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Autore: Lantheros    10/07/2014    0 recensioni
Un antico potere millenario, custodito da sempre nelle profondità della terra.
Due mondi completamente diversi finiranno per incontrarsi, in un luogo singolare farcito di vetuste tecnologie a vapore e gigantesche fregate volanti.
Una coppia di giovani unicorni, proveniente dagli estremi stessi del Creato, troverà un punto in comune su cui lavorare, per venire a capo del grave segreto che la fumosa metropoli di Mechanus custodisce.
Dalla materia inanimata.
Alla vita.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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    Il giovane puledro emerse dalla propria lettura. Tanto era inutile: non riusciva a concentrarsi.

L’intera cabina pressurizzata era mossa da traballii e scossoni; il ronzare assordante dei motori a carbone, nel compartimento accanto, era così possente da far tremare i vetri circolari delle piccole finestre.

Silver Dust osservò nervosamente gli altri occupanti: passeggeri, esattamente come lui e quasi tutti in viaggio da chissà quale luogo lontano. Ognuno di essi presentava tratti e vestiario provenienti da zone ai confini del Creato. Vi erano gli scialle pittoreschi degli abitanti del Deserto Orientale, ad incorniciarne il pelo color corteccia e i penetranti occhi neri; i longilinei e delicati corpi degli Shirity, dalle tonalità verde acqua e abbelliti da monili d’argento di splendida fattura; in un angolo della cabina, taciturni e dal volto serio, era impossibile non notare un assembramento compatto di Palafreni della Steppa, grossi e robusti come massi di granito.

E poi vi era lui, Silver Dust. Un gracile unicorno collocato più o meno al centro della stanza.

    Era stato lui stesso a selezionare quel posto. Pur essendo un pony di scienza, non si fidava granché di quella tecnologia a lui sconosciuta. E tantomeno si sentiva al sicuro nel volare a centinaia di metri di quota, sorretto semplicemente da un pallone riempito di gas altamente esplosivo.

Così, per tenersi lontano dai finestrini, dal paesaggio e quindi da ulteriore nervosismo, si era collocato al centro. Ma la cosa non lo aveva aiutato granché.

Non appena aveva udito il mezzo sollevarsi da terra, alla partenza, si era irrigidito come uno stoccafisso, affondando gli zoccoli nei braccioli e senza emettere un fiato. Il viaggio era però lungo e, nel corso delle ore, aveva iniziato ad abituarsi alla sensazione.

Le paratie metalliche della cabina avevano continuato a cigolare e vagire in continuazione, come se dovessero staccarsi e prendere il volo come cartone al vento da un momento all’altro. Dagli oblò, inoltre, altro non poteva scorgere se non l’azzurro del cielo e qualche sporadico batuffolo bianco: assembramenti nuvolosi di bassa quota che scorrevano veloci attorno allo zeppelin.

Dust deglutì.

    Era un magro e giovanissimo puledro dal manto grigio intenso, più precisamente grigio lilla, come amava puntualizzare lui. Coda e criniera erano neri, con alcuni riflessi blu notte, mentre gli occhi possedevano le tonalità del verde. Il suo marchio era un insieme di goccioline argentate, in grado di riflettere la luce come se avesse avuto una manciata di frammenti di specchio attaccati sui fianchi.

A differenza degli altri passeggeri, non indossava alcunché. Possedeva un semplice ma funzionale zaino a tracolla, munito di due tasconi laterali. Grazie ad esso era stato in grado di portare con sé un paio di libri e un’ampolla piena d’acqua (che aveva già nervosamente svuotato da un pezzo, per via della sudorazione da ansia).

Non trasportava altro. Da dove veniva lui, una terra lontana denominata Equestria, raramente gli abitanti indossavano abiti. Il più delle volte era qualcosa riservato ai nobili o ai pony di alto rango sociale.

L’unicorno tornò con la mente al suo luogo d’origine, per qualche istante. Si ricordò l’ultimo dialogo avuto con la sua maestra, un alicorno bianco dai lunghi crini fluenti.

 

“Sono sicura che saprai cavartela, mio caro allievo”, gli aveva detto con volto sorridente.

Silver, tuttavia, aveva cercato di nascondere l’agitazione e il senso di inadeguatezza.  “È un luogo molto lontano, è vero. Un luogo che persino io conosco solo per fama, caratterizzato da una tecnologia e una cultura a me quasi estranee. Proprio per questo voglio che tu vada là. Per studiare quei luoghi e quella cultura”.

L’alicorno si era quindi avvicinato a lui con passo gentile e gli aveva sfiorato il mento con uno zoccolo, facendo in modo che gli occhi di lui puntassero dritti nei propri.

“Non temere, Silver Dust. Avrai qualcuno ad accoglierti e sono certa che sapranno darti tutto l’aiuto di cui hai bisogno. E non sia mai che possa essere tu ad aiutare loro!”.

 

Quelle ultime parole lo avevano lasciato sconcertato.

“Tu ad aiutare loro”, aveva detto.

