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Autore: Lost_it_all    02/07/2014    3 recensioni
Piacere, sono Alaska. Non sono esattamente una brava ragazza, almeno a primo impatto: fumo, bevo, ho piercing e tatuaggi e non ascolto musica da salotto.
-Be', cosa ascolti allora, "cattiva ragazza"?
Ascolto loro, cinque re e un Angelo: gli Avenged Sevenfold.
Mi hanno salvata, lo giuro su tutto quello che volete, e il mio unico sogno è incontrarli e ringraziarli col cuore in mano.
Non pensavo però che si sarebbe mai realizzato. Almeno finché non sono capitata in California a casa di una ragazza più pazza di me con due pass per il backstage.
Questa è la mia storia. Volete accompagnarmi ?
Dal testo:"“Dicevo... Vai da sola al concerto?”
Annuii. “Sì.”
“No.”
“Cos-“
“No.”
“Ho capito. Ma cosa stai dice-“
“Ci sarò anche io!” (...)
“Ma non avevi detto che non eri riuscita a prendere il biglietto?” mi tornò in mente.
Alzò le spalle. “Sì. È così. Ma mio zio lavora per gli Avenged e così-“
La bloccai, esterrefatta. “Cosa!? Tuo zio lavora per loro!? E me lo dici così!?”
(...) E mi ha dato due pass per il back.”
“COSA!?”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Synyster Gates, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2. During.


 
 
Domani.
In realtà, sei ore. Poi il volo – altre quattro – e poi il treno – un’ora. Poi, beh, l’infinità di persone in fila, tutte con addosso una loro maglia, eccitate alla follia come fosse l’ultimo concerto della propria vita.
Ero fuori di me.
Ma un po’ dovevo dormire, almeno per un paio d’ore, o sarei crollata.
Andai in cucina a recuperare un po’ di pepe macinato, poi lo posizionai ai piedi del letto a formare una mezza luna. Ecco, pensai, così sarebbe andata bene questa notte.
Per chi non lo sapesse, sistemare così il pepe allontana gli incubi, ed io non potevo permettermene.
Con un mezzo sorriso mi stesi sul letto, rileggendo l’SMS di Deni.
«Divertiti. Perdona Matt. Ti voglio bene – non bere troppo.»
Quel ‘perdona Matt’ inserito a metà messaggio mi aveva fatta imbestialire. Per dispetto avrei bevuto più alcool che potevo, fino a farmi male.
Chiusi gli occhi ma il mio cuore non voleva saperne di rallentare i battiti.
La mia mente partì a canticchiare Afterlife, Almost easy, Dear God e, infine, Seize the day.
Sì. Dovevo cogliere l’attimo.
 
 
 
