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Autore: SunriseNina    07/07/2014    3 recensioni
Tra lui e Riou scorreva una terribile mescolanza di complicità, casualità, finzione e incomprensibili –o solamente inesprimibili?- emozioni.
La necessità di ucciderlo si faceva sempre più pressante.

Anno 1788, Parigi. Monarchia di Luigi XVI.
Il destino di Light Dieunuit subisce una svolta improvvisa, quando entra in possesso del terribile dono di un misterioso discepolo del dio azteco Xolotl. Borghese rivoluzionario, capisce immediatamente come sfruttare il potere di decretar la morte per le persone a suo piacimento.
La città di Parigi è scossa dalle morti di numerosi funzionari regi e nobili altolocati: il Re scatena contro questo assassino amico della rivoluzione un investigatore dalle capacità straordinarie perché indaghi sulla serie di morti.
Tumulti, ribellioni, proteste: in questo scenario pittoresco e settecentesco un amore tormentato unirà un'improbabile coppia di giovani uomini, sconvolgendo e intersecando le loro vite per sempre.
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: L, Light/Raito, Misa Amane, Soichiro Yagami | Coppie: L/Light
Note: AU, Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il sole giudicava la scena con ardente potenza, unico spettatore di quell’ultimo duello.
I due ragazzi erano uno davanti all’altro, ritti su quella forca come su un palcoscenico senza pubblico. In mezzo a loro vi era un cappio vuoto e immobile, sormontato dall’impalcatura lignea della forca.
Light prese la ruvida corda e, senza staccar gli occhi da Riou, si fece passare il laccio intorno al collo, pronto per l’impiccagione.
Eler fece un passo repentino verso di lui, afferrò la fune sopra la sua testa e la tirò: essa cadde srotolandosi molle in terra, mostrando l’altro capo sciolto. Light fissò il serpente di corda ai suoi piedi, la mano ancora appoggiata al cappio largo e inutile che portava al collo, poi guardò il volto inespressivo di Eler: su quella maschera di pallore, dopo alcuni secondi, si formò un sorriso. Contraccambiò.
 
Non vi era stato alcun vincitore.
Oppure lo erano stati entrambi.
 
 
 
 
 
 
 
