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Autore: insiemete    08/07/2014    1 recensioni
Jennifer
è una ragazzina di sedici anni, ha appena cambiato città con sua madre,
per trasferirsi dalla grande Detroit alla piccolissima cittadina di
Bitter Springs (AZ).
Ma a Bitter Springs avvengono fatti strani, che solo una dolorosa
scomparsa, li portano alla luce.
Il mondo non sarà mai un posto sicuro.
Genere: Fantasy, Horror, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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It's coming, it's coming now!
It's coming, it's coming now!
What's coming? What's coming now?
What's coming? What's coming now?
It's coming from the sky
It's coming from the wind
- We own the sky
M83



9.










"Signorina, signorina si sente bene? E' svenuta" disse l'infermiere che mi trovavo davanti.
Ero distesa sopra ad una barella, lasciata in mezzo al grande corridoio dell'ospedale; a fianco si trovava Jonathan, aveva una espressione delusa e preoccupata.
"Sì sto bene, la ringrazio" risposi, abbozzando un leggerissimo finto sorriso.
L'uomo se ne andò facendo un semplice saluto con il capo e spostai lo sguardo verso il ragazzo, con la stessa espressione.
"Non serve che fingi con me, continui a stare male Jennifer, ti serve aiuto" ammise avvicinandosi e stringendomi la mano tra le sue.
"E da chi? Da te? Io sto bene e non ho bisogno dell'aiuto di nessuno" sputai inviperita.
Sapevo badare a me stessa, non ero più una bambina e non serviva che uno pseudo-poliziotto mi venisse a fare la predica.
"Senti: io cerco di fare il carino fin quanto mi è possibile con te, ma tu... tu non vuoi proprio essere un pochino meno acida" avanzò sottolineando la parola "acida".
Mi dava molto fastidio quando qualcuno mi diceva di stare calma, questo non faceva altro che innervosirmi di più.
"Lasciami sola" gridai.
Jonathan capì per bene le mie parole e mi lasciò, aveva uno sguardo sconfitto e amareggiato; in fondo in fondo mi dispiaceva vederlo così, perchè tutto sommato lui voleva solamente aiutarmi.

Quella sera ritornai a casa, non era la mia, e nemmeno di quella di Sam, ma un ostello a Page.
"Ti senti bene? Non hai toccato cibo" disse la madre della mia migliore amica.
"Non preoccuparti, sto benone. Ho solo un forte mal di testa" ammisi guardando fuori dalla finestra.
La donna se ne andò, lasciandomi ammirare quell'ex paradiso sotto i miei occhi.
AL FUOCO, AL FUOCOO. Le parole mi rimbonbavano nella mente e io non feci altro che piangere.
Ricordavo tutto di quella notte, la peggiore della mia vita.
Ricordai della corsa verso un riparo, delle ustioni lasciate sulla mia pelle, di Jonathan che mi aveva salvato la vita.
Già, mi aveva salvata e si era reso un buon amico con me, ed io ovviamente avevo rovinato tutto.
Il mio pianto diventò più 
insistente: lo avevo perso, mi ripetei.
Avevo creato questa barriera tra di noi, nata da non si sapeva cosa, e l'avevo lasciato andare.
Ero io la causa. E questo mi deprimeva ancora di più.
Presi il cellulare e composi il suo numero, volevo parlargli al momento, non potevo aspettare.
Squillò, finchè una voce profonda e maledettamente suadente mi rispose.
"Jonathan, volevo parlarti di quello che è successo poco fa, io volevo..." non finii il discorso che la sua voce mi superò.
"Abbiamo trovato l'auto di tua madre" disse frettolosamente.
"Cosa?" domandai in preda al panico.
"Non mi hai lasciato finire. Abbiamo trovato l'auto, vuota. Mi dispiace Jennifer, ma di tua madre non ne è rimasta l'ombra. Mio padre e altri agenti hanno pattugliato la zona e hanno contattato i dipartimenti vicini per notizie. Hanno anche chiamato i dipartimenti dello Utah" si fermò "e dobbiamo comunicarti che...".
"Che..." lo incitai frustrata.
"Che tua madre è dispersa, questa non è più una situazione di salvataggio, è passata a operazione di ricerca e recupero. Le operazioni di soccorso sono state sospese, mi dispiace" finì.
Le lacrime si impossessarono di me, e un pianto triste e anche liberatorio si fece largo.
Gridai, non pensavo d'avere tutta quella voce in quel momento, sempre più forte.
Presi i cuscini dal letto e li gettai in giro, camminai lungo la stanza nervosamente.
Provavo così tanto dolore che nemmeno una pistola nel mio petto era paragonabile.
Basta, ero stanca.
Chiusi sbattendo la porta e mi diressi in quella specie di caserma dentro il bosco.
"Voglio parlare con l'agente Clark, grazie" dissi sbattendo violentemente una mano sul bancone della reception della caserma.
"La prego di calmarsi, signorina. Se vuole parlar con il colonnello Clark deve avere un appuntamento, se vuole glielo prenoto ora. Che giorno le può andare bene?" parlò senza mai fissarmi in faccia, mentre pigiava dei tasti.
"Mi ascolti bene, io ho il diritto di parlargli in questo preciso istante. E' davvero importante" urlai.
La donna sussultò e mi guardò sconvolta.
Sbuffai, e mi diressi verso un lungo corridoio che portava a diversi uffici singoli.
Clark, notai la scritta e aprii la porta.
"Jen, che ci fai qui?" domandò.
"Dov'è tuo padre?" tagliai corto.
"In questo momento è fuori, che ci fai te qui?" chiese.
"Lo sai più che bene il perchè. Tra quanto torna?" domandai sbuffando, ero tesa, molto.
"Ti prego calmati, vieni" mi indicò una poltroncina "siediti qua e riposati, vuoi qualcosa da bere?" mi disse.
"Voglio parlare con tuo padre" sbuffai.
Il ragazzo sorrise mentre continuava a fissarmi. I suoi occhi glaciali mi perforavano dentro, come se potessero capire tutto quello che sentivo, come se potessero sentire la mia paura; e questo non aiutava.
Era strano ma, quando mi guardava, sentivo una velocissima scossa che mi percorreva tutto il corpo.
"Perchè continui a fissarmi?" domandai con un po' di imbarazzo.
"Hai le guance tutte rosse, sai" ammise sorridendo beffardamente, per poi allungare una mano e accarezzarmi delicatamente la mia bollente pelle.