“Signorina? Tutto okay?”
Una voce mi risvegliò dal torpore. Il controllore del treno mi guardava irritato, forse pensando che stessi fingendo di dormire poiché ero senza biglietto.
Con espressione beffarda, glielo mostrai.
“Bene. Fra poco siamo arrivati, perciò resti sveglia o perderà il capolinea.”
“Grazie Sir.”
Infilai le cuffie. Stavo vivendo uno dei momenti più belli della mia vita, ed ero sola.
La mia migliore amica mi aveva mollata per uno stronzo violento e non avevo altri a cui chiedere di venire con me. Beh, mi dissi, meglio così no? Avrei fatto nuove amicizie e...
Sì, come no. Potevo raccontarla a tutti ma non a me stessa: io ero una stupidissima timida di prima qualità, non avrei fatto neanche una amicizia.
Una voce metallica mi portò via dal mio immaginario un po’ macabro, ovvero me in mezzo a centomila persone sorridenti, sballottata di qua e di là mentre i miei salvatori cantavano e suonavano solo per me.
La voce annunciò: “Prossima fermata: Huntington città. Si prega di iniziare a prepararsi per scendere dal treno. È vietato aprire le uscite del treno quando questo non è completamente fermo. È vietato attraversare i binari e superare la linea gialla. Auguriamo a tutti una buona giornata.”
Mi sfuggì un sorriso. Beh, grazie, la mia giornata sarebbe stata eccezionale, altro che buona!
Raccattai le mie cose mentre anche gli altri passeggeri iniziavano a prepararsi e telefonai a Kimberly, la studentessa del college che mi avrebbe ospitata per le prossime due settimane in California.
Su, non è poi così male il fatto che io mi prenda una vacanza, allontanandomi da Deni e da mia madre, anzi, mi avrebbe fatto più che bene.
Egoista.
Misi a tacere il cervello. Non potevo sentirmi amareggiata. Non oggi.
Kimberly rispose al primo squillo, allegra: “Buongiorno Alaska. Sei arrivata?”
I freni del treno fischiarono e la cabina sobbalzò. Ero arrivata proprio ora.
“Sì. Adesso. Sono così felice Kim! Posso chiamarti Kim?”
La mia domanda audace – almeno per i miei standard – mi spaventò. Ero davvero così felice da diventare persino amichevole? Cazzo, un miracolo!
Kimberly ridacchiò. “Ma è ovvio. Chiamami come vuoi, oggi è il tuo giorno!” esclamò felice.
Presi le valigie e incastrai il cellulare fra la spalla e l’orecchio.
“Oh, grazie Kim... Ci incontriamo?”
“Sì dai. Sono curiosa di conoscerti Alaska!”
E riattaccò. Un po’ stranita – non ci eravamo neanche dette dove vederci – scesi dal treno, con le mie due valigie e la tracolla nera borchiata dove avevo riposto cellulare, soldi, passaporto, carta d’identità e, soprattutto, il biglietto, in una tasca interna che nessuno avrebbe mai trovato, mimetizzata benissimo fra le miriadi di cose che c’erano nella borsa.
Un signore anziano mi inciampò addosso.
“Mi scusi!”
Anche se non era colpa mia, mi sentivo a disagio. Lui mi guardò a metà fra l’innervosito e lo scocciato e se ne andò via fumando una sigaretta finita per metà. Quando la vidi mi venne un improvviso bisogno di fumare, ma qualcuno mi bloccò abbracciandomi da dietro, urlando: “Alaskaaa!” a gran voce.
Sussultai.
La ragazza – Kim – mi aggirò prendendo una delle valigie che avevo, con un enorme sorriso ornato da piercing e due occhi truccati addirittura più dei miei.
La cosa che mi colpì più di tutte fu, però, la sua acconciatura: capelli rosso sgargiante lasciati lunghissimi da un lato e rasati dall’altro, con tatuata sulla cute leggermente ricoperta di capelli la scritta “The show must go on”.
Kimberly mi piacque da subito.
Imitai il suo sorriso.
“Cazzo, sei proprio come ti avevo immaginata!” esclamai senza accorgermene.
Lei arrossì un po’. “Oddio! E come mi immaginavi?”
“Ehm... Così.” Risi.
“Io ti immaginavo un po’ più trasgressiva!” rispose alla mia domanda implicita.
Inarcai un sopracciglio. “Ah sì?”
Appoggiai la valigia che mi era rimasta e mi sfilai di dosso la giacca borchiata dei My Chem, ormai inutile per quanto faceva caldo, così da mostrarle i miei tatuaggi. Le misi le mani a pugno davanti agli occhi, mettendo in mostra il deathbat.
“Okay! Ritiro tutto!” ridacchiò prendendo la valigia. “Sei fighissima”.
“Oddio. Grazie. Anche tu.”
Ridemmo assieme del nostro fare impacciato-audace e anche un po’ ridicolo, di chi si è appena conosciuto ma ha tantissime cose da dire, e ci incamminammo. In realtà Kim si incamminò, mentre io la seguivo a ruota senza smettere di guardarle i capelli.
Biascicò qualcosa.
“Uhm, scusa cos’hai detto?”
“Dicevo... Vai da sola al concerto?”
Annuii. “Sì.”
“No.”
“Cos-“
“No.”
“Ho capito. Ma cosa stai dice-“
“Ci sarò anche io!”
“Davvero!? Oh cazzo! È fantastico! Sarà ancora più figo!” urlai eccitata, zigzagando fra la gente. Kim mi guardò come se si fosse aspettata la mia reazione e sorrise quasi con affetto, seppur un po’ prematuro.
“Ma non avevi detto che non eri riuscita a prendere il biglietto?” mi tornò in mente.
Alzò le spalle. “Sì. È così. Ma mio zio lavora per gli Avenged e così-“
La bloccai, esterrefatta. “Cosa!? Tuo zio lavora per loro!? E me lo dici così!?”
Kim mi affiancò. “Eh sì. È mitico lo so!” annuì orgogliosa. Di chi? Di lei o dello zio? Bah, spensi il cervello quando tornò a parlare: “Mi ha dato un biglietto praticamente in extremis e...”
Mi guardò di sottecchi.
Oh porca puttana, che altre carte voleva giocare? Io già la amavo, la adoravo come se la conoscessi da una vita anziché da poco meno di mezzora.
“E...?” la incitai curiosissima.
Mi fece cenno ad un  condominio appena fuori dalla stazione, grigio e anonimo. Ci avvicinammo, non voleva dirmi niente.
Quando infilò le chiavi nella serratura del portone principale, guardandosi le mani con delle stelle tatuate sulle nocche sganciò la bomba:
“E mi ha dato due pass per il back.”
“COSA!?”
 