Voci e scalpiccii salivano dalla strada insieme a una piacevole brezza fresca che rigenerava l’ambiente immobile della piccola stanza.
Light si stropicciò gli occhi con poco vigore: sentiva il corpo indebolito fin nella punta delle dita, un diffuso torpore senza un fuoco di dolore preciso. La febbre era sì calata dai giorni precedenti, ma l’idea di vestirsi decentemente e scendere in strada era ancora lontana dalla realtà.
Alcuni timidi colpi alla porta di legno. Light non si sforzò nemmeno di dire “avanti”: a quell’ora del mattino aveva sempre un unico visitatore fisso ed egli sapeva bene di non aver bisogno del permesso di entrare. Anzi, la vista della sua figura sull’uscio era spesso l’unico motivo per cui Light si ostinava a svegliarsi e a resistere alla febbre. Per cui si ostinava a vivere.
Eler entrò a passi lenti nella stanza. Indossava abiti di cotone leggero, dai colori tenui; se non fosse stato per alcuni tratti del viso, sarebbe sembrato un abitante del luogo. Niente a che vedere con lo stile francese, ma erano piacevolmente nuovi e puliti e gli conferivano un’aira particolarmente sana e riposata. A Light sembrò quasi che le sue profonde occhiaie fossero diminuite, ma probabilmente era una questione di abitudine: più è il tempo che si passa con una persona, più queste sottigliezze perdono la loro stranezza e si uniscono all’ordinario. Il suo modo strano di parlare, la scompostezza nel sedersi: quanti particolari che ormai sentiva esser parte della sua quotidianità. Della loro quotidianità.
Questo pensiero lo fece crollare in un lago di tristezza, ma non mostrò all’altro che vi stava affogando: in quelle visite c’era un equilibrio da rispettare, un tacito patto sancito dalla loro compostezza e dal silenzio che invadeva la camera da letto di Light.
Si chiuse le mani sul petto, cercando di reprimere quell’aspra consapevolezza: non c’era più una loro quotidianità. C’erano solo quelle visite giornaliere placide, monocorde, brevi; e poi il silenzio, un oceano di silenzio che invadeva ogni pertugio, dilatava dolorosamente ogni secondo.
Eler lo aiutò a sedersi, mettendogli due cuscini dietro la schiena; gli reclinò la testa con la mano, la toccò per carpire la temperatura corporea, poi vi stese un lembo di stoffa imbevuto d’acqua. Un paio di gocce scivolarono lungo le tempie del ragazzo, facendo le veci delle lacrime che stava trattenendo.
Erano a Livorno da quasi due settimane: la malattia era subentrata dal secondo giorno di viaggio, iniziando con leggeri malesseri scambiati facilmente per i soliti disagi da persona di terra su una barca. Provvidenzialmente, Eler aveva capito prima degli altri, forse prima ancora di Light stesso, da cosa fosse provocata la malattia di Light.
«Devo pulire il braccio.»
Gli occhi del malato guardarono quelli di Riou con aria supplichevole; sembravano mormorare: "Devi proprio? Ti prego, non farlo. Lo farò io quando tu te ne sarai andato."
«Meglio se lo faccio io.» lo disse e basta, senza dare alla propria voce un tono severo né mellifluo o tanto meno scocciato: la semplice, oggettiva verità.
Light cercò di non scomporsi ulteriormente e allungò l'avambraccio sinistro: un taglio profondo e scabroso si allungava in un alternarsi di grumi di sangue e minuscoli lembi di carne viva, dove era stata rimossa l'infezione. L'aspetto, per quanto poco apprezzabile, era ormai decisamente migliore della crosta dolorosa e giallastra che gli si era formata durante il viaggio. Avrebbe dovuto aspettare, avrebbe dovuto riprendersi invece di partire debole e con quei maledetti tagli ancora esposti e potenzialmente pericolosi: ma non aveva osato tirarsi indietro. Sapeva che Eler sarebbe partito con quella nave e seguirlo avrebbe rimandato una questione che Light non avrebbe mai voluto affrontare: cosa ne sarebbe stato di loro insieme?
«Come va l'altro?»
Light continuò a tenere premuto il braccio interessato sul lenzuolo: «Bene. Erano superficiali e si sono rimarginati bene.» aspettò qualche secondo, passandosi la lingua sulle labbra «Si vedono, ma non molto. Non sono troppo in contrasto con il resto della... della pelle.»
Eler annuì con serietà, come un medico professionista che ascolta con interesse puramente professionale una diagnosi positiva. Effettivamente in quei giorni era la parte che stava recitando: arrivava ogni mattina con impacchi di lavandula per i tagli, garze imbevute di un qualche intruglio disinfettante di aglio dall'odore insopportabile, boccette -probabilmente costose-  di olio di elicrisio con cui gli ungeva delicatamente la pelle lacerata. Light non osava chiedergli nulla, a volte aveva a malapena il coraggio di aprir bocca per ringraziarlo.
