, mentre il dolore esplodeva nella mia mente.
L’ultima cosa che vidi prima di svenire fu il bagliore del suo braccio di metallo.
(Bucky/Soldatod'InvernoxNuovoPersonaggio) (StevexNatasha)
Genere: Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Nuovo personaggio, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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When Love arrives in the dark
 

( immagine di kostinalena su Deviantart )
 

Il Soldato d’Inverno non sapeva come diamine gli fosse saltato in testa di mettersi a spiarla.

Abbandonato a sé stesso, evitando di farsi trovare da HYDRA e S.H.I.E.L.D, era riuscito a trovare un po’ di pace. Ma non molta: ogni volta che chiudeva gli occhi e provava a dormire rivedeva i volti degli innocenti che aveva ucciso. Madri, padri, uomini, donne, anziani, adolescenti, bambini. Ma sopra a tutti spiccava un volto, lo stesso volto che in quel momento gli stava davanti, shockato, spaventato e terribilmente confuso.

Non sapeva dire il motivo per cui i volti delle sue vittime continuavano a tornargli in mente. Aveva recuperato brandelli di memoria, brandelli sufficienti a farlo nascondere da tutto e da tutti. Ricordava l’elettroshock, e quello era bastato a fargli decidere di scappare e nascondersi.

Non voleva più essere il burattino di nessuno.

Iniziava a sentire il rimorso crescere dentro di lui, aumentare giorno dopo giorno. Perché, in fondo, tutti quelli che aveva tentato di uccidere non erano colpevoli di nulla, se non di essere dei bravi uomini nel mirino dell’HYDRA. Aveva anche provato a uccidere quell’uomo... quello che aveva scatenato la tempesta in lui. Quello che odiava, ma a cui era tremendamente grato e da cui sentiva di essere legato. Quello che aveva cercato di uccidere insieme all’agente rossa. Sapeva solo che si chiamavano Steve e Romanoff. Non voleva sapere altro, non finché non avrebbe capito chi fosse veramente: se il Soldato d’Inverno o James.

Ma non sapeva perché quella ragazza dai capelli color miele continuasse a tornargli in testa, assieme ai ricordi di quella notte. Se la ricordava perfettamente. Era l’unico viso che gli era rimasto chiaro nella mente, senza confondersi con la nebbia che avvolgeva le facce delle sue vittime.

Aveva ricevuto l’ordine di ammazzarla e far sembrare che fosse stato un incidente.

Aveva dato fuoco all’edificio in cui si trovava e mentre tutti uscivano l’aveva chiusa in una sala. Non appena l’aveva visto aveva iniziato a sparare, così come lui, ma a un certo punto erano finiti i colpi. Perciò era passato al combattimento corpo a corpo. Era balzato verso di lei, atterrando sul tavolo dietro cui si nascondeva, e l’aveva afferrata per il collo. Come aveva appena fatto nella sua casa, sul suo tavolo.

L’aveva fatta svenire, ma non sapeva perché si fosse fermato; non se l’era sentita di ucciderla.

Così era riuscito a farle crollare un pilastro della sala addosso.

Aveva visto perfettamente il cemento rovinare sulla sua gamba, e si era sentito un mostro mentre l’urlo di lei gli rimbombava nelle orecchie. Si era vergognato di sé stesso, per la prima volta.

Aveva deciso di aiutarla, di spostare il cemento, cercando di convincersi che quello che stava facendo era normale, che non avrebbe avuto conseguenze. Aveva alzato il cemento, mentre lei lo guardava, penetrandogli l’anima con quei suoi maledetti occhi verdi.

E poi, dannazione, era caduto il palo di ferro.

Il suo grido di dolore era stato anche peggiore del precedente.

Adesso risentiva quelle urla, anche se la cucina era vuota e silenziosa.

Si rese conto che lei stava ancora aspettando una risposta, seduta sul tavolo. Si impedì di tornare a guardare quella cicatrice orribile che sfigurava la sua gamba, e annuì incerto.