 
 
Fumai almeno un intero pacco di Marlboro, mentre eravamo in fila. C’erano già un’immensità di persone, ma noi eravamo arrivate ben dieci ore prima, così ci accaparrammo dei posti praticamente all’inizio della fila e ci sedemmo su due teli che Kim aveva preso da casa sua.
Avevamo qualche libro, birre, sigarette, alcuni snack decisamente poco salutari e tante, ma tante cose da dirci.
Iniziò lei a parlare.
Mi raccontò delle scuole che aveva fatto, che era stata espulsa un paio di volte  per risse, ma lei non era una persona violenta. “Solo” mormorò “gli altri mi giudicavano. All’epoca ero già così” si indicò con un po’ di amarezza. “C’era chi mi detestava e così ero presa di mira. Io... Io dovevo difendermi, o avrebbero continuato.”
Le diedi una pacca. “Hai fatto bene Kim. Per quanto possa aiutarti o no, ti capisco. Anche io non sono mai stata accettata. Se non fosse stato per la mia migliore amica mi avrebbero espulsa almeno una dozzina di volte.”
Un sorrisetto ci increspò le labbra. Eravamo davvero affini.
Continuò a parlare di sé, del suo lavoro, delle sue passioni – amava dipingere alla follia, tutti i suoi tatuaggi li aveva disegnati lei e sognava di far della sua passione un lavoro – e di come aveva conosciuto gli A7X. Per caso, come me. La avevano salvata. Come me. Gli doveva molto, e anche io.
“Oddio” chiusi gli occhi, sentendo una scarica d’adrenalina, “quando saremo nel backstage io glielo dirò.”
“Che cosa?” addentò un panino alla Nutella. Era decisamente golosa, Kim.
“Che se sono qui è anche grazie a loro.”
“Oh! Glielo dirò anche io. Chissà in quanti glielo dicono...” Masticò pensosa.
Mi guardai le mani tatuate, strette a pugno. “Già. Ma io non glielo dirò a caso, o tanto per. Lo dirò col cuore in mano.”
“Che poetessa” ridacchiò, guadagnandosi una gomitata sullo sterno, che le fece sputacchiare un po’ di pane.
“Che schifo Kim!” sghignazzai.
Un ragazzo seduto in fila davanti a noi ci passò delle birre. Lo guardammo interrogative, ma accettammo: avevamo finito le scorte.
“Offrono i Sevenfold.”
Spiegò.
Kim strabuzzò gli occhi. “Scherzi!? Sono già qui?”
Controllai l’ora. Mancava un’ora e mezza all’apertura dello stadio, era plausibile che fossero lì. Se non altro per ambientarsi un po’ sul palco, magari guardando lo spazio immenso riservato al pubblico, fantasticando al momento in cui noi avremmo iniziato a cantare con loro agitando le mani in aria e piangendo dalla gioia.
Una scossa mi percorse la schiena.
Oddio. Non ci credevo.
Io ero davvero lì.
Guardai Kimberly scolarsi una birra dopo aver brindato strillando “Hail to the A7X!” facendo girare verso di noi una manciata abbondante di persone, che le risposero.
In quel momento mi sentii come se tutti loro fossero miei fratelli e mie sorelle.
Io non lo dicevo per dire: il mio posto era lì. Fra loro.
 
