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Autore: marani    10/07/2014    0 recensioni
Questa è una storia 'tosta'. Quelle che ho pubblicato precedentemente sono schizzi, appunti, embrioni di trama in confronto. Ed è una storia tipicamente mia. Gli elementi ci sono tutti: dei legami, una perdita, la ricerca della serenità, le 'catene' del dolore, il passato. E naturalmente, immancabile, il 'tocco di magia'. Sarà un lungo viaggio, per chi deciderà di incamminarcisi, ma credo che alla fine vorrete bene anche voi ai personaggi della storia. Solo due precisazioni tecniche: la numerazione dei capitoli del sito non coincide con quelli della storia. Ma non è un problema. E 'Faliva', nel mio dialetto, curiosamente connota sia i fiocchi di neve che le scintille che si liberano dalla legna del camino. Curiosamente? Uhm, forse no. Forse sono solo due lati dello stesso aspetto. Della vita. Buon viaggio.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3_

Teresa Angeli allungò una mano per sollevare la cornetta del telefono, mentre con l’altra si af­frettava ad attenuare il volume dello stereo. Il cd in funzione era una nutrita ed esauriente scelta di canzoni natalizie, dalle più tradizionali e conosciute ad altre che lei non aveva mai sentito, tutte interpretate da big del panorama musicale internazionale. In quel momento Ri­chi Martin, supportato da una chiassosa band sudamericana, stava allegramente gorgheggiando su ay, ay, ay, feliz Navidad e cose del genere. Teresa, con tutto il rispetto, trovava che non tutti i generi musicali fossero adatti alle atmosfere natalizie, e quella spensierata versione mariachi o simil-chicano, più indicata per una fiesta caliente a piedi nudi e margaritas, le confermava la propria opinione.
- Sì, pronto? - rispose, mentre dentro di lei qualcosa temeva (o auspicava, e non sarebbe riu­sci­ta a scindere le due contrastanti sensazioni) che qualcuno dei suoi imminenti ospiti stesse per dare forfait.
- Ah… sì, ciao, Tere… sono io - una voce bassa, un po’ fioca. C’era solo una persona al mondo che la chiamava in quel modo, tutti gli altri, amici o colleghi che fossero, usavano il più scontato Terry
(che a dirsela in confidenza non la entusiasmava, ma ormai…)
Quasi tutti gli altri, azzardò un insensibile pensiero cogliendola a tradimento
(Questa, e lo sai, non è affatto una puntualizzazione fondamentale, anzi...)
(Perché no?)
Suo marito Carlo la chiamava anche in un altro modo. Solo qualche volta, beninteso, e in ogni caso NON quando tra di loro era in corso un’accesa discussione, ad esempio, nè tantomeno quando lui voleva farsi perdonare qualche scontata troiata tipicamente maschile, paludata da innocente marachella. Lui la chiamava Terrina.
(Lo sai che sei la mia Terrina preferita, vero?
Sì, di fagioli con la cipolla
E giù risate)
(Da spanciarsi, no? Soprattutto adesso...)
Mi chiamava così. Non sempre. L’ho già detto. Diciamo quando le cose tra noi andavano alla grande. Ed era buona parte del tempo, grazie al Cielo.
O nei momenti di tenerezza
(ora comincia a fare male)
(che ti avevo detto, io ?)
La donna strinse con forza le labbra, per attenuare un’improvviso e incontrollabile formicolìo sul bordo delle palpebre. Tornando a noi, aveva la discutibile fortuna di essere “nomata” in ben tre modi diversi, tutti ugualmente creativi. Terrina per lui, Terry per il resto del mon­do. E Tere dalla persona che l’aveva chiamata in quel momento:
- Papà… cavoli… dove diavolo sei finito? - sbottò, confortata da una lieve sensazione di sollievo che stemperava l’iniziale impulso aggressivo - è da prima di pranzo che cerco di met­ter­mi in contatto con te… ma perché non hai attaccato il telefonino? -
L’uomo all’altro capo del telefono borbottò qualcosa di intelleggibile:
- No, è che… non capisco… si dev’essere guastato, non mi resta acceso… - spiegò poi.
- Guastato?!? Un’altra volta? - sbottò Teresa - ma se l’hai appena ritirato dal… non è che per ca­so ti è caduto? -
- No, no, assolutamente… non sono poi così maldestro - le parole dell’uomo sembravano ar­rampicarsi su una giustificazione poco convinta. Quel tono affettato e sommesso fece im­magi­nare alla donna in piedi accanto alla libreria lo sguardo dell’interlocutore lontano, i suoi oc­chi tristi e titubanti. Gli stessi occhi che da tempo osservavano il mondo a quel modo, da quando, nella primavera di quell’anno in corso, Corrado Fornaser era rimasto vedovo
(e io orfana, tanto per non farci mancare nulla)
del­la moglie, portata via da un’improvviso attacco cardiaco. Teresa attorcigliò nervosa il cavo lucido tra le dita. Già, le cose erano andate proprio così. Nel breve arco di cinque mesi, la si­gnora Teresa Fornaser coniugata Angeli, impaginatrice di riviste e libri on-line di anni 39, si era guadagnata suo malgrado il poco ambito riconoscimento di vedova e orfana dell’anno.