Era da tempo che non beveva del caffé, ma a renderlo spiazzato e sospettoso era stato il suo gesto.

Aveva appena scoperto che la spiava e dopo aver rischiato di morire di nuovo -a quel pensiero il Soldato sentì una vaga punta di vergogna intaccare la sua espressione impenetrabile- gli offriva da bere.

Lei si mosse con cautela, scendendo giù dal tavolo e continuando a fissarlo con quei suoi occhi color giada. Erano belli, sembravano catturare la luce esigua rimasta nella stanza. Sembravano quelli di un cucciolo spaurito che cercava di farsi forza. Il Soldato aveva imparato a distinguere le emozioni che apparivano sui volti delle persone che incontrava, ma con stupore si rese conto che non c’era disgusto, rabbia o voglia di vendetta nello sguardo limpido che gli lanciò.

Intuendo che era comunque a disagio fece un paio di passi indietro, fino ad appiattirsi contro lo stipite della porta. Lei lo guardò sorpresa, ma le sue labbra presero  una piega più rilassata.

Gli voltò le spalle, e vide chiaramente quanto la sua postura era rigida. Aveva paura di lui? Be’, non poteva biasimarla.

Si mosse veloce, afferrando dalla credenza color panna una busta di caffé e la moca. La riempì di polvere scura e la mise sul fuoco, mentre recuperava due tazze dal mobiletto al suo fianco.

Il silenzio riempiva la stanza, mentre l’odore di caffé si spandeva nell’aria.
Lei non gli chiese di accendere la luce, e lui non lo fece. Non era abituato a quei gesti spontanei, ma non era quello il motivo. In realtà non lo sapeva nemmeno lui, il motivo. Forse non voleva che lei lo vedesse in faccia più del necessario, o forse non voleva che guardasse il suo braccio di metallo.

Lo odiava, ma almeno non era rimasto senza un arto.

Dopo qualche minuto, in cui lei continuò ad abbassare lo sguardo e a giocare con il braccialetto di stoffa che aveva al polso, il caffé cominciò a uscire gorgogliando dalla moca e lei si affrettò a versarlo nelle due tazze.

Si voltò verso di lui, incerta, porgendogliene una.

Lui si tese in avanti, prendendola col braccio sano. Le sue dita sfiorarono il dorso della mano di Jemima -ecco quel’era il nome!- mentre si chiudevano sulla ceramica, e lei sussultò.

Ritrasse il braccio, guardando la tazza che gli aveva dato.

Era nera, con i bordi bianchi, e ritraeva un canarino giallo stilizzato con una testa troppo grande e ciglia troppo lunghe. Un vago ricordo affiorò nella sua mente: un cartellone pubblicitario di un cinema con disegnato quello stesso canarino.*

- Non lo conosci? - chiese lei, e alzando lo sguardo Soldato la vide appoggiata al ripiano della cucina, con in mano un’altra tazza a pallini blu, viola e verdi. La sua espressione era incerta.

- Sì... sì - mormorò lui, distogliendo lo guardo dalla ragazza.

Ogni volta che la guardava il suo volto impolverato e dolorante sostituiva quello pulito e cauto.

- Come... come ti chiami?

Soldato prese un respiro profondo. Bella domanda. Sapeva che una volta era stato un certo Bucky, ma un altro nome affiorò nella sua mente.

- James - disse piano.

Non chiese il suo nome, entrambi sapevano che lo conosceva già.

- Volevi... uccidermi? - James alzò la testa verso di lei. Era paura, quella che le faceva tendere le labbra e stringere più forte la tazza?

- No - rispose guardandola negli occhi.

- Allora... perché sei qui? - chiese Jemima, aggrottando le sopracciglia.

Posò la tazza sul ripiano di marmo dietro di lei. Il volto del Soldato d’Inverno era una maschera di ghiaccio... ma con molte crepe. Per un secondo all’ex agente sembrò di vedere una scintilla di curiosità nei suoi occhi scuri, prima che lui appoggiasse la testa alla parete e li chiudesse.