 
Meno venti minuti.
Eravamo in fibrillazione.
Kim sembrava una drogata. Forse perché si era bevuta un po’ troppe birre (per voi sono tante sedici?) e fumato un intero pacco di sigarette (lei fumava le Winston, a me invece proprio non piacciono).
Io non mi sentivo neanche lì, fra la folla che già urlava e li acclamava. Io ero già nello stadio, sotto al palco, già urlavo già cantavo già li amavo.
I cancelli si aprirono. Un boato mi distrusse i timpani. Iniziò la corsa al posto.
Non sapevo come, ma io e Kimberly riuscimmo a sistemarci sotto al palco, addosso alle transenne che mi si piantarono fra le costole mentre le persone spingevano per i posti migliori. Chiusi gli occhi, alzai le braccia al cielo e urlai, quasi pazza: “SE-VEN-FOLD!”
Gli altri mi imitarono, Kim mi fece l’occhiolino e iniziò a urlare, anche se in realtà lei non aveva mai smesso.
Sul palco c’era la batteria di Arin, il microfono di Matthew e vari amplificatori. Lo scenario era strepitoso: il deathbat sullo sfondo era immenso e, appena il vocalist irruppe sul palco urlando “Huntington! Siamo qui!” dietro di lui si innalzarono delle fiamme  scenografiche.
Arrivarono anche gli altri. Arin fu il secondo a entrare, poi arrivò Johnny, imbracciando il basso, con la sua bassezza che lo rendeva così carino ai miei occhi. Poi arrivò Zacky, improvvisando una ridicola piroetta che fece ridere Shadows. E... Dio... Le fossette! Pensai che sarei potuta morire: erano così vicini a me! Li avevo proprio dinanzi!
Infine fu il turno del primo chitarrista: Synyster Gates.
Entrò ammiccando verso le ragazze – nessuna si lamentò, anzi – con la sua leggendaria chitarra a strisce con la scritta SYN.
Dio, se era bello.
Kim mi diede una gomitata fra le costole ridendo. Uff, si vedeva così tanto che avevo un debole per Syn? Dopotutto, chi non aveva un debole per lui? Kim iniziò a urlare “MATT! TI AMO!” come una forsennata, facendo ridere i fan attorno a noi, finché lui – che sembra un armadio a tre ante, da quant’è grosso – non la guardò un po’ sornione, facendole l’occhiolino.
Scoppiai a ridere mentre Kim sbavava (solo metaforicamente per fortuna) verso il suo idolo, con gli occhi a cuore.
Il concerto iniziò.
Io non ci credevo: ero davvero là.
 