Durante il tragitto, il puledro ebbe modo di spulciare a menazampa uno dei libri che stava trasportando, che parlava proprio della fantomatica città di Mechanus: veniva descritta come un ingegnoso assembramento di ingranaggi e macchinari. Un ambizioso progetto per creare una metropoli avanzata, come mai se ne erano viste. Sulle pagine erano descritti minuziosamente i prodigi tecnologici adottati per ottenere il massimo dell’efficienza dall’energia a vapore, unitamente agli incantesimi di transizione più potenti del Regno.

Il grosso della popolazione di Mechanus era infatti costituita da scienziati ed incantatori. Non c’era quindi da stupirsi di come l’innovazione avesse cercato di apportare benefici al loro stile di vita.

Molte cose, tuttavia, lo lasciavano scettico.

    Silver Dust possedeva invero un dono particolare. Non era particolarmente geniale o ligio allo studio ma la sua mente era una sorta di macchina matematica, il perfetto connubio tra razionalità ed elaborazione numerica. Non era semplicemente bravo, bensì un vero e proprio portento: pur non spiccando per doti magiche particolari (cosa importante per un unicorno), Silver era in grado di eseguire complessi calcoli matematici in pochissimi istanti. Questo gli dava non solo un vantaggio sui libri ma gli permetteva di affrontare qualsiasi problematica di vita quotidiana riconducendo il tutto ad un insieme di calcoli e risultati a dir poco ineccepibili.

Era come se ragionasse in un modo che ben pochi sarebbero riusciti a comprendere.

Quando i genitori si resero conto delle sue capacità, quando ancora era un puledrino, lo sottoposero all’attenzione di alcuni esperti della Corte Reale, che ne intuirono subito le potenzialità.

Dust iniziò quindi a studiare presso una scuola prestigiosa, finché la Principessa del Regno venne a conoscenza delle sue caratteristiche uniche e lo prese sotto custodia.

I genitori ne furono molto orgogliosi, anche se quello avrebbe significato vederlo molto di rado. Silver, invece, fu solo parzialmente entusiasta della cosa. Ma era sempre stato un puledro… difficile. Raramente si relazionava con gli altri e se ne stava solitamente per conto proprio.

Senza alcun amico, andare presso la Corte Reale e studiare da mattino a sera non gli sembrò un grosso cambiamento. Sentiva la mancanza dei genitori, certo, ma il mondo matematico a cui aveva avuto accesso lo affascinava non poco e ben presto iniziò ad affinare le proprie competenze.

    Nel bel mezzo dei propri pensieri gli tornò di nuovo in mente quella frase.

“Non sia mai che possa essere tu ad aiutare loro”.

Ci aveva riflettuto a lungo ed era giunto alla conclusione che il suo portento matematico avrebbe potuto essere di qualche utilità in una metropoli costituita da meccanismi basati sul rigore scientifico. Ma era solo un’ipotesi. E lui non tollerava le ipotesi. Tutto doveva avere una risposta netta e coincisa, proprio come un’equazione non poteva rimanere irrisolta.

 

    Uno scossone lo fece tornare alla realtà.

Lo zeppelin iniziò a perdere gradualmente di quota e velocità.

Il pony grigio sperò fosse una procedura di atterraggio… e non un’avaria o qualche guasto imprevisto.

Si aprì una portella cigolante, da cui fuoriuscì un controllore col monocolo. La magia del corno gli permetteva di reggere e scrutare un’enorme cipolla ticchettante, sospesa a mezz’aria.

“Prossima fermata: capolinea!!”, dichiarò con decisione, in modo che tutti potessero udirlo. “Stazione di Mechanus Centrale, attracco imminente!!”.

Gli occupanti raccolsero i propri bagagli e quindi si sistemarono con attenzione nelle rispettive poltroncine. Dust, invece, non aveva abbandonato per un solo istante la propria postazione. Controllò che la cintura di sicurezza fosse collocata correttamente e percepì un lieve calo di tensione nel meccanismo.

Alzò una zampa, poco prima che il controllore se ne andasse.

“Mi scusi!”, intervenne, con giovane voce. L’altro si girò. “M… mi scusi!”.

Lo stallone occhialuto si avvicinò al pony dai crini neri: “Dimmi, figliolo”.

“Eh… uh… ecco… questa cintura è correttamente funzionante? Mi sembra che il meccanismo di tensione a spirale sia un po’ logoro…”.

L’altro lo osservò con sguardo inespressivo.

Dust continuò: “…e… uhm… potrebbe controllare se… cioè… c’è una ragionevole probabilità statistica che il meccanismo possa…”.

Il controllore afferrò la cintura e diede due forti strattoni.

Picchiettò quindi il capo del passeggero con uno zoccolo e si allontano da lui: “È tutto a posto, figliolo”. Aprì quindi il portello da cui era venuto e, prima di richiuderlo, borbottò: “…turisti”.

L’unicorno grigio corrugò la fronte.

Dannazione.

Perché nessuno lo prendeva mai sul serio? Sette virgola trentacinque percento di possibilità che la cintura potesse staccarsi non era qualcosa con cui scherzare, pur contemplando il margine di incertezza.

    Un secondo scossone lo convinse a sprofondare nel sedile e a non lanciarsi più in simili ragionamenti.