Jemima si ritrovò ad osservare il suo corpo muscoloso, con lo sguardo che continuava ad essere attratto da quel braccio di metallo. Si chiese, non per la prima volta, come si sentisse a poterlo muovere ma a non poter provare sensazioni.

- Non lo so.

James riaprì gli occhi e lei si ritrovò a osservare quelle iridi profonde. Si accorse che i suoi occhi non erano marroni, come le era sembrato all’inizio. Erano chiari, di un colore tra il grigio e l’azzurro. La guardava in silenzio, ma a Jemima sembrava che stesse urlando, chiedendo aiuto con lo sguardo.

Fece un paio di passi verso di lui, ancora incerta. Sentiva la paura rimbombarle nelle vene. Nonostante tutto il ricordo di quella notte continuava a tormentarla. Temeva che la stesse imbrogliando.

Lui si irrigidì. Forse non gradiva quell’improvvisa vicinanza, ma a Jemima non importava.

- Senti... vuoi che... - non fece in tempo a finire la frase che degli spari ruppero i vetri della finestra.

Jemima gridò, mentre frammenti di vetro volarono nell’aria.

Il Soldato d’Inverno reagì senza nemmeno pensare. Si lanciò in avanti, scagliando la tazza ancora colma di caffé sul pavimento, e si gettò su di lei.

Jemima urlò, mentre cadevano sul pavimento, lui sopra di lei. Gli spari continuavano a raffica, e l’ex agente dello S.H.I.E.L.D. si ritrovò a serrare gli occhi stringendosi a lui.

Quella manciata di secondi fu molto strana: ad un certo punto il cervello della ragazza smise di pensare ai proiettili che volavano, distruggendo la sua povera, innocente cucina, ma si rese conto del peso che la inchiodava al pavimento, schiacciandole i polmoni, dei capelli lunghi dell’uomo contro la guancia, e che il suo odore la stava avvolgendo in una gabbia.

Dopo una decina di secondi tutto finì, e calò il silenzio.

Il Soldato si alzò sugli avambracci per guardarla in volto, mentre gli occhi della donna si incupivano, realizzando cos’era appena successo. James non fece in tempo ad aprire la bocca che si ritrovò a rantolare, rotolando via da lei. Gli aveva tirato un calcio nel basso ventre.

Jemima si alzò di scatto, cominciando a correre come una gazzella.

Con un’imprecazione furiosa, lui si rialzò e stringendo i denti la seguì.

Jemima era veloce, ma era fuori esercizio, anche se ogni domenica mattina andava a correre, e James era molto più che allenato.

- Ferma! - in poche falcate l’afferrò per il braccio e la tirò contro il proprio petto. Jem trasalì, frapponendo tra i loro corpi gli avambracci.

Lui la guardò negli occhi, scuotendo la testa. Aveva il respiro corto.

- Dalla finestra - sibilò.

Lei aprì la bocca per dire qualcosa, ma una raffica di colpi crivellò la porta d’ingresso, e lui scattò verso la camera di lei, trascinandosela dietro.

Saltò sul letto e da lì sul davanzale, atterrando poi sul marciapiede. Si voltò, e la vide incerta, affacciata alla finestra. Sentiva già le urla dei tedeschi dell’HYDRA.

- Salta - ringhiò.

James sapeva che lei aveva paura di lui, ma probabilmente era più spaventata dall’HYDRA. Fu per questo che saltò subito. Fece una smorfia di dolore quando finì in ginocchio sul cemento, ma non potevano permettersi di indugiare. Il Soldato scattò in avanti, afferrando con la mano metallica il braccio della ragazza, e cominciò a correre. Jemima fu costretta a seguirlo, anche se lui correva troppo veloce e ogni pochi passi incespicava. Strinse le dita attorno alle scarpe da ginnastica che aveva avuto la prontezza di prendere dal pavimento della camera.

Non si fermarono nemmeno quando ebbero superato due isolati di distanza, ma a quel punto i polmoni -e il braccio- di Jemima reclamavano pietà.