Era stata una gran brutta mazzata, senza dubbio. Ma quello che l’aveva resa più devastante era stato il suo assurdo (e illuso) convincimento che dopo la perdita del marito, dopo la tra­ge­­dia e il dolore e lo schianto e l’orrido gelo, dopo che era andata a dormire ogni sera con la cer­­tezza di non farcela, e svegliata al mattino con il desiderio che ciò si avverasse, dopo che si era inerpicata senza forze e senza voglie su per l’impervia via del ritorno ad una qualche parvenza di normalità… beh, come dire… era convinta a quel punto di aver ottenuto un mi­ni­mo di… im­munità. Magari temporanea, labile, a termine, ma quale autorità, terrena o celeste, avrebbe a­vu­to il cuore o la crudeltà di infierire?
E invece… badabam! Come volevasi dimostrare. A cavallo delle due perdite, inoltre, le era giunta notizia della morte di un’anziana prozia e questo, nonostante il tempo e la distanza chi­lometrica l’a­ve­ssero in ogni caso resa un’emerita sconosciuta, le aveva alimentato per un bre­­ve, delirante momento la certezza che la Morte, con tanto di falce regolamentare, avesse de­­ciso di iniziare a sfoltire l’al­bero genealogico Fornaser, ed erano stati lunghi e oscuri i mesi in cui quella macabra visita le sarebbe apparsa perlomeno gradita.
- …non sono mica così rimbambito… - ripetè suo padre a propria discolpa. Le pa­ro­le dell’uomo ripescarono Teresa da quel limbo di pensieri e foschi ricordi - …ieri sera l’ho u­sato per fa­re gli auguri ai Ferri, e poi l’ho posato come al solito sul… sul… sopra il… -
- Mobile in entrata - terminò meccanicamente la donna, mentre un ulteriore amaro germoglio iniziava ad insinuarsi in lei
(ancora quel problema delle frasi lasciate per aria, papà?)
- Appunto. Poi stamattina prima di uscire provo ad accenderlo, come al solito… e niente - dalla cornetta provenì un sommesso tramestìo, come se Corrado si stesse frugando alla ricerca di qualcosa - per sicurezza ho anche dato una controllata al codice… ce l’ho qui da qualche parte nel… nel… dentro il… -
(portafoglio, papà)
(ohhmmmerda…)
(portafoglio, portafoglio… è così difficile da ricordare ?!?)
Teresa, ancora una volta, avvertì gelide e sgradite dita invisibili ghermirle le viscere. Era preoccupata per suo padre. Estremamente preoccupata. L’uomo, dopo esser rimasto ve­­do­vo, aveva continuato ad abitare da solo (era stato irremovibile, su questo) nell’appartamento nel centro storico dove aveva vissuto con la moglie, occupandosi delle solite, piccole co­se di tutti i giorni. Il giro di amici, le passeggiate mattutine
(le parole crociate, vogliamo dimenticarle?)
il pisolino e la televisione dopopranzo. Apparentemente tutto come prima
(apparentemente, cara? Può metterci la mano sul fuoco, o forse sarebbe stato il caso che tu fossi passata un po’ più spesso, da lui?)
(L’ho fatto più spesso che ho potuto, vaffanculo! E poi per un po’ mi sembra di aver avuto qual­che altro cazzo a cui pensare , no?)
Solo che da un po’… gli pareva stanco, deperito. Anzi no, aspetta, questo non è il termine giusto… era come se… un po’ alla volta… suo padre svanisse. Non in maniera tale da suscitare al­larmi e corse ai ripari, ma così… nell’animo… E poi c’era questa faccenda di non ricordarsi le parole. Anche lì, niente di così eclatante da far diagnosticare chissà che
(ah, sei pure medico specializzato, adesso? Vaffanculo vaffanculo VAFFANCULO)
solo brevi e sporadici intoppi, come lievi pause in un discorso. Sulle prime ci avevano pure ri­so su, con suo padre che sghignazzava dandosi del rincoglionito, e lei che rincarava la dose ag­giungendovi un “vecchio”.
Solo che sta succedendo un po’ troppo spesso…”, rimuginò tra sé la donna.
Si ripromise di accennarne a Renato, anche se un po’ le ripugnava importunarlo durante le Fe­ste, come se lo avesse attirato lì apposta con la scusa dell’ospitalità, per poi asfissiarlo co­me nelle classiche vignette umoristiche
(Ah, lei è medico… bene, e senta, posso rubarle un parere?)
