Scozia
C’erano
Duncan e Lily, i fratelli
McSheon, Coira, il piccolo Sorley, Finn, Rhona e Gormlaith.
Lui – Dalzell – era seduto in mezzo
all’erba alta, fingendo di riposare. In realtà
stava cercando un bel fiore da
donare a Gormlaith – l’aveva fatto altre volte:
bastava passarle accanto mentre
gli altri erano assorti in un gioco e infilarglielo dietro
l’orecchio, o tra i
lacci del vestito.
Si sentiva sfortunato: tutto il
fianco della collina era al sole e gli steli erano tutti dorati, ma non
poteva
tagliare la luce e donargliela. Un giorno, forse, più
grande. Si rigirò il
coltellino tra le mani.
Gli altri erano scesi al fiume e
giocavano a schizzarsi dove l’acqua era più bassa.
Ci
sono sogni che si dimenticano, sogni che spaventano e ingrigiscono
tutto un
giorno, poi c’è quel
sogno che è un
ricordo. Dalzell lo storpio si rigira nel sonno, gemendo, stringendo
con una
mano il mantello bucherellato – se glielo rubassero morirebbe
di freddo, quindi
lo stringe con tanta forza che al mattino, per staccarsi, piange dal
dolore.
Il
Sogno continua, anche se il freddo gli morde il corpo.
Uno
splendido animale scendeva
dalla collina opposta. Aveva le zampe lunghe e forti, il corpo enorme e
muscoloso, un bellissimo e lucido manto nero. Camminava
nell’acqua, davanti a
loro, senza timore, muovendo la coda.
Qualcuno propose di montarlo.
Fergus McSheon andò ad accarezzarlo e quello
chinò la testa: era mansueto.
Sciamarono tutti attorno al cavallo, litigandosi il diritto di montarlo
per
primi. Lui si chinò a raccogliere una giunchiglia, lieto,
poi la tenne in mano
insieme al coltello.
In groppa al cavallo c’erano
Duncan, Fergus McSheon, Rhona, Coira, il piccolo Sorley, Lily, Finn,
Wallace
McSheon e Gormlaith, in quest’ordine. Dalzell si chiese come
potessero tanti
bambini stare in groppa a un cavallo solo, ma Gormlaith si
girò e gli sorrise e
allora anche lui salì.
Piange:
le lacrime si ghiacciano nel guscio delle palpebre, sono dolorose. Per
un
attimo mugola e fa per aprire gli occhi; i cristalli si rompono e il
dolore si
attenua, come se le mani che lo graffiavano fossero sparite.
Capirono
che qualcosa non andava
quando il cavallo nitrì – e fu un nitrito che
somigliava terribilmente a una risata cattiva – e
partì di gran
carriera, sollevando spruzzi di acqua man mano che correva verso monte,
laddove
l’acqua era più fonda e la corrente più
forte.
Duncan
tentò di liberarsi, ma la
sua mano era incollata alla criniera; la mano di Fergus McSheon era
incollata
alla schiena di Duncan; la mano di Rhona era incollata alla schiena di
Fergus;
la mano di Coira era incollata alla schiena di Rhona; la manina di
Sorley era
incollata alla schiena di Coira; la mano di Lily era incollata alla
schiena di
Sorley; la mano di Finn era incollata alla schiena di Lily; la mano di
Wallace
McSheon era incollata alla schiena di Finn; la mano di Gormlaith era
incollata
alla schiena di Wallace; e la sua mano era incollata alla schiena di
Gormlaith.
Nella mano libera aveva ancora la
giunchiglia e il coltellino. Il cavallo nitriva e sbuffava e correva
all’impazzata
verso l’acqua che ribolliva tra le rocce. Piangendo
lasciò cadere il fiore e
strinse forte il manico del coltellino.