- Fermo - ansimò, ribellandosi alla sua presa quando arrivarono in un parcheggio vuoto e buio.

Lui rallentò fino a fermarsi, e la lasciò andare. La ragazza si piegò, tenendo le mani sulle ginocchia, boccheggiando. Una volta che il respiro si fu calmato abbastanza da permetterle di parlare alzò la testa e gli lanciò un’occhiata di fuoco, raddrizzandosi.

- Perché mi hai detto che non volevi uccidermi?

Lui serrò i muscoli di tutto il corpo, mentre un’ondata di rabbia lo scuoteva. Non gli piaceva essere accusato di aver mentito.

- Non sono miei alleati - ringhiò, avvicinandosi fin quando il suo volto fu a mezzo centimetro di distanza da quello di lei.

- Allora perché erano tedeschi? E perché hanno distrutto casa mia? - sibilò Jemima in risposta, alzando il mento.

- Perché vogliono uccidere me - sputò in risposta James.

Lei lo guardò schiudendo le labbra, sorpresa. I suoi occhi verdi chiedevano urgentemente un chiarimento.

Il Soldato d’Inverno si ritrasse, passandosi nervosamente una mano tra i lunghi capelli marroni. Sospirò, scuotendo la testa, e individuò un’auto nera poco distante. Irrigidì la mascella e cominciò a dirigervisi a grandi passi.

Jemima lo seguì, trottellandogli alle calcagna e tempestandolo di domande.

- Ehi, voglio una risposta! Perché vogliono farti fuori? L’HYDRA, poi! Capirei lo S.H.I.E.L.D. ma... che stai facendo? - chiese perplessa, mentre lui si accostava al finestrino del guidatore della macchina.

Lui grugnì, e prima che lei potesse fermarlo tirò un pugno al vetro con il braccio di metallo. Jemima trasalì, mentre le schegge volavano dappertutto.

- Che diavolo fai? - esclamò, guardandosi intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno a guardarli. Niente, il parcheggio era vuoto e il lampione più vicino era distante una decina di metri.

Il Soldato infilò il braccio nella macchina e aprì la portiera. Poi si voltò verso di lei, scoccandole un’occhiata cupa e aggirando la macchina.

- Siediti e guida se non vuoi che finiamo in fondo a un fosso entro dieci minuti.

Jemima alzò gli occhi al cielo e con uno sbuffo si sedette al posto di guida. Si chinò, mettendo le scarpe. James era già salito e la guardava in attesa. Jemima posò le mani sul volante, poi arricciò il naso, voltandosi verso di lui.

- Non ho le chiavi.

Detto fatto.  Quattro minuti dopo stavano uscendo dal parcheggio. Il Soldato aveva avviato la macchina con i cavi.

- Dobbiamo uscire dalla città - mormorò aspro lui, provocando uno sbuffo e una smorfia.
 

* * *

JEMIMA:
 

Non riuscivo a crederci. Insomma, era più che assurdo!

Ero rinchiusa in una macchina rubata con lo stesso uomo che aveva cercato di uccidermi una volta e che mi aveva salvato la vita altre due, prima buttandosi su di me perché non mi ferissi con i proiettili e poi trascinandomi via da casa mentre dei nazisti megalomani mi davano la caccia.

Non sapevo cosa pensare. La mia testa era un turbinio di pensieri fastidiosi e inutili. Dovevo restare concentrata e guidare, non perdermi a rimarcare l’assurdità di quella situazione.

Gettai una veloce occhiata al mio compagno di sventure. Aveva la testa reclinata all’indietro, e gli occhi chiusi. Stava dormendo?

James aprì gli occhi e girò la testa verso di me. Arrossii, tornando a guardare la strada e cercando di non pensare a quanto sembrasse stanco e sfiduciato.

- Non capisco - dissi schietta dopo qualche minuto, mentre eravamo fermi ad un semaforo.

- Cosa? - la sua voce era appena udibile, ma riuscii lo stesso a captarla.