Aveva confessato. Ovviamente aveva omesso tutto quello che nei suoi ricordi riguardasse quel malefico quaderno e il volto scavato del sacerdote, sempre che tutto ciò fosse davvero esistito e non fosse stata solo una proiezione della sua mente. A quel punto, pensava che qualsiasi cosa fosse possibile. Una sola cosa era certa, ed era ciò che gli aveva detto quando aveva ripreso conoscenza: era lui il meurtrier, l'assassino che avevano disperatamente cercato insieme, il boia della Giustizia Divina, il marionettista di cui nessuno conosceva il volto ma solo l'operato, il nome sussurrato con ammirazione tra coloro che volevano la rivolta e con paura tra i nobili e i facoltosi dalla coscienza non limpida.
Non aveva sprecato molte parole su tutto il resto. Non sapeva cosa dire, come spiegarsi. Come avrebbe potuto l'altro comprendere quelle due anime diverse che erano cresciute in un solo corpo, rigogliosi rampicanti su di un solo muro, intrecciandosi e fronteggiandosi ma coesistendo sempre, in ogni momento? Questo era quello che Eler vedeva. Non gli aveva nemmeno provato ad accennare dell'amnesia: non gli avrebbe creduto. E in fondo al proprio animo Light sapeva che non era una scusa credibile neanche per se stesso: aveva dimenticato, sì, ma non era forse dalla stessa radice che quei desideri si erano evoluti? Non aveva comunque covato i suoi ideali, i suoi rancori, e quel malcelato senso di comunanza agli orgogliosi idealisti che avevano approvato il suo operato da assassino?
Aveva ucciso tante persone e quel che era più tremendo e insopportabile era che, a mente lucida, si rendeva conto di esserne capace. Ne coglieva la plausibilità. E non solo lui.
Alla fine, come in qualsiasi altra questione, Riou aveva avuto le giuste impressioni e deduzioni: che scherzo orribile per lui da parte del destino, l'avere sempre ragione!
«Hai per caso sentito il signor Mugnai in questi giorni?»
Eler annuì: «Ieri mattina. Un anticipo del primo pagamento del mio locale.»
Già, il suo locale. Non più il loro. Niente era più loro.
«Devo dirgli che mi sto sentendo meglio e presto potrò lavorare per Zekharia...»
Eler sembrò rigirare delle parole tra le labbra, poi mormorò: «Non c'è bisogno che tu lo faccia.»
Light rimase stupito, ma ribattè debolmente: «Gli avevo promesso di pagare subito per la disponibilità a darci... darmi... questi appartamenti. Conosce bene Zekharia e saprà quanto guadagnerò con lui, voglio solo rassicurarlo...»
«Non devi pagargli questi giorni.» disse Eler con tono fermo «L'ho già fatto io.»
Il silenzio della stanza cambiò, come se la brezza avesse invertito improvvisamente direzione, rimescolando l'aria della stanza in modo completamente opposto.
Il suo labbro inferiore tremò leggermente. Voleva dire qualcosa che fosse all’altezza della situazione, o che quanto meno fosse ad essa coerente. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo in lui, cosa significasse quel gesto. Eler continuava a guardarlo con i suoi occhi scuri, enormi, meravigliosi, che non lasciavano trasparire nulla che lo aiutasse a far chiarezza.
«Perché?» balbettò.
Al che Eler, con un vago sorriso irrisorio, disse una frase che Light non si sarebbe mai aspettato: «Secondo te?»
Era una domanda retorica. Voleva che lo fosse. Light però non riusciva a trovare il collegamento di pura ovvietà che avrebbe collegato quella falsa domanda alla realtà dei fatti.
«Io... io non lo so.»
Light abbassò lo sguardo come disorientato. Gli occhi gli si inumidirono senza che potesse fermarli: le lacrime iniziarono a scendere sempre più copiose lungo le sue guance, trascinando con sé quel sentimento inesprimibile di dolore e arrendevolezza al destino.
«Non mi merito pietà, Eler.»
«Hai ragione. Ma non è quel che ti sto offrendo.»
«E allora cosa?»
Eler si sedette accanto a lui sul letto: «Forse la mia stupidità, dato che sto facendo per la seconda volta lo stesso errore.»
Sentiva il suo profumo insieme a quello, più forte, degli olii con cui lo aveva medicato. I suoi capelli corvini gli cadevano in ciocche disordinate sulle tempie e alcune sulla fronte.
Light cercò timidamente la sua mano sul lenzuolo, e la strinse con il palmo tremante: «E lo è davvero? Cioè, è davvero un errore?»
Eler fece un pacato e sincero sorriso: «In realtà non lo so. Ma anche se lo fosse, ora non mi interessa.»
Light continuava a piangere, ma ora il rivolo di lacrime accarezzava un sorriso stremato: «Posso baciarti?»
Eler annuì. Le loro labbra si sfiorarono debolmente e per pochi secondi, il tepore abbandonò velocemente le labbra screpolate di Light. Ma non importava. Era un inizio. Lo leggeva negli occhi che aveva davanti e sentiva quella consapevolezza pulsargli nel petto e ridargli vita.
Era il primo giorno di agosto del 1789 e quello era un nuovo inizio.
 