D’altra parte quel coglione di medico di base, pur avendo come assistiti sia lei che il padre, non era stato in grado di confortarla o consigliarla. Agli ansiosi accenni di Teresa su questo o quel sintomo (lieve sintomo) si era limitato a fissarla con sguardo sgranato e un bel po’ sup­po­nente, come per altro faceva in ogni occasione. Probabilmente avrebbe dedicato la consueta occhiata schifiltosa anche a chi si fosse trascinato nel suo studio con sette o otto coltelli con­­fic­cati nella schiena. Il luminare della medicina l’aveva ascoltata (occhi a palla puntati co­me canne di fucile), poi aveva sfarfallato la mano in un gesto insofferente che voleva signifi­ca­re “baggianate”.
- Signora - le aveva sussurrato, come se stesse elargendo inarrivabili grani di saggezza - cosa vuole, è un uomo di una certa età
(una certa età di ben 73 anni, caro il mio sgranatore d’occhi, mica stiamo parlando di Ma­tu­sa­lemme, avrebbe voluto sbottare lei, invece se ne restò immobile, in punta di sedia davanti alla scrivania dell’uomo in camice, come una scolaretta troppo cresciuta)
vo­glio dire, non è più un giovanotto e il fisico, come sa, può cominciare a perdere qualche colpo - roteò per un breve istante le dita all’altezza delle palle da tennis che aveva al posto degli oc­chi, in un gesto vago che, anche non volendolo, si sarebbe potuto interpretare come “attenzione, rotelle in li­­bera uscita” - ma non per questo vuole a tutti i costi significare che c’è sotto qualcosa di gra­ve… -
Teresa aveva fatto vagare lo sguardo per l’anonimo ambulatorio, soffermandolo con ostentazione sul quadro appeso sopra una vetrinetta stipata di medicinali.
Già, già”, aveva pensato, con un punta di irritata perfidia, “come dire che, nonostante quella bel­la laurea sotto vetro, non per questo vuole a tutti i costi significare che c’è un medico, qui…”
Il medico le aveva prescritto il solito contro le consuete, dolorose mestruazioni, e le aveva detto di non preoccuparsi. Le aveva aperto premurosamente la porta, ripetendole di non preoccuparsi. Così lei era scivolata fuori, attraversando la saletta di attesa gremita di pazienti silenziosi e anonimi, e non si era preoccupata. Fino alla volta successiva in cui suo padre non le era apparso così con­sumato, con le sue frasi prive di finale, come ostici rebus della sua a­ma­ta Settimana Enig­mi­sti­ca.
- Beh, allora, ti aspettiamo - riprese lei, rituffandosi nei problemi pratici alla ricerca di un pò di forza - anzi, vedi, se fossi riuscita a contattarti prima sarei passata a prenderti io... - sbirciò l’arcigna pendola appesa sopra la parete - ...solo che adesso si è fatto un pò tardi, non ho dato orari agli altri, ma penso che prima o dopo cominceranno ad arrivare e... -
- Tere, non fraintendere, sono lusingato del tuo invito - ribattè l’uomo - ma... stavo pensando... co­sa vuoi che venga a rompervi... mi sento così fuori luogo, in mezzo a voi giovani... ma non ti de­vi preoccupare per me, al limite posso fare un salto fin da mia sorella, non mi ha detto niente di ufficiale ma penso che... -
Teresa roteò gli occhi in segno d’insofferenza:
- Papà, come se non lo sapessi che poi non ti passa neanche per la testa di andare dalla zia... - a­gitò l’indice nell’aria per sottolineare quel concetto - con lo zio Giorgio che ti asfissia con le sue menate sul Paese in mano alle destre totalitarie... e l’idea che tu possa passare la Vigilia e Natale so­lo come un cane in quella casa vuota... non se ne parla proprio! E poi quali giovani e giovani, or­mai viaggiamo tutti oltre i quaranta, e sai bene che Amedeo e Vanessa, e soprattutto Emma, non vedono l’ora di fare gli auguri a nonno Corrado... - sorrise per la palese “ruf­fianata” di quell’ultima precisazione. Oh, ognuno tira l’acqua al proprio mulino...
- Beh, se è per far contenti i bambini... - rispose l’uomo, non riuscendo a nascondere un tono sommesso di contentezza nella voce - ...va bè, ma solo fino a Natale, non voglio fare l’in­co­mo­­do di turno... d’accordo, metto qualche cosa in borsa e ti raggiungo... -
La donna fece scivolare un’occhiata ansiosa al di là dei vetri della finestra. Non pioveva più, ad occhio e croce, ma le strade non dovevano essere al meglio. E poi non si sentiva affatto si­cu­ra che le “amnesie” verbali non avessero una loro pericolosa ripercussione su altre attività, tipo la guida.