Colpì una volta. Due volte. Tre
volte. Arrivò a sette volte e perse il conto: voleva solo
staccarsi prima che
fosse troppo tardi, così continuò a infierire con
la lama sulla giuntura tra il
polso e la mano. Era tutto sporco di sangue e faceva malissimo tagliare
i fili
bianchi dei nervi. Affondò tutto il coltello nella ferita e
andò su e giù con
la mano, su e giù finché non riuscì a
separare le ossa.
Gormlaith gridava e piangeva con il
viso tutto rosso – lo chiamava, ma lui era già
caduto da quella bestia
infernale. Sentì una roccia appuntita contro il ginocchio e
altro dolore, altro
sangue.
Distende
la gamba zoppa sotto il mantello e le ossa scrocchiano, le une sulle
altre, fa
male anche quello – inutilmente, perché poi i
muscoli deboli raggrinziscono e
la gamba torna a piegarsi. Sa che il Sogno è quasi finito,
ma non riesce a
sfruttare il dormiveglia per svegliarsi del tutto.
Gridava
e si stringeva il
moncherino sanguinante nell’altra mano.
Gridava per l’orrore del sangue e
dell’osso spaccato e dei nervi scoperti.
Gridava per il dolore della
scheggia di pietra acuminata in mezzo al ginocchio.
Gridava per la paura e per il
terrore e per il desiderio di essere cieco o di fuggire e per il sangue
che
veniva giù da dove il cavallo nero si era inabissato e per
la giunchiglia rossa
e flaccida e per gli intestini e i cuori piccoli come pugni e i fegati
e tutti
i pezzi che galleggiavano e si urtavano con un rumore molle e viscido.
Venti
anni e diciassette villaggi dopo, Dalzell lo storpio chiede
l’elemosina davanti
alla chiesa. Anche stanotte, pensa tendendo l’unica mano
rattrappita, ha fatto
quel Sogno. Ieri quattro ragazzacci gli hanno lanciato una mezza
pagnotta
ammuffita – che ha mangiato davanti ai loro occhi, senza
batter ciglio davanti
alle loro risate crudeli – e oggi non andrà
meglio.
Poiché
non ha più niente, ha sviluppato un’immaginazione
fervida. Nei giorni freddi e
bui come questo, ad esempio, riesce a evocare Gormlaith –
riesce a vederla, a
immaginarla come una donna, a parlarle nel silenzio della neve. Se per
esempio
le dice “Come stai oggi?”,
lei gli
risponde “Molto meglio, ora che ti
vedo”.
Gli
occhi gli si riempiono di lacrime.
Poiché
Gormlaith non c’è più – forse
c’è ancora il suo teschio in fondo al fiume, che
rotola qui e lì con la corrente e fa clic-cloc
contro i ciottoli – la veste come una dama ricca,
con begli abiti scuri che
fanno risaltare la sua pelle di panna. Le ha allungato i capelli di oro
bruno,
le ha dato ciglia folte e lunghissime. – Ti amo –
dice nell’aria rarefatta – ho
amato solo te, Gormlaith.
Davvero,
se il kelpie non si fosse portato
via
quei nove bambini... o se lui avesse tagliato la mano a lei...
sarebbero cresciuti insieme e si sarebbero sposati. Non è
crudele il desiderio di averti tagliato la mano, dice alla Gormlaith
dei suoi
pensieri, avrei dato qualunque cosa per salvarti.
Piange
per un po’, ignorato da tutti, ma adesso che è
giorno e nessuno può rubargli il
mantello si asciuga le lacrime prima che ghiaccino e feriscano.
–
Fate la carità: un pezzo di pane per Dalzell lo storpio!
Prima
dell’alba, il cielo si annacqua – il nero diventa
verde, e azzurro, e bianco. Dalzell
guarda in alto: la fortezza è stata espugnata. Sulla torre
più alta, a una
delle finestre, penzola il corpo senza vita di una dama; i suoi capelli
dovrebbero essere biondi, ma nella luce dell’aurora sono
grigio argento,
striati di sangue.