I motori iniziarono a rombare ancor più rumorosamente, imprimendo una spinta vettoriale opposta a quella di atterraggio. La procedura fece oscillare la cabina di viaggio come se fosse un ponte di corde sospeso nel vuoto.

“Oh… per tutti i versori…”, intonò il puledro, sentendosi cuore e stomaco salirgli in gola.

Uno dei Palafreni della Steppa iniziò a ridacchiare col vocione e alzò le zampe verso il soffitto, nemmeno si trovasse in un parco giochi.

Con la coda dell’occhio, attraverso i finestrini un po’ sporchi, il giovane puledro inizio a scorgere gli edifici esterni. Non riuscì tuttavia a scrutarli chiaramente, vuoi per l’agitazione, vuoi per una strana cappa biancastra che sembrava avvolgere buona parte del luogo.

Si udì quindi un fischio acuto e un clangore metallico da sfondare i timpani a tutti i presenti.

Un ultimo scossone indicò che il pallone era stato correttamente agganciato dai meccanismi di attracco, seguito quindi da un sibilo di sfiato e dall’apertura della portella d’ingresso.

    I passeggeri slacciarono le cinture e si diressero verso l’esterno.

Dust cercò impacciatamente di fare altrettanto, riuscendo a liberarsi solo dopo svariati tentativi.

Uno degli Shirity lo notò di sfuggita e non riuscì a trattenere una risata.

“Beh??”, inveì l’unicorno. “Il controllore l’ha quasi inceppata a furia di strattonarla!”.

 

Fu l’ultimo ad uscire.

 

*** ***** ***

 

    L’unicorno si avvicinò timidamente alla portella e sporse solamente il muso, come se ad attenderlo potesse esserci una minaccia imminente.

Tutto ciò che vide inizialmente fu una spessa cappa di vapore, che ovattava ogni cosa nei paraggi. I rumori non potevano tuttavia essere ignorati: sembrava che tutt’attorno vi fosse il vociare di una folla intera, mescolata a rumori metallici che gli ricordavano alcuni cantieri edili che aveva visto.

Quando il vapore si diradò, Dust poté finalmente capire dov’era finito. E ciò che vide lo lasciò letteralmente senza fiato.

    Lo zeppelin su cui viaggiava era attraccato su un immenso molo parzialmente sospeso nel vuoto. Solo in quel momento si rese conto di come la città di Mechanus non si trovasse in piano ma fosse stata edificata lungo l’intero crinale di una montagna.

Il porto volante era costituito da un intricatissimo sistema di travi e passerelle metalliche, quasi tutte in bronzo o ferro arrugginito, esattamente come le pareti della stazione e degli immensi edifici lontani, donando tonalità seppia a quasi tutto ciò che lo circondava.

Altri zeppelin e strambi velivoli fluttuanti continuavano a decollare e atterrare dalle numerose postazioni adibite allo scopo, permettendo ad un flusso impressionante di pony di uscire ed entrare ad ondate attraverso le grosse arcate della stazione. La struttura stessa era enorme, alta decine e decine di metri e sostenuta da un’infinità di impalcature e cavi metallici.

Il puledro iniziò impulsivamente a muoversi lungo la passerella del porto, senza rendersi conto che, sotto di lui, vi era il vuoto assoluto. Il suo sguardo era rivolto verso l’alto, con bocca lievemente spalancata per la meraviglia.

Oltre la stazione, sullo sfondo, si stagliava in un’immensa distesa di edifici e grattacieli altissimi. Essendo stati edificati su un territorio montano, l’intero paesaggio (da un lato) era costituito da una parete di strutture in salita, che si disperdevano verso la sommità della montagna. Silver mosse lo sguardo per l’intera lunghezza dell’intricatissima metropoli, scorgendo innumerevoli comignoli fumosi, per giungere quindi a ciò che lo fece rabbrividire: proprio sul cocuzzolo del monte, una colossale colonna di fumo nero si innalzava verso la volta (quasi) celeste.

L’unicorno strabuzzò i bulbi oculari.

Non poteva essere.

“M-m-ma…!”, balbettò. “Ma… ma questa non è una montagna! È un dannatissimo vulcano!”.

Poi, come se quello non fosse abbastanza, qualcosa di mastodontico emerse dalla barriera di fumo. Sulle prime non capì cosa fosse, anche perché mai avrebbe pensato che potesse esistere qualcosa di simile. Il cielo era sì costellato da innumerevoli velivoli mossi da inquinanti motori a carbone e vapore, diversi per forma e dimensioni. Ma quello li batteva tutti: decine e decine di palloni gonfi di gas erano stati uniti tra loro tramite impalcature in bronzo (o almeno ciò che poteva essere bronzo) per sorreggere un’impressionante scafo simile ad una nave da crociera con svariati intarsi decorativi e numerose bocche di fuoco. Un complesso di tubi di scarico riversava una impenetrabile scia di combusto nero dietro di sé. Due enormi ali laterali terminavano quindi in una coppia di turbine gigantesche, che emettevano un flusso d’aria diretto verso terra. A giudicare dalla moltitudine di armi che sporgeva dallo scafo, doveva sicuramente trattarsi di un mezzo da battaglia.