- Perché mi stai aiutando. Hai detto che vogliono catturarti, che io non c’entro niente. Perché mi stai facendo scappare con te?

Lui rimase in silenzio per qualche istante. Con la coda dell’occhio vidi che si guardava le mani, abbandonate sulle gambe.

- Perché mi hanno seguito fino a casa tua - mormorò, la voce piena di... rassegnazione? -e quindi non sei al sicuro.

Il semaforo tornò verde e ripartii veloce.

- Perché ti importa? - sbottai. Guardandolo vidi che sembrava confuso -ancora non ero riuscita a decifrare per bene i suoi lineamenti- e puntualizzai: - Che io sia al sicuro o no, intendo.

A quel punto sentii il suo sguardo di ghiaccio su di me, e rabbrividii. Era come se fossi una cavia e lui fosse lo scienziato che mi osservava.

- Perché ho cercato di ucciderti - disse, la voce roca - e non ci sono riuscito.

Aggrottai le sopracciglia, mentre sentivo una fitta di fastidio alla gamba, alla cicatrice.

- Ero per terra, sommersa da chili di cemento - ribattei aspramente - potevi farmi fuori senza problemi. Mi avresti anche fatto un favore, avrei evitato tutto quel dolore e la convalescenza in ospedale.

- Non ce l’ho fatta - ringhiò lui, sporgendosi verso di me. Deglutii. Non aveva apprezzato la mia acidità e il tono pieno di biasimo, evidentemente. Il mio cuore aveva preso a battere all’impazzata, mentre il suo viso era a poca distanza dal mio, le sue mani che artigliavano le sue cosce per impedire che prendesse a pugni qualcosa.

- Hai ammazzato migliaia di persone! - esclamai, forse con un tono un po’ troppo alto. Voltai la testa verso di lui, pur continuando a guardare la strada, vuota a quell’ora di notte. - Perché diavolo ti sei fatto degli scrupoli proprio con me?

Allacciai lo sguardo al suo, e quello che riuscii a vedere mi strinse il cuore. In quelle iridi cupe c’era un sacco di odio, un odio vivo, bruciante. Non sapevo se per me o per quelli che lo avevano costretto a fare quelle cose. Ma c’era anche una richiesta d’aiuto nascosta in fondo, seppellita e quasi dimenticata.

James serrò le labbra, mentre tornavo a guardare davanti a me. L’aria era gelida, e stavo tremando.

- Non lo so - mormorò.

Dopo quella conversazione non parlammo più.


Due ore dopo ci eravamo fermati in una stazione di servizio, vicino a un piccolo hotel sperduto.

- Ho preso la carta di credito - dissi girandomi verso di lui. - Ma non puoi entrare così.

Lui alzò un sopracciglio, poi annuì una sola volta, anche se aveva un’aria scontenta.

Arricciai il naso, sospirando. Aprii la portiera e uscii dalla macchina. L’aria fredda della notte mi colpì come uno schiaffo. Prima di chiudere la portiera esitai.

- Stai qui - mi raccomandai, per poi voltarmi senza aspettare una risposta.

Mi stavo cacciando in un gran, bel, brutto guaio.
 

* Titti (Tweety) è stato creato per un cortometraggio del 1942, perciò Bucky l’ha visto in un cinema. Secondo me. :D


 ♦   


ANGOLO DELLE CIAMBELLE CARNIVORE BLU:
Ciauuu.
Non sono affatto sicura di questo capitolo, ma va be'. :D Lascio a voi il compito di giudicare ;)
In questo capitolo troviamo Jem e James in fuga, con l'HYDRA alle calcagna :) è una sorta di convivenza forzata...
Perché da sola Jem non riuscirebbe mai a scappare, dato che è fuori allenamento, ma non è una completa incapace, vedrete ;)
Dato che Bucky... ops, James (scusate, ormai ero abituata a chiamarlo Bucky) sembra sentirsi in colpa e volerla aiutare... be', perché non approfittarne? ^^
Ditemi che ne pensate!
Lui apprezzerà ;)




Un bacione! :*
Anna
 
   
 
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