- Oh bè... voglio dire... sicuro che te la senti di muovere la macchina? - suo padre era proprietario di una fiammante Alfa 164 nera, venerata e coccolata come una reliquia di incom­men­surabile valore - ho idea che ci sarà un casino di traffico in giro, per via delle compere del­l’ultimo minuto, e poi qui a che ti serve? Puoi prendere un taxi, perché no
(fiato più che sprecato, e lo sai, apprensiva ragazza)
o al limite posso chiedere ad Efrem se ha voglia di... -
- Per carità, Tere! - ridacchiò suo padre scuotendo il capo - ho paura che costringere il buon Efrem a lasciare il suo eden bucolico per avventurarsi nel caotico mondo esterno possa essergli fatale... potremmo addirittura rischiare di accorciargli la vita di ANNI! No, no, meglio ar­ran­giarsi, và, e poi, come si dice, ad appoggiarsi agli altri si corre sempre il pericolo che... di... di... -
Di cosa, papà?, gemette mentalmente Teresa, che stavolta non aveva assolutamente idea di co­sa volesse dire l’uomo. Tirò un silenzioso, scaramantico sospiro per autoconvincersi che sarebbe an­dato tutto bene:
- Okay, d’accordo - si arrese alla fine - ma, mi raccomando, testa sulle spalle... -
(guarda te se dev’essere la figlia a raccomandare queste cose ad un padre ultrasettantenne... vi­viamo proprio in un mondo sottosopra...)
L’uomo la rassicurò ancora una volta, congedandosi da lei. Teresa restò immobile per alcuni i­stanti, la testa in subbuglio tra mille pensieri ben poco lusinghieri, prima di rendersi conto del pesante silenzio che avvolgeva l’ampia sala, quasi insopportabile. Ruotò di qualche tacca il po­­ten­ziometro sul rack stereo. Il cd stava suonando la versione inglese del “Valzer delle can­­dele”. Ri­badisco, gli americani sò proprio ffforti, rimuginò inaspettatamente divertita, l’e­se­cuzione i­ta­liana al mas­simo potrebbe permettersi Nico Fidenco, con l’accompagnamento di una fisar­mo­nica, mentre in questa incisione... vediamo un pò come la chiamano loro... Christmas Auld Lang Syne... Marc An­thony ci dà dentro alla grande, con tanto di orchestra d’ar­chi e coro a cappella... tutta un’altra cosa, direi, molto più solenne, quasi epica...
Fece vagare lo sguardo sulla nutrita rassegna di fotografie incorniciate sulla parete davanti a sè. Quella era la “galleria fotografica Fornaser”, come l’avevano definita, in quanto raffigu­ran­­te scene di vita di Teresa avanti Carlo. L’esposizione post-matrimonio faceva invece bella mo­stra sulle pareti del­la saletta tv. Si ricordava bene del pomeriggio passato a incorniciare vecchie foto, tra ri­sate, taglierini, cartoncini per passepartout e tè caldo
(non discuto che te ne ricordi più che bene, ma temo sia proprio questo il problema)
(lasciami farmi male quanto voglio, grazie)
Accarezzò con sguardo affettuoso le foto appese davanti al naso. Le più “antiche” erano in ri­goroso bianco e nero (stiamo parlando di metà degli anni ‘60, comunque), coi classici bordi dentellati come minuscoli denti di squalo. In una c’erano le quattro donne Fornaser, come usava sempre descrivere suo padre, fotografate sull’uscio di quella stessa casa. Lei, grosso mo­­do intorno ai cinque anni, con i capelli corti come un maschietto, era tenuta per mano da sua ma­dre Ti­­na e nonna Luciana, tutte e tre con gli occhi fissi e sorridenti verso l’obiettivo. Se­duta ac­can­to a loro, su un minuscolo sgabello, la figura minuta e secca di Sara Secco, ma­dre di Lu­cia­na e nonna di Tina. E di conseguenza, se la parentela non è un’opinione, bisnonna di Te­resa. A quel tempo doveva andare per i set­tantacinque, e la giovane donna ne aveva un ri­cordo più o meno vago, e sempre ve­stita co­me nella foto. Vale a dire rigorosamente in nero, con un fazzoletto dello stesso colore sui ca­pelli candidi.
Già, già, la nonna vecchia, come la chiamavano tutti”, rimuginò Teresa frugandosi nella me­moria alla ricerca di qualche indizio un pò meno nebuloso, “il poco che ricordo è che m’incuteva qualche timore, con la sua aria così forte e vigorosa, nonostante fosse proprio un scricciolo di donna...”
Poi, improvviso e lucente, un ricordo le si accese nella mente, come se le avessero azionato un re­calcitrante proiettore all’interno della scatola cranica. Lei, immobile davanti alla nonna vec­­chia, seduta sotto l’ombra di un albero, forse sullo stesso sgabellino della foto. Anzi no, qualcosa di più... rudimentale, di rustico. L’anziana donna aveva avvicinato il viso affilato a quello della bimbetta intimorita, tanto che questa aveva potuto specchiarsi in occhi quieti ed incredibilmente limpidi, incastonati in una ragnatela di rughe nitide come leggeri colpi di la­ma. Un vago sentore di spezie, forse cannella, aveva solleticato le minuscole narici della piccola Teresa. Poi un dito ossuto e curvo si era alzato lento nell’aria tiepida del tardo pomeriggio primaverile
(dubito di riuscire a ricordare tutto così chiaramente...)
bloccandosi all’altezza della sua fronte, a pochi millimetri dal contatto. La bimba avrebbe voluto ritrarsi, o forse addirittura togliersi dallo sguardo indagatore di quella inquietante vecchia, ma i suoi piedini non si erano spostati di un passo.