 



Parigi, 27 febbraio 1820
"Cara madre, amata madre,
è così strano scriverti queste righe. La mia mano ha tremato, scritto e cancellato per fogli e fogli interi, il mio cuore ha vacillato; ma non posso, non posso permettermi di perdere quest’occasione di scriverti dopo anni. A darmi aiuto per scoprire dove vivessi e contattarti è stato –guarda come la sorte talvolta riesce a stupirci!- il cameriere dell’ormai defunta famiglia dei Blanc-Lemaire. Mi ha riconosciuto quasi subito, incontrandomi quasi per caso in uno dei pochi e fatiscenti luoghi di ritrovo di Parigi. Che gioia scoprire che eri viva, che gioia immensa! Ho pianto come un neonato alla notizia, nonostante io abbia superato da un po’ i cinquant’anni. Non riesco a immaginarti, madre, invecchiata: pensandoti ricordo un viso ovale, segnato vagamente dal tempo, e i tuoi neri capelli che ormai saranno candidi. Suppongo che nemmeno tu riusciresti a credermi o immaginarmi se ti dicessi che anche io ormai ho i capelli che vanno ingrigendosi, ma è così. Non allarmarti troppo: del viso ventenne che tu ricordi è rimasto ancora molto, sotto questi tratti adulti. Sì, madre, sono nuovamente a Parigi, ma non ci vivo, nonostante la mia permanenza abbia ormai superato il mese pieno: mi manca la mia casa, la mia patria, la dimora che ho condiviso in tutti questi anni con il mio unico amore.
Ho passato queste ultime settimane alla ricerca di ogni vecchio amico o conoscente, sforzando la memoria a ricordarsi ogni cognome e nome. Ho saputo della morte di Mélisande, di cui probabilmente non sei al corrente: è successo cinque anni fa, per il secondo parto. Me ne sono rammaricato: anche se non l'ho mai amata e a volte a stento sopportata, era una brava ragazza dal buon cuore. Sono contento che sia comunque riuscita a maritarsi presto e a vivere in Spagna come sperava.
Meno dispiaciuto lo sono stato sicuramente per la fine di Theo Maxime. Lo hai conosciuto poco, ma ricordo che nemmeno tu lo apprezzavi molto. Io sono arrivato nel corso degli anni a detestarlo. Era prevedibile che con il suo spirito inquieto e infido si cacciasse in uno di quei maledetti gruppi faziosi, giacobini o foglianti o come hanno preferito farsi chiamare prima di Bonaparte.
So che tu e mio padre avete ricevuto la prima lettera che vi ho mandato, anni e anni fa. Non è stata l’unica, ma delle restanti ho ormai la quasi totale certezza che nemmeno una carta vi sia giunta: erano tutte indirizzate a un padre che non sapevo fosse morto. Ho temuto subito che fosse colpa mia, quando l’ho saputo: ma mi è stato prontamente riferito, e da più persone, il fervore con cui è morto durante la presa del palazzo delle Tuileries. Non avrei approvato la sua adesione alla protezione del Re, ma era un uomo d’onore e fedele fin nelle ossa. Ho avuto un padre degno d’ammirazione e ho tenuto tantissimo a lui e ai suoi insegnamenti. Nell’anno in cui questo accadeva, nel 1793, io ed Eler abbiamo comprato quella che è attualmente la mia modesta abitazione: mi piacerebbe molto mostrartela, ma dubito che un viaggio da Londra fino in Toscana sarebbe adatto a una persona che, con tutto il rispetto dovuto, ha raggiunto ormai la tua età. In ogni caso, ti piacerebbe: è immersa tra i campi coltivati e i boschi che circondano il lago di Santa Luce. Siamo lontani dai centri abitati ed è relativamente scomodo da raggiungere, ma l’abbiamo comprata provvidenzialmente: l’anno in cui abbiamo abbandonato Livorno la città era minacciata dall’Inghilterra ed è stata invasa dalle truppe napoleoniche di lì a poco. L’isolamento ci ha aiutato ad evitare gli scontri e inoltre, specie con il passare degli anni, la vita solitaria e contemplativa si è dimostrata la più adatta a me e Riou. La casa era una cascina e quindi tale era la forma, con due piani stretti a ferro di cavallo intorno a un cortiletto interno: vi abbiamo tenuto un recinto di pollame per un po', allevandoli per piacere personale.