Il sole riluceva alto nel cielo d’alta quota (Dust stesso doveva trovarsi ad almeno un paio di chilometri di altitudine), riflettendo i propri raggi sulle pareti più o meno lucide della fregata volante e degli edifici sotto di sé.

Mai si sarebbe aspettato che Mechanus potesse essere così spettacolare.

Tanto fu lo stupore che Silver Dust prese a roteare lentamente su se stesso, con il viso fisso nel cielo. Impattò inavvertitamente contro un pedone. Questo gli fece portare l’attenzione sugli abitanti che affollavano il luogo.

Se si era sentito fuori luogo in cabina, essendo tra i pochi a non indossare abiti, allora lì avrebbe avuto di che sprofondare per la vergogna. Tutti erano vestiti e per di più con abiti tutt’altro che comuni.

Ogni pony indossava capi d’abbigliamento che sarebbero stati di moda almeno due secoli fa: giacche in doppiopetto, maniche orlate, cappelli d’altri tempi, monocoli, gilet con cipollotti, fino alle gonne con crinolina.

Tutti si muovevano a loro agio lungo le strade accanto alla stazione, nei succinti indumenti che, per il puledro, sarebbero stati perfetti in un museo o alla parata storica di Ponalamo.

Si rese anche conto di come fosse un ambiente molto affollato, dove la raffinatezza e la cura paesaggistica erano state sostituite dall’utilità pratica offerta dalla tecnologia locale. Svariati ingranaggi, piccoli come una mela o grossi quanto una casa, sbucavano casualmente da pavimentazioni e pareti, ruotando secondo ritmi predefiniti. Diverse tubature, costellate di valvole, manometri e altri strumenti, ricoprivano sinuosamente strade ed edifici. Di tanto in tanto qualcosa si apriva o scattava, emettendo uno sfiato di gas, vapore o chissà quale altra diavoleria aeriforme. Il pony dagli occhi verdi fece una rapida stima del bronzo e del ferro ossidato che erano stati impiegati per costruire quella gargantuesca giungla urbana… e rabbrividì.

Tutto era stato progettato per assicurare un perfetto funzionamento esteso, proprio come il meccanismo di un orologio esportato su vasta, vastissima scala. Ma erano così tanti i sistemi e i macchinari sparsi per la città che a stento sembrava poco più di un caotico ribollire di metallo rumoroso, unto e arrugginito.  

    Nuovamente assorto nella propria contemplazione, il puledro non si rese conto che aveva iniziato ad indietreggiare. Toccò una sezione di ringhiera con un fianco e si voltò di scatto.

Senza pensarci due volte, si aggrappò alla struttura di sostegno con gesto felino. Spalancò gli occhi e strinse i denti.

Se da un lato la “montagna” saliva di quota… dall’altro doveva condurre a valle. E Silver Dust si rese conto di trovarsi su una piattaforma che era stata edificata orizzontalmente, a diverse centinaia di metri dal suolo montano, sostenuta da immense fondamenta di acciaio sottostanti, i quali si conficcavano diagonalmente nel terreno sottostante. La città di Mechanus occupava l’intera facciata del vulcano: quindi, sotto di lui, a chissà quanti metri di distanza, case e grattacieli continuavano a perdersi a vista d’occhio, fino a valle. Il vento fischiava forte, a malapena udibile in mezzo al caos urbano, e l’intera struttura non la smetteva di oscillare debolmente.

La paura per quell’improvvisa sensazione di vuoto venne parzialmente sostituita dall’ennesima emozione di stupore quando, risollevando lo sguardo, notò il cielo che sconfinava con le verdeggianti colline, su uno sfondo distante chilometri e chilometri.

Si sostenne alla ringhiera e si riportò tentennando in posizione eretta, con la criniera lambita dal vento e il volto bloccato in un’espressione di incredulità.

Fece qualche passo a ritroso, come se in quel modo potesse illudersi di avere la terraferma sotto gli zoccoli.

Passarono i minuti e il puledro prese qualche momento per ristabilire il controllo sull’ondata di sensazioni che lo aveva travolto. Tornò a scrutare tutto ciò che aveva visto, sperando che si sarebbe lentamente abituato a quel luogo a lui completamente estraneo.

Lo ammise: non pensava affatto che Mechanus potesse metterlo in tale soggezione. Tutto sembrava ruotare attorno ad una quotidianità per lui assolutamente incredibile. Nulla di ciò che aveva visto fino ad allora si poteva minimamente avvicinare alla metropoli di metallo su cui era approdato giusto pochi minuti prima.

Gli parve di essere finito in un altro universo, modulato dal ritmico ticchettare del proprio cuore di ingranaggi e vapore.

 

    Scosse il capo e fece un profondo respiro. Chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi.

Dopotutto, lui era lì per un motivo. E a Mechanus ci sarebbe rimasto a lungo, almeno fino a quando non sarebbe stato richiamato dalla Principessa: volente o nolente si sarebbe dovuto abituare al luogo, agli abitanti e a chissà quali stramberie che ancora non aveva avuto l’occasione di ammirare.

Riaprì le palpebre, sfoggiando uno sguardo deciso.

Inalò nuovamente aria nei polmoni e si fece coraggio.

“Andiamo…”, sussurrò a se stesso, pronto ad immergersi nella folla di pony non lontana da lui.