"Sai, ho una madre dispersa non si sà dove, non ho un padre, a Bitter Springs accadono fatti strani e, in questo periodo, non mi sento molto bene. Penso sia normale" dissi.
Portai le ginocchia al petto e mi accasciai contro la poltroncina di velluto, posai il viso all'interno delle ginocchia e lasciai che delle calde lacrime invasero il mio pallido viso.
Sentivo lo sguardo glaciale e profondo di Jonathan; pregavo mentalmente che Clark arrivasse in quel momento.
Ma il tempo passò, erano le dieci e mezza passate e ancora non era rientrato.
"Jen, è meglio che tu vada a casa; mio padre è rimasto coinvolto in un intervento. Tornerà tardi, molto tardi" disse, posando il cellulare.
"Non posso, io devo parlargli" mi avvicinai al ragazzo, puntandogli un dito contro "devo sapere cos'è successo a mia madre. Devo sapere, ti prego, fammi restare".
Jonathan continuò a fissarmi senza proferire parola, il suo sguardo era deciso e pesante, ed era come se mi bruciasse direttamente la pelle. Jonathan allungò una mano, mi scostò le lunghe ciocche castane dal viso e, con il pollice, mi asciugò le lacrime che scendevano rigorosamente lungo la guancia.
"Ti prego, calmati. Sò che ci stai male, ma saprai tutto molto presto, ora è tardi, è meglio che tu vada a dormire" disse, tirandomi verso di sè per un dolce abbraccio.
"Grazie, ma te l'ho già detto: voglio aspettare tuo padre, devo saperlo e subito" risposi.
L'attesa era frustrante per me, i minuti non passavano mai e quelle ore passate nell'ufficio sembravano delle infernali ore. E poi c'era lui, che continuava a confortarmi in tutte le maniere possibili, ricordo che mi aveva abbracciata e che mi disse delle parole che apprezzai con tutta me stessa. Stava cercando di calmarmi, in tutti i modi, ma io non ci riuscivo.
La rabbia si impadronì di me, urlai e cominciai a camminare disorientata per la stanza. Jonathan mi si avvicinò, cercando altre dolci parole, ma io lo spostai bruscamente, andandoci a sbattere. Mi pregava di calmarmi, di sedermi e di aspettare ancora un po'. Mi ripropose anche di tornare a casa.
Ma non ci dovevo, non ci potevo tornare.
Dovevo sapere la verità, e quando prendevo la mia decisione, era molto difficile sdeviarmi da quella meta.
Pregai fin quanto potevo, pregavo che mia madre fosse solamente nascosta in qualche posto o, che magari, stesse tornando a casa.
Ma in che modo, poi? L'avrebbero trovata se fosse a piedi/bici/autobus o con semplicemente una persona, avrà sentito i telegiornali.
Provai a convincermi delle mie parole, tanto sapevo che non poteva essere così.
"Riesco a capire la tua rabbia, ma non ottieni nulla gridando. Tua madre sicuramente vuole che tu sia forte, per lei, per tutto. Non devi abbatterti, devi continuare a sperare. Lei è qui, con te" disse.
"Lo vuoi capire? Lei non si sà dove si trovi, può essere stata rapita oppure può essere morta. Su cosa dovrei sperare, io? Su una persona che forse non tornerà più indietro? Su una madre che non riabbraccerà più sua figlia? Su una madre che non esiste più, oramai?" chiesi.
Ero intontita, mi girava la testa, e avevo un dolore maledettamente forte che percorreva tutta me. Odiavo quella sensazione, e odiavo sentirmi così... indifesa e sola.
"Non ho più nessuno" sussurrai guardando basso.
"No! Non dire questo. Ci sono persone che ci tengono a te, c'è Sam, c'è Frank, c'è Christian e... ci sono io" disse.
Nel mio volto comparve un leggerissimo sorriso, che poi, una lacrima portò via.
"Grazie" sospirai, per poi stringerlo a me.
Sì, lo avevo abbracciato, di mia spontanea volontà. Non era mai successo, in quel periodo avevo solo odio e paura dentro.
Mi staccai a malavoglia dal ragazzo, quando sentimmo un fortissimo rumore provenire da fuori, e poi... buio!
Buio, era saltata la corrente.
Che cosa stava succedendo?
Gridai.





Ciao ragazzi,
volevo comunicarvi che penso di smetterla di scrivere.
Sarei felice di qualche recensione, cosa improbabile.

  
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