Vivevamo soli all'inizio, poi siamo riusciti ad assumere una massaia, un giardiniere e da un po’ di anni anche alcuni contadini che coltivino gli appezzamenti di terra che abbiamo acquistato nel tempo: l'attività notarile ha portato grandi profitti al nostro focolare, oltre che grandi soddisfazioni a me, ma anche questa piccola esperienza di piccoli proprietari è stata gratificante.
Eler ha fatto molti mestieri da persona eclettica quale era, ma da quando siamo partiti da Toulon (come vi raccontai nella mia lettera) la cartografia si è impossessata del suo cuore e lo ha impegnato fino alla fine dei suoi giorni. E qui il motivo per il quale sono in Francia e per cui vi sto scrivendo –un motivo che ancora mi tormenta i sogni e l’animo- : Eler se ne è andato poco meno di un anno fa. È stata una malattia improvvisa ma decisamente lenta nel suo sviluppo: lo ha legato al letto per tre mesi. Mentre era costretto all’immobilità gli ho letto tanti libri –ha apprezzato in particolare le raccolte di poesie di Marino-, ho anche suonato qualcosa per lui con il violino (sono diventato discretamente bravo in questi anni). Nonostante il morbo che gli divorava i polmoni è morto felice e accanto a me. Mi ha chiesto, in tutto il suo pragmatismo, di prender moglie; dubito però di riuscire a soddisfare questa sua ultima richiesta. Mi ha spinto lui a partire, quando ormai sentiva la morte vicina: ho resistito allora e anche dopo la sua morte, per molto; il mio cuore però non ha retto e un mese fa mi sono convinto a seguire il consiglio. Tra noi due finisce sempre così, sai? Ribatto quanto voglio, ma vince immancabilmente lui.
Mi ha amato tanto, madre.
Ha avuto solo me e io solo lui, in tutta la nostra vita.
Scrivo questo non solo per riuscire ad elaborare il mio lutto –non ho potuto infatti confessare questi particolari se non a voi- ma soprattutto perché vi è un solo motivo se ho potuto vivere i trent'anni più intensi e belli che potessi desiderare: quella sera, quell'ultima sera, madre, mi dicesti che, se non avessi seguito l’amore quella volta, sarei morto senza averlo fatto. E avevate ragione: l’amore non è per sempre, ma è di sicuro la cosa più bella di questo precario mondo.
Ti sto ringraziando dal profondo del mio cuore, madre.
Forse non potrai capirmi. Forse non vorrai. Voglio solo che tu non ti penta e non ti tormenti: dopo quella scelta, sono stato felice. Immensamente felice. Spero che questo, nel grande amore materno che so che hai serbato per me in questi anni, ti consoli e ti renda contenta per me.
Resterò qui fino alla tua risposta a questa missiva: voglio sapere se desideri incontrarmi. Io, dal canto mio, lo desidero ardentemente.
In questi anni bui e tormentati in cui stiamo vivendo, l’affetto delle persone è forse tutto quello che ci resta.
Forse è l’unica cosa che ci rende ancora esseri umani.

Tuo figlio Light."












Note Autrice.

Ammetto che, arrivata a questo punto, è strano pensare di aver davvero concluso questa fanfiction, iniziata a settembre dell'anno scorso. Mi ha impegnato molto e mi è molto piaciuto scriverla: mi sono ripromessa di portarla a termine prima di iniziare a scrivere racconti miei che non fossero fanfiction per inseguire il mio sogno di essere scrittrice, e così ho fatto.
Non so esattamente cosa dire; spero innanzitutto che sia piaciuta a tutti quelli che l'hanno letta e che la leggeranno. Ringrazio le persone che hanno recensito e messo la storia tra i preferiti/seguiti/ricordati e che lo faranno. In particolare ringrazio ancora Mirella__, Scintilla19 e Aras13 per le recensioni e il ... coraggio di seguire fino in fondo la mia storia.
Questa storia la devo (e quindi la dedico) ai vostri continui incoraggiamenti e complimenti, meritati e non.

au revoir!

Nina.
   
 
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