 

*** ***** ***

 

    L’unicorno dal manto grigio si ritrovò nel bel mezzo di una calca apocalittica.

Si sentiva decisamente fuori luogo, in mezzo a quell’assembramento di pony di stampo settecentesco. Di sicuro i visitatori non passavano inosservati, a Mechanus.

Si mise l’anima in pace e attese pazientemente che la folla avanzasse.

La stazione di attracco era davvero ingorgata. Sapeva che, all’esterno, qualcuno era lì ad attenderlo. Non aveva idea di chi fosse. Celestia non gli aveva detto nulla a riguardo.

Dopo svariati passettini e subendo innumerevoli spintoni, riuscì finalmente ad attraversare completamente l’enorme volta metallica della stazione, in cui voci e clangori rimbombavano in tutte le direzioni.

Si ritrovò infine al di fuori della struttura, dove poté rendersi conto di come appariva Mechanus vista dall’esterno.

    Gli enormi edifici svettavano alti nel cielo, impedendo sostanzialmente ai raggi solari di illuminare decentemente le strade e gli innumerevoli svicoli che si diramavano come radici nel terreno.

Le strade erano tappezzate di piastrelle vermiglie, su cui viaggiavano scoppiettanti mezzi su ruote, pilotati da tizi in tenuta da aviatore. I veicoli erano azionati da curiosi sistemi a vapore, in parte simili alle caldaie delle locomotive che già aveva visto. Erano soltanto più piccole ma lo smog nerastro che producevano era davvero paragonabile a quello di un treno su rotaia.

A quote più elevate, come al solito, sfrecciavano improbabili mezzi volanti, mossi da propellente sotto forma di vapore o meccanismi che azionavano ali di tela, eliche e altro ancora.

Perlomeno era riuscito ad allontanarsi dalla piattaforma sospesa nel vuoto, ritrovandosi lungo le strade che risalivano le pareti del vulcano fino alla cima.

Pur rimanendo caotica e sovraffollata, la zona gli donò una maggior sensazione di respiro, almeno rispetto alla stazione da cui era appena uscito.

Scrutò i dintorni, aspettandosi di incrociare lo sguardo di qualcuno che lo avrebbe riconosciuto. Si vedeva lontano un miglio che non era di quelle parti. E poi il marchio serviva anche a quello: un immediato riconoscimento.

Attese svariati minuti, ritto sulle zampe, ma nessuno parve notarlo.

Dopo un po’ la sua mente glielo comunicò chiaramente: erano passati ventotto minuti e quindici secondi e nessuno si era ancora fatto vivo.

Decise quindi di camminare lungo la facciata della stazione: forse così lo avrebbero notato.

 

    Percorse alcune decine di metri in una direzione, stando attento a non allontanarsi troppo. Niente. Tornò quindi indietro e fece altrettanto nella direzione opposta.

Si fermò, con volto parecchio scocciato. Decise di controllare alcuni vicoletti e si rese conto di come, negli anfratti lontani dalle strade principali, grasso, olio e rottami fossero ammassati in modo tutt’altro che piacevole allo sguardo. Alcuni pony, con abiti sgualciti e aria malandata, erano seduti lungo il ciglio o camminavano lentamente per i marciapiedi. Qualche disgraziato rovistava nei mucchi di scarti metallici.

Ingranaggi e stantuffi erano in moto perpetuo, esattamente come gli altri, ma quelli in particolare gli sembrarono visibilmente logori e  rovinati, come se le opere di manutenzione fossero più uniche che rare.

I vicoli, insomma, nascondevano una realtà ben diversa da ciò che poteva invece apparire lungo i viali principali. Silver Dust decise che era meglio non addentrarsi troppo.

Spazientito, sbuffò dalle labbra, sollevando un ciuffone di crini scuri che gli era calato sul muso.

Si girò e fece per andarsene, quando un rumore improvviso lo costrinse a gettarsi a terra, digrignando i denti.

 

    Un boato fragoroso proruppe alle sue spalle. L’unicorno si coprì il capo con gli zoccoli e si sdraiò fulmineamente, come se si trovasse nel bel mezzo di una rapina in  banca. Sentì qualcosa sfrecciare sopra di lui, simile ad una lama che fende l’aria: con la coda dell’occhio intravide una grossa lamiera di metallo sorpassarlo come un frisbee. L’oggetto rimbalzò un paio di volte sulle piastrelle del viale, quindi si conficcò di netto in una delle pareti dei palazzi, sollevando una miriade di scintille. Uno dei passanti per poco non si vide fare lo scalpo e corse via urlando terrorizzato.

Silver cercò di capire cosa diamine fosse successo ma un’improvvisa cappa di fumo lo investi in pieno.

Vuoi vedere che uno di quei trabiccoli è saltato in aria?”, pensò, ancora decisamente confuso.

Non fece in tempo a terminare il pensiero che delle imprecazioni sguaiate proruppero dalla stessa direzione dello scoppio e qualcuno gli galoppò accanto, mancandolo per un soffio.

“STUPIDA PULEDRA!!”, tuonò un vocione. “CHE CAVOLO HAI COMBINATO AL MIO LOCALE??”.