Due ore e mezza dopo tutto finì. C’era chi piangeva, chi urlava, chi ancora cantava e chi iniziava di malavoglia a dirigersi verso l’uscita.
Non era finita, però, per me e Kim.
La ragazza mi passò senza farsi vedere da nessuno il pass per il back, ridendo come una pazza.
“You think it’s over but it’s just begun” le dissi eccitata.
Misi il pass nella tracolla, la chiusi ermeticamente mentre lei cantò ancora: “But baby don’t cry! You had my heart!”
Risposi: “At least for the most part...”
“’Cause everybody’s gotta die sometime – yeah”
“We feel apart” cantammo assieme, mentre qualche sconosciuto ci seguiva, chi intonato e chi no, chi con il trucco fin al mento per aver pianto di gioia e chi ancora piangeva, forse anche un po’ per l’amarezza. Noi però eravamo felici: non era finita, no. Era solo l’inizio.
“Let’s make a new start!” urlammo io e Kim mentre la folla pian piano usciva dallo stadio.
Mi sentivo leggera, come se avessi bevuto, ubriaca fradicia di felicità.
“’Cause everybody’s gotte die sometimes – yeah yeah! But baby don’t cry!”
Ridacchiai. “Cazzo.”
Kim bofonchiò: “Cazzo.”
“Merda.”
“Merda.”
“Anche tu ti senti un po’ rincoglionita?” mi informai.
“Ah-a” mi fece l’occhiolino. “Ma in senso buono!” aggiunse mentre ci dirigevamo verso i tre body-guard che sorvegliavano l’entrata al back-stage.
Kim sfoderò quasi con ferreo orgoglio il suo pass e io la imitai, eccitata.
Uno dei tre scimmioni annuì. “Okay, aspettate solo un po’.”
“Perché?” si scandalizzò Kim. “Qui c’è scritto Pass valido per 2 ore dalle 00 alle 02 e ora è già mezzanotte passata!”
Le diedi un leggero spintone, fermando la sua lagna, ma un altro degli armadi ci spalancò la porta, che in quel momento mi sembrò la porta per il Paradiso.
Con un sorrisetto mormorò: “Andate.”
“Ow! Grazie sei proprio figo!” Kim gli stampò un bacio sulla guancia guardando male l’altro uomo che ci aveva detto di aspettare e camminò verso il back. Io tentennai.
Davvero, era difficile credere che fosse vero.
Presi un respiro enorme. Mossi un passo.
“Forza Alaska!” mi incitò Kimberly, già nel back.
“Arrivo.”
Corsi da lei.
Uno dei tre chiuse la porta con un tonfo.
Quel tonfo mi provocò scariche di adrenalina.
Io e Kim ci guardammo in silenzio.
Io mi immersi nei suoi occhi azzurri e lei nei miei neri.
Ci prendemmo le mani. Le guardai. Era una sensazione eccezionale, del tutto differente da quella di quando Matthew, l’amore di Deni, mi aveva stretto la mano.
Io e Kim eravamo nate per essere amiche.
Un sorriso le illuminò il viso. “Come va?” mi domandò.
La domanda non suonò tanto sciocca. Annuii. “E tu?”
“Io sto per morire dall’emozione.”
Sghignazzai.
Ci voltammo verso il corridoio. Era lungo e spazioso, con una manciata di porte per ognuno dei due lati. Su quella più vicina a noi c’era il cartellino Toilet.
Ci incamminammo, percorrendolo tutto fino alla fine.
Matthew Shadows.
Synyster Gates.
Zacky Vengeance.
Arin Ilejay.
Johnny Christ.
Meeting saloon.
Mi mancò il fiato. Su una porta c’era un cartello di carta anziché una targa dorata, scritto a penna, due parole, sei lettere, ma tanto bastò a farmi piangere assieme a Kim.
The Rev.
Kim agì d’impulso, non pensò alle voci di sottofondo che parlavano provenienti dal Meeting saloon, non pensò e basta. Si avvicinò a quella porta maledetta e la spalancò.
Il dolore triplicò quando vedemmo che dentro non c’era nulla. Niente. Neanche un mobile. Zero. Vuoto. Vuoto dentro.
Kimberly singhiozzò.
Entrò nella stanza, prese una penna dalla sua borsa della band e iniziò a scrivere sul muro della stanza.
La lucidità mi tornò di colpo, stavo per rimproverarla quando vidi cos’aveva scritto:
foREVer
 
 
NdA.
Rieccomi, ci ho messo poco vero?
Vi è piaciuto? Vi dico solo che ci ho messo davvero passione a scrivere questo capitolo...
Grazie a chi legge e chi recensisce, è davvero un piacere per me.
Tornando al capitolo, ora Ala e Kim sono nel back, dopo il concerto, cosa pensate che accadrà?
Vi piace Kim?
A presto, grazie ancora,
Lost_it_all
 
Ps. Vi ho messo presto questo capitolo perché l’altro non era proprio sugli A7X e non ho voluto farvi aspettare e annoiare.

 
   
 
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