- Povera, cara Teresa - aveva detto poi la bisnonna, socchiudendo le palpebre con placida lentezza - la tua vita sarà lunga, ma ci saranno purtroppo giorni non troppo luminosi... -
Una Teresa di una trentina d’anni dopo, immobile davanti al cassettone del telefono, si riscosse, infastidita da quella specie di ricordo, in particolare dal suo presunto contenuto.
- E’ facile fare profezie retroattive postdatate - borbottò irritata - soprattutto alla luce di quel che è successo, cara la mia maga Otelma dei miei stivali... -
Le sembrò per un infinitesimale, assurdo istante che persino il ricordo del sentore di cannella le fosse rimasto intrappolato nelle narici, e tornò a fissare la sua attenzione sulla parete. Nelle fo­to successive, a colori degli anni settanta, con quella loro tipica dominante caramellosa, lei era a piedi nudi nella sala da pranzo, accovacciata sotto un dignitoso albero di Natale, e mo­stra­va all’obiettivo con fiero cipiglio una bambola nuova di zecca
(Melania!)
Un fugace sorriso attraversò il volto della donna pensierosa. Melania. E chi se la dimentica? Gli era stata regalata un Natale da zio Giorgio, ancora ignaro del destino del Paese e della re­­­lativa composizione del Governo e, anche se la piccola Teresa non poteva saperlo (nè gliene sa­rebbe importato un gran che), era un modello di bambola hippie. I lunghi capelli corvini erano trattenuti da una bandana variopinta, e sulla camiciola di taglio orientaleggiante sfoggiava addirittura un medaglione d’alluminio col tipico simbolo della pace. Un paio di jeans rigorosamente a zampa d’elefante lasciavano scoperti i piedini plasticosi in sandali fricchettoni. Il sorriso tornò sul volto della donna, con tutta la ferma intenzione di resistervi. Me­lania era stata un’inseparabile e longeva compagna di giochi, e difatti compariva immancabile in tutta una serie di altre foto appese, via via un pò più logora e spelacchiata in virtù del tempo che passava. Teresa si spostò di lato, per osservare meglio una fo­tografia scattata quello stesso giorno di festa di tanti anni prima. No, non era possibile... Si lasciò scappare una risatina divertita: alle spalle della piccola Teresa seduta a tavola, alle prese con una monumentale fet­ta di panettone, appena un pò confusa tra altri pacchi dono sventrati e cumuli di lucida carta da regalo, era possibile scorgere (o, meglio, intuire) la parte superiore di una scatola su cui si riusciva a leggere, un pò sfuocata, l’iniziale della parola MEL e, più in piccolo, PEG PEREGO. La donna rise di nuovo, scuotendo la testa. Pazzesco, quella è nientemeno che l’imballo di Melania, è quasi come se ne potessi vedere... la nascita! La piccola hip­pie era stata una fe­de­le amica per anni, e non appena la sua padroncina era cresciuta un pò troppo per giocarci, aveva guadagnato di diritto un posto d’onore sulla mensola rossa nella cameretta. E là era ri­masta, ad osservare il mondo con i suoi occhi spalancati e immobili, per altro tempo ancora.
Ac­­canto a lei mutavano i libri lì custoditi, ordinatamente impilati, da Piccole Donne a Le av­ven­ture di Polyanna, e poi l’edizione “cult “ di Gianburrasca (quella con la copertina verde), pas­sando per Barbapapà cerca moglie sino ai gialli di Nancy Drew. E ancora, più in là negli an­ni, i discussi Porci con le ali e Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Ber­lino
(beh, questi ul­timi due magari non proprio in bella mostra)
I titoli e le preferenze di Teresa mutavano, come i grandi poster colorati appesi un pò più in al­­to (gli Abba, e i Bee Gees, e poi Miguel Bosè, e il manifesto del film Bilitis, fino a quelli di Fla­sh­dance e Nove settimane e mezzo), ma Melania restava, imperscrutabile e silenziosa.
Alla fine, come succede spesso nella vita, le pareti ebbero bisogno di una bella rinfrescata, la men­sola fu smontata, e i libri e l’ultimo poster in voga sparirono. Stessa sorte per l'obsoleta Me­­lania, riposta chissà dove. Pro­ba­bilmente, a rigor di logica e di economia familiare, in qualche “forziere” di cartone im­polverato che ancora giace nelle dimenticate profondità della sof­fit­ta o delle cantina
(hai idea di dove sia finita Melania, papà?)
questo nella migliore delle ipotesi, quando non destinata come regalo riciclato per la cuginetta di turno, o chissà che altro.