–
Ehi, storpio! Sei venuto a combattere anche tu? – lo
apostrofa un soldato
ubriaco – Guarda che la battaglia è finita da ore.
–
Sì, ho visto – replica lui, fissando il fumo che
sale dai resti di una stalla.
Il
soldato tuffa il viso in un secchio ricolmo di acqua piovana e, quando
risolleva
la testa, sembra più sveglio e lucido: – Cosa ci
fai qui, allora? Sul mio
onore, in tanti anni di guerra non ho mai visto un mendicante che
osasse
passare sulle rovine fumanti di una battaglia.
Dalzell
si stringe nelle spalle.
–
Di che clan sei? – continua il soldato, raccattando le sue
cose.
–
Clan? Nessun clan. Mi chiamo Dalzell. Dalzell lo
storpio per gli intimi – risponde con voce piana.
Il
soldato rimane in silenzio. – È piuttosto crudele
come nome – osserva, con una
vaga incertezza. Lui si stringe di nuovo nelle spalle. –
È la verità – osserva.
Alza
ancora lo sguardo per osservare ancora la donna morta alla finestra:
ora vede
meglio anche le sue mani, abbandonate sulla pietra. Il soldato segue i
suoi
occhi e commenta: – Scommetto che non hai mai visto nulla del
genere.
–
In realtà ho visto di peggio.
Riprende
la via delle colline, verso Sud, piegato sotto il mantello. Il mattino
è
limpido, lavato dalla pioggia; una nuvola sfilacciata gli sorride
ironica,
prima di essere dispersa dalla brezza.
Dalle
parti di Edinburgh incontra un kelpie.
Non
è – di certo – quello che ha ucciso
Duncan, Lily, i McSheon, Rhona... e tutti gli
altri. C’è molta acqua in
Scozia, molti demoni per tutta quell’acqua. Tutto
ciò che sa, quando vede quell’uomo
alto, bello e distinto, è che si tratta di un kelpie.
Potrei ucciderlo,
si dice, potrei. Ne sono in grado.
È
molto giovane – Gormlaith dice “senza
tempo” e svanisce nella foschia – con la
pelle chiara, le ossa fini. I suoi
occhi sono verdeazzurri, i suoi capelli – lo sa grazie al
vento che soffia –
sono molto leggeri.
–
Io so chi sei – dice con rabbia – so cosa
sei.
Ha
i capelli neri, l’uomo-kelpie,
ma non
si cura di ripararsi dal vento – è così
che lui, Dalzell, ha visto le alghe che
gli crescono sulla pelle, le erbe lacustri verdi tra il nero. Infila la
mano
sotto le vesti, in una tasca segreta a contatto con la pelle.
Tira
fuori il coltello, la lama rivestita d’argento è
macchiata e ossidata, ma non
importa.
Con
gli occhi vede l’uomo-kelpie
a pochi
passi, longilineo e sicuro di sé, ma l’immagine si
deforma sulla strada per il
cervello.
Ed
è ancora un bambino, con il sole che splende come oro su di
lui e sul prato...
Colpì
una volta. Due volte. Tre
volte. Arrivò a sette volte e perse il conto.
Venti
anni e diciassette villaggi dopo il kelpie,
Dalzell lo storpio decide di aver vissuto abbastanza. Si lascia alle
spalle un
cavallo sgozzato, il proprio mantello e Gormlaith, che non è
più una dama, ma una
bambina radiosa che gli prende le mani – tutte
e due – e lo guida verso il cielo.
–
Ho perso il coltello – dice lui con un lieve dolore al petto,
ma Gormlaith
scuote la testa.
–
Forse non era così importante.
Note
dell’autore:
Sì,
be’, uh. Questa ossessione per vendetta/rimpianto/nostalgia
è un
po’ strana.
Foto
da weheartit,
il kelpie
è un demone acquatico
scozzese – nel caso non si fosse capito.