Il fumo iniziò a diradarsi. L’unicorno era sempre riverso a terra e spostò leggermente una delle zampe dalla fronte, permettendogli di vedere.

    Uno stallone stava urlando da un piccolo edificio a lato della strada. Il fumo proveniva dalla porticina divelta da cui sbraitava. Della porta, tuttavia, non rimanevano che i cardini penzolanti. Il pony dai crini neri intuì come quest’ultima fosse l’oggetto che aveva appena tentato di decapitarlo.

L’energumeno (probabilmente il proprietario) era su tutte le furie. Agitava una zampa a mezz’aria e strillava a squarciagola. Sembrava inveisse verso di lui, mentre in realtà ce l’aveva con il pony che per poco non lo travolgeva.

Si rimise in piedi, spaventato quanto preoccupato. Dalle ultime lingue fumose vide emergere un unicorno.

Era una giovane puledra che indossava una curiosa bardatura, qualcosa che Dust ancora non aveva visto a Mechanus. Il corpo del pony era infatti ricoperto da una raffinata corazza formata da sottili placche sovrapposte. Il metallo, simile al rame, era tirato a specchio; sotto le giunture era invece visibile una sottoveste in cuoio. La corazza la avvolgeva completamente fino alla base del collo, zampe comprese. Sempre nei punti di giuntura, proprio sotto le placche, piccoli ingranaggi ruotavano in moto frenetico e costante. Un paio di ali meccaniche erano infine ripiegate lungo i suoi fianchi, con piume simili a lame scintillanti.

Non ebbe molto tempo per soffermarsi sul vestiario, poiché i due iniziarono a litigare animatamente.

La proprietaria della corazza possedeva un manto color creta, con scompigliati crini color ruggine, intervallati da ciuffi ramati. Anche la coda era scompigliata e sbucava dalla parte posteriore dell’armatura, su cui era stata applicato del tessuto vermiglio che le copriva parte delle zampe. Il suo sguardo, sulle prime, gli parve mortificato. Non appena l’altro iniziò ad apostrofarla con male parole, divenne tuttavia fiero e deciso, mettendo in risalto penetranti occhi smeraldo.

“MI HAI SFASCIATO LA MACCHINA PER IL CAFFÈ E DISTRUTTO LA PORTA, RAZZA DI PAZZOIDE!!”, riprese lo stallone.

L’altra rispose a tono, pur mantenendo le distanze: “HO SOLO CERCATO DI MIGLIORARE QUEL CATORCIO!!”.

“MIGLIORARE??”, ruggì. “Ti avevo solo chiesto di dargli una controllata!!”.

L’unicorno bardato aggrottò le sopracciglia: “Quella macchina era obsoleta!”, spiegò. “Con quella modifica avresti potuto incrementare la pressione peristaltica di almeno…”.

Il proprietario del locale si spazientì ulteriormente: “…peri… che cosa? Ma che diavolo vai blaterando?? VOLEVO UNA RIPARAZIONE!! ORA INVECE MI TOCCHERA’ ROTTAMARLA E PRENDERNE UNA NUOVA!!”.

“Se non avessi evitato la manutenzione periodica non…”.

“NON DIRMI COSA DEVO O NON DEVO FARE CON LE MIE COSE!! Stai pure tranquilla che farò il conto dei danni e che mi risarcirai!!”.

Dopo aver udito quelle parole, la puledra abbassò le orecchie e perse la sua baldanza. Assunse un’espressione dispiaciuta e si avvicinò di qualche passo al bestione, dichiarando con voce incerta: “…m-ma… Lo… lo sai che non ho quasi un quattrino…”.

“Non mi importa una carrucola!! Trova i soldi! Chiedi un prestito! Vendi una delle tue stramberie!!”.

“Non puoi farmi questo!!”, protestò.

L’altro si avvicinò ad un mucchio di rottami in un angolo, afferrò una paratia metallica mezza sfracassata e la utilizzò come porta momentanea. Prima di richiuderla le intimò: “QUESTA È L’ULTIMA VOLTA CHE TI FACCIO METTERE ZAMPA SULLE MIE COSE!! Non mi importa se tuo padre era un cliente abituale! Dammi i soldi e poi… NON FARTI PIU’ VEDERE!!”.

L’oggetto improvvisato si incastrò malamente nei cardini e il pony tornò all’interno, sbattendo violentemente la portella dietro di sé (che per poco non si staccò di nuovo).

 

    Silver scosse il capo, decisamente inebetito.

Che diavolo era successo?

L’unicorno di fronte a lui, dandogli le spalle, chinò il capo e parve incupirsi.

Il puledro rimase in silenzio ad osservarla. Gli sembrò l’occasione giusta per girare gli zoccoli e andarsene ma l’altra lo bruciò sul tempo: si voltò e, furente, iniziò a camminare su e giù come una furia.

“STUPIDO BIFOLCO RAZZA DI IMBECILLE PRIVO DI ENCEFALO CRETINO IDIOTA!! EHY!!”, strillò verso il locale. “AVEVO UN PAIO DI OCCHIALI CON ME, MI PARE!!”.

La portella si riaprì un ultimo istante ed un paio di occhialoni da aviatore volò verso di lei, cadendo sulle piastrelle annerite dall’esplosione.

“Mhf. Grazie a ‘sta marmitta…”, borbottò il pony in armatura, sollevando magicamente l’oggetto ed infilandoselo sotto al muso a mo’ di girocollo. Si accorse quindi che Silver la stava fissando.

“E TU CHE HAI DA GUARDARE??”, strillò inviperita.

L’altro ebbe un sussultò e si ritrasse leggermente, alzando una zampa al petto: “Orgh… eh… cioè… io…”.

La puledra gli passò accanto, allontanandosi con camminata decisa, tipica di chi aveva un diavolo per crine. Alcuni sfiati di vapore sibilarono improvvisamente da minuscole valvole della bardatura. “Senti non ho tempo”, commentò dandogli le spalle, senza smettere di muoversi. “Se anche tu vuoi rivolgermi qualche insulto allora scrivimeli e spediscimeli per raccomandata. Ho perso già fin troppo tempo, qui…”.

Dust pensò fosse meglio non rispondere e lasciare che la pazzoide se ne andasse con le buone.

La tizia si fermò all’improvviso e si voltò lentamente verso l’unicorno grigio, con occhi socchiusi.

“…quel marchio…”, sussurrò.

“Eh… q-questo?”, farfugliò l’altro, posando per un secondo lo sguardo verso la propria coda.

Il pony dai crini ramati assunse un atteggiamento a metà tra l’impettito e l’autoritario. Lo scrutò da cima a fondo e poi gli disse: “Mh… Tu sei… Silver Bust, per caso?”.

“Uh… Dust… Silver Dust…”, rispose debolmente.

“Ah”, puntualizzò, con una lieve nota di arroganza. “Quindi sei già arrivato…”.

Il pony dagli occhi dicromici avrebbe voluto lanciare un incantesimo di invisibilità (se solo ne fosse stato in grado): quella schizofrenica era il suo… comitato d’accoglienza?

“Devo ammettere”, continuò l’altra, “che mi aspettavo qualcuno un po’ più…”.

“…più?”.

“Sì insomma… fighetto”.

“…fighetto??”.

“Tu non arrivi direttamente da qualche stamberga per principessine?”, gli domandò sgarbatamente.

“Stamb… intendi il castello della Principessa…?”.

La puledra sembrò annoiata e, con volto di sufficienza, lo interruppe: “Intendo… il regno magico e incantato, con farfalle e tulipani, da cui dovresti arrivare…”.

“Il… cosa?”.

L’unicorno dagli occhi smeraldo scosse il capo, si mise una zampa sul muso e chiuse le palpebre. Fece un profondo sospiro.

“Ok”, gli disse infine. “Senti… dammi un secondo che mi riprendo. Ho ancora l’arrabbiatura che mi pompa nelle vene, come una turbina a cavitazione in un reattore…”.

Silver attese.

L’altra si avvicinò a lui e, con volto leggermente più rilassato, dichiarò: “Mi chiamo Copper. Copper Head”.

“…piacere. Silv…”.
“Sì, lo so, l’hai già detto prima. Silver Dust”, tagliò corto. “Senti… ti dispiace se ci leviamo di torno? Più rimango qui e più mi vien voglia di fargli saltare ben altro, oltre alla macchina del caffè, a quello zotico ignorante…”.

“Ah… o… ok…”.

“Seguimi”, gli intimò, trottando verso uno dei viottoli malfamati.

 

Dust, sulle prime, penso di far finta di nulla, imboccare uno svincolo e prendere il primo zeppelin di ritorno per Canterlot.

Ma aveva stretto un patto con la Principessa. Non si sarebbe fatto molti problemi a romperlo, nel caso di un pony qualsiasi… ma la Principessa… no, non poteva proprio farlo.

Così raccolse perseveranza e coraggio e (anche se con un’elevatissima dose di controvoglia) prese a seguirla.

 

Il suo ultimo pensiero, addentrandosi nei viottoli e sapendo in quale tipo di sozzume si sarebbe ritrovato, andò al richiamo antitetanica.

 

E anche a qualche spergiuro.

 

*** ***** ***

 

    La coppia trottò tra le strette mura dei vicoli laterali.

Copper era in testa, con passo spedito, mentre Silver era più impegnato a schivare la sporcizia e la spazzatura arrugginita sparsa un po’ ovunque.

Durante la veloce camminata, passarono d’innanzi a numerose abitazioni fatiscenti, logore insegne penzolanti e meccanismi rumorosi. Incrociarono anche parecchi abitanti dall’aspetto trasandato ma la puledra li oltrepassò senza farci molto caso.

Dust cercò di tenere il ritmo e poté osservare meglio la curiosa bardatura della sua nuova guida. Nonostante fosse quasi completamente di metallo, lucido e rifinito, era estremamente silenziosa. Il clangore tipico delle corazze era sostituito dal ronzio altalenante degli ingranaggi che si intravedevano dalle giunture. Soltanto alcune valvole, di tanto in tanto, si aprivano e lasciavano sfogare un filo di vapore. Il puledro intuì come quell’apparecchiatura nascondesse in realtà un’anima ben più complessa di quanto apparisse dall’esterno.

La curiosità iniziò a crescere in lui, ben presto sostituita da una sensazione di lieve preoccupazione: dove si stavano dirigendo?

“Uh…”, accennò, continuando a seguirla. “Dove… dove stiamo andando?”.

“Te l’ho detto”, rispose, senza nemmeno rallentare. “Ci allontaniamo da qui”.

“Sì ma…”, aggiunse perplesso, “…perché dobbiamo… insomma… passare per questi vicoletti? Non sarebbe molto meglio muoversi per le strade principali? Mi sembrano molto più…”.

“Non mi va di farmi vedere troppo in giro”, concluse seccamente.

“Ah. O-ok. Ma… da qui non posso vedere nulla a parte…”. Silver Dust mise inavvertitamente una zampa su una chiazza d’olio, ebbe uno svarione e per poco non capitombolò a terra. Riprese quindi a trottare. “…dicevo… a parte questo… luridume… E invece dovrei carpire informazioni sulla città e…”.

L’altra si fermò di colpo, voltandosi. Il pony dai crini scuri ebbe un leggero sussulto.

“A proposito…”, intervenne Copper, con aria indagatoria. “Esattamente tu cosa ci fai qui, mh?”.

“Ah… io… te l’ho detto… Mi ha inviato la Principessa Celestia…”.

“Ok. Intendo… a parte questo. Cosa devi fare qui? Qual è la tua scala operativa?”.

“Scala… operativa? In verità…”, confessò, “pensavo che tu potessi dirmi di più…”.

“Io? E che ne dovrei sapere, io? Ho solo ricevuto un telegramma da un fattorino, per il resto ho avuto ben altri grattacapi a cui pensare, piuttosto che progettare la tua permanenza qui…”. Dust pensò si trattasse di una puledra decisamente affaccendata. O estremamente folle. L’altra continuò: “Quindi? Cosa devi fare qui, esattamente?”.

“Beh… non saprei. Mi è stato chiesto di studiare la vostra cultura, la vostra tecnologia… insomma… prendere informazioni”. Il puledro omise volontariamente la parte in cui lui avrebbe potuto essere d’aiuto a Mechanus (per cosa, poi, manco lo sapeva).

Le palpebre dell’unicorno in armatura calarono visibilmente: “Cioè… fammi capire… La Principessa ti manda qui senza un obiettivo preciso se non… studiare le nostre usanze?”.

“Detta in parole semplici… sì”.

“Ah!”, ridacchio sfacciatamente. “Voi sempliciotti di campagna pensate di venire a Mechanus a prendere appunti?”.

Il matematico non era tipo da polemica ma l’atteggiamento strafottente della puledra iniziò ad innervosirlo. Le lanciò un’occhiataccia: “…siete tutti così nervosi da queste parti o sei tu ad aver bevuto troppo caffè? Intendo… prima di far esplodere qualche altra caffettiera…”.

L’altra tornò improvvisamente seria e lo ammonì: “Ehy…”.

“Senti”, cercò di spiegare. “Sono qui da meno di un’ora e mi son visto quasi mozzare la testa da una porta rotante, sono stato investito da un’esplosione ed ora sto correndo con una sconosciuta in mezzo a vicoletti puzzolenti. Scusa se mi chiedo se sono l’unico sano di mente, qui”.

“Mhf”, borbottò l’unicorno color creta, alzando le sopracciglia. “Ok, ok… Va bene. Quindi? Che vorresti fare?”.

Silver si grattò la chioma: “Uhm… Magari potrei… non so… fare un giro per Mechanus, tanto per cominciare?”.

“Stiamo girando per Mechanus…”.

Il puledro si sentì preso in giro: “Intendo… fuori da vicoli fetenti. E possibilmente alla luce del sole”.

L’altra sospirò, come se la cosa non le piacesse affatto: “Uff… va bene, come vuoi. Facciamo un giro per la città. Buttiamoci in mezzo alla calca di passanti e al casino del pieno centro…”.

E lo condusse al di fuori dei budelli.

 

    La coppia sbucò in una grossa piazza circolare, sufficientemente ampia da far arrivare un po’ di sole. La zona era lambita dal solito andirivieni di passanti, mezzi e velivoli. L’ambiente, pur rimanendo tutt’altro che lindo, era decisamente più ordinato e presentabile, rispetto alle stradine che avevano appena abbandonato.

Attorno alla piazza, al pian terreno dei colossali edifici, era persino possibile ammirare alcune vetrine con assurde stramberie esposte.

Silver Dust si prese qualche minuto per rimirare l’ambiente a lui completamente estraneo. Copper Head, invece, si annoiò rapidamente: “…soddisfatto? Ora possiamo andarcene?”.

“Che fretta che hai”, protestò. “Siamo appena arrivati. Dammi almeno il tempo di scrivere qualcosa”.

L’unicorno dai crini color ruggine ruotò gli occhi al cielo, mentre il compagno estrasse magicamente un libro e una matita. Li tenne sollevati d’innanzi a sé e si concentrò verso ciò che stava osservando. Iniziò a scrivere, cercando di estraniarsi dal rumore della folla e dell’intera città.

Si avvicinò quindi ad una delle vetrine e