Ad averla adesso ci si potrebbe ricavare un piccolo gruzzolo, in qualche mercatino di mo­der­nariato....”
Teresa tornò in sè, avvertendo con una punta di malinconia che il bel sorriso stava inesorabilmente appassendo, come un fiore delicato e effimero, e tirò su col naso.
Ci manca pure che finisca per deprimermi anche per un bambolotto di duecento secoli fa”, si rimproverò severa, indecisa su quale delle mille cose che restavano ancora da fare avesse la priorità. Salì al piano superiore a dare un’ultima controllata alle camere, mentre quella lieve ombra scura dentro di lei non pareva per niente intenzionata a svanire.

4_

- E sai che c’è di nuovo? Che non ho nessuna voglia di andarci… -
Guido Mali pronunciò quelle parole ad alta voce, a beneficio della stanza deserta e silenziosa, gettando un’occhiata sconsolata al borsone da viaggio aperto sul letto. Pieno per metà, una inquietante, enorme bocca affamata in attesa di altro cibo-vestiario. Già, no, proprio nessunissima voglia, e questo si ripercuoteva visibilmente sulle scelte e i tempi di organizzazione.
Ma perché mi son lasciato tirar dentro a ‘sta storia?”, rimuginò osservandosi impalato nel lun­go specchio applicato all’anta dell’armadio. Quarant’anni, magro come un chiodo, infagottato in un ruvido maglione nero su un paio di pantaloni di velluto a coste sottili. I capelli co­lor pepe-sale
(ormai più sale, decisamente più sale)
tagliati corti, sopra una faccia dall’espressione perplessa e abbacchiata. Più del solito, in quel momento, che già era tutto dire.
Frugò nel cassetto dei calzettoni senza prestarvi troppa attenzione, prendendo il primo paio capitatogli sottomano.
- Perché diavolo sono andato a dire di sì, quella volta? - si torturò ancora, non contento.
Perché forse glielo devi, a Terry, dopo la batosta che ha passato”, gli venne finalmente in soccorso una vocina dentro la sua testa, che lui stentò un po’ a riconoscere, considerato che da tempo non aveva un buon rapporto con la propria coscienza, ”con tutte le innumerevoli spalle che ti ha offerto per frignarci su dei tuoi casini sentimentali… o no?
O sì, neanche una parola al mondo. Però, anche così, voglio dire, non sarebbe stato sufficiente trovarsi da qual­che parte per due auguri, un cappuccino e via andare?
Passò nel minuscolo bagno, a recuperare shampoo e dentifricio, sprecando qualche secondo per rimirarsi nello specchio sopra il lavandino. “Spero sia l’orrendo neon che non mi decido mai a sostituire con qualcosa di meglio”, considerò sfiorandosi con la punta delle dita sotto le palpebre, “e che queste occhiaie scure in realtà non esistano, o son messo proprio bene…
E poi perché sono i tuoi amici”, riprese la vocina con insistente testardaggine. L’uomo corru­gò la fronte in una smorfia d’insofferenza. Oh bè, questa poi…
- Amici… sì, d’accordo, diciamo che sono le persone che più potrei definire tali, se proprio de­­­vo… - sbottò a mezza voce, come se dovesse convincere, oltre a sé stesso, un’inesistente quanto severa giuria - ma sono due vite che non ci vediamo, e ‘ste cose danno sempre l’idea di… nostalgico, da reduci dei bei tempi andati… Che poi, amici amici… con Terry senz’altro, e con Cristina, e Lucia. Pure Renato, ci mancherebbe, anche se ogni volta che ci scambio due chiacchere mi fa sentire così… sotto esame, come se fossi sul vetrino di un microscopio… -
Fece ritorno nell’ampia sala del monolocale in cui viveva, e che fungeva da cucinotto-salottino-camera da letto-di tutto un pò, facendo mente locale se aveva preso tutto per la pulizia per­sonale.
- Bah, forse è una MIA impressione, influenzata dal fatto che di mestiere è psicologo… solo che in ogni caso quando gli parlo mi sembra sempre che mi scruti dentro… -
E il classico peggio deve ancora venire, considerò mentre l’inesistente en­tusiasmo, già ai mi­ni­mi storici, prendeva a scivolargli sotto le scarpe. Peggio che non sarebbe tardato molto, nel­le fasti­dio­se sembianze di Gianni Ostiglia. Si lasciò sfuggire un mezzo lamento di esaspe­razio­ne, al ri­cordo di tutto quello che quell'idiota gli aveva fatto passare. Pareva essere proprio il suo passatempo preferito, tormentarlo e pungolarlo e STRESSARLO con un fuo­co di fila i­nar­­restabile di battute, cattiverie e allusioni e chi più ne ha più metta… E Ostiglia ne aveva, da mettere, o se ne aveva! E lui non aveva mai avuto il carattere o la for­za
(le palle?)
per cantargliene quattro e dirgli di piantarla. Anzi, ogni timida e supplichevole richiesta non dico di darci un taglio, ma almeno di ottenere un minimo di tregua, fungeva da benzina per le caustiche provocazioni dell’altro. Del presunto amicone...
E io dovrei passare una settimana, quella di Natale per di più, sotto lo stesso tetto con questo emerito imbecille cosmico?!?
Su, su, vedrai che troveremo il modo di starne il più possibile alla larga… e poi che ne sai, magari è cambiato…”
Sì, come no, e magari lo hanno arrestato, o forse Cristina ha divorziato, o meglio ancora trovato la forza di farlo fuori nel sonno…
Appoggiò con cura alcune camicie stirate di fresco sul letto, per sceglierne un paio. Quello che non era mai riuscito a capire, pur cercando di sforzarsi con fraterno spirito di tolleranza, era cosa c’entrasse quel rozzo essere con il resto della compagnia. Possibile che nessuno si fosse accorto che era come un corpo estraneo (e fastidioso) in un gruppo di persone sensibili e pia­­cevoli? Prima cosa. E seconda, mai che qualcuno si fosse realmente accorto della si­ste­ma­ti­ca persecuzione a cui lui era sottoposto, prendendo le sue difese, se non in qualche rara o­c­­­ca­sione quando la mano dello stronzo ci era andata giù troppo pesante...
Frugò sotto il lavello della cucina alla ricerca di una borsona di cartone per un paio di scarpe di scorta, e i pacchettini con i regali per gli altri. Sì, anche per lo stronzone...
E un’altra cosa strana, anzi in quel caso decisamente incomprensibile, era come quell’essere arido potesse essere riuscito a far innamorare una persona così dolce e assennata come Cri­stina che, a quanto ne sapeva lui dalle chiaccherate telefoniche con Teresa, lo adorava ancora e sem­pre come il più eccezionale degli uomini.
Già, già, perché una figlia assolutamente adorabile come Vanessa, trova spiegazione logica di come possa essere stata generata dai lombi di un coglione del genere?
No, decisamente no, convenne con sè stesso, magari è un “corno”, e vista l’assoluta discrepanza caratteriale non ci sarebbe nulla di strano. Anzi, se così fosse gli starebbe anche bene... So­lo che la moglie stra­vede così tanto per lui, per l’appunto, che temo resti un’ipotesi alquanto cam­pata per aria...
Lo squillo del telefono lacerò il silenzio pesante della stanza e il ribollire dei suoi pensieri. Si tirò su da sotto il lavandino, dove stava approfittando per mettere un pò d’ordine tra le confezioni mezze vuote di vari prodotti per la pulizia
(già che abbiamo tempo da sprecare)
chiedendosi incuriosito e un pò ansioso chi poteva essere. Forse Terry che avverte che non se ne fa più niente, azzardò vergognandosi un pelo di quella totale mancanza di coinvolgimento, o ma­le che vada che lo stronzone non viene proprio. Si scusa, si rammarica ma non può venire... Sì, bè, non illudiamoci troppo, amico...
Scavalcò con un lungo passo il bordo del letto, avvicinandosi al minuscolo tavolinetto accanto al divano.
- Sì, pronto? -
- Ciao, sono io - disse una voce che lui non si aspettava affatto di sentire - brutto momento? -
Guido si lasciò cadere di traverso sulla poltrona, con le gambe a cavallo del bracciolo, mentre il cuore aumentava lievissimamente il battito, e una tiepida sensazione di calore gli arrossava le gote
(come un adolescente imberbe. A quaranta e passa anni...)
- C-come? N-o, no, al contrario, ma... - rispose d’un fiato, maledicendo quella reazione goffa e ben poco matura - solo che... non pensavo di sentirti, avevo capito che... ma dove... non do­vevi... -
Una risatina divertita e soddisfatta dall’altro capo del telefono commentò la sua titubante ri­sposta:
- Già, me ne accorgo... Solo che l’altro ieri ti avevo detto che era l’ultima volta che ci vedevamo, almeno fino all’anno nuovo... NON che ci sentivamo... e difatti eccomi qui... oh, sempre che non ti dispiaccia... -
L’uomo si tirò su dal morbido abbraccio dei cuscini, sedendosi un pò più composto. L’inattesa piacevolezza di quella chiamata lo faceva sentire euforico, e buona parte dei pensieri negativi di poco prima sembravano già essere un lontano ricordo:
- No, no, ci mancherebbe, e spero che tu lo sappia - si mordicchiò lieve un labbro, per cercare di “suturare” un minimo lo sfrontato sorriso che gli stava attraversando la faccia accaldata - ero qui, ti stavo pensand... no, no, in tutta sincerità ero alle prese con la borsa per i prossimi giorni, e con la precisa consapevolezza di non aver la minima voglia di andarci... ma dimmi di te, dove sei? Io pensavo che... -
- Fossi già fuori Italia? No, no... beh, quasi... siamo in una stazione di servizio subito dopo Bressanone... sosta tecnica, sai com’è, sigarette, pipì... gli altri sono spariti nelle corsie del mi­nimarket, da dove torneranno carichi di cianfrusaglie inutili, e io ho trovato nelle tasche questa tessera telefonica... che avevo comprato apposta, tanto per esser chiari... -
Guido decise di lasciar andare il sorriso per i fatti suoi. Si accorse di avere ancora in mano il pa­io di calzettoni a quadri scozzesi debitamente avvoltolati, e li lanciò con un “gancio” disinvolto in direzione del borsone aperto dietro di sè. L’improvvisata palla “calzettoniana” sparì alla perfezione nei meandri della borsa. Alla grandissima. Come se quella inaspettata te­le­fo­nata avesse avuto il potere di “rovesciargli” la giornata, rimettendola sui giusti binari.
- Gli altri... chi sono? - si sentì chiedere, non riuscendo a bloccare quella domanda indelicata e interessata prima che evadesse dalle labbra. Che razza di coglione!
La risatina al suo orecchio, ora volutamente ironica, giustificò quel suo severo auto-insulto.
- C’è forse una puntina di gelosia, che traspare da questa civile chiaccherata? - Guido s’inflisse alcuni dolorosi pizzicotti su una coscia, scuotendo la testa - te l’ho detto, amici e amiche, una bella compagnia. Che forse un giorno o l’altro conoscerai anche tu... gente simpatica... In­formazioni sufficienti ed esaurienti? -
- Oh bè, sì, ci mancherebbe altro... -
- Sicuro? Sicuro sicuro sicuro? -
- Eddài, piantala - “colpa tua, coglionazzo, te la sei andata a cercare” - non infierire... -
- UN ATTIMO E ARRIVO! NO, NON PRENDO NIENTE, A POSTO COSI’... sì, scusami, ma stanno uscendo dal grill... no, hanno preso anche un’enorme peluche a forma di Gatto Sil­vestro! Comunque, cosa stavamo dicendo... ah già, niente di speciale, ragazzi a posto... anche se... - l’uomo seduto sul bordo della poltrona sentì un sommesso ma deciso tuffo nel centro del petto, detestandosi per questo - c’è questo Claudio, un interessante assistente universitario di Pa­dova, con due bei baffetti da sparviero, beh, credo che mi faccia gli occhi dol­ci... -
- E su, piantala... ammetto di essermi comportato da... -
- Fanciullo, stattene buono e tranquillo - il tono di voce nel telefono si fece serio, e così intimo da far venire i brividi al vecchio cuore titubante del suo interlocutore - soprattutto molto tranquillo... te lo ripeto, gente in gamba, ma per me conta solo che passino via in fretta queste Fe­ste e poi... appena al di là di Capodanno... ho sette, otto conti in sospeso con un affascinante signore che hai i capelli come George Clooney e, ipotizzo, non solo quelli... ricordati, appena al di là di Capodanno... ora temo proprio che ci dobbiamo salutare... passa il miglior Na­ta­le che puoi... -
- Oh ciao, grazie... anche tu - rispose Guido, cercando di non badare ai due eserciti contrapposti di Euforia e Malinconia che si stavano scontrando sul terreno neutro del suo cuore - di­ver­titi, e ricordati di fare un giro per Schwabing... ciao! -
Il clic impietoso della linea che si chiudeva. Restò immobile, la cornetta del telefono ab­ban­donata in grembo, riassaporando nella mente i brani di quella conversazione, come golosi dol­cetti di cioccolato
(ho trovato nelle tasche questa tessera telefonica... che avevo comprato apposta, tanto per esser chiari...)
(C’è forse una puntina di gelosia, che traspare da questa civile chiaccherata?)
(per me conta solo che passino via in fretta queste Feste e poi... appena al di là di Capo­dan­no...)
Il sorriso tornò a fargli visita, come un vecchio, gradito compagno di strada, mentre gli occhi gli si velavano sfuocando il conosciuto panorama del suo monolocale di scapolo.
(passa il miglior Natale che puoi...)
Oh, l’avrebbe fatto, ce l’avrebbe messa tutta, alla facciazza degli ultimi tempi non proprio me­­morabili, e della convinzione (del cazzo, adesso poteva affermarlo quasi con certezza) che non avrebbe più provato certe devastanti deliziose sensazioni nel corso della sua placida vita.
E se lo stronzone galattico mi rompe troppo le balle, va a finire che lo prendo e lo butto nel le­tamaio del contadino di Terry”
(fosse vero)
Il trillo sguaiato del campanello lo strappò con un sussulto a quel delizioso attimo di quiete e raccoglimento:
- Questa dev’essere Diamante, e io sono ancora in alto mare... - borbottò alzandosi per rag­giungere il citofono - come il mio solito, d’altra parte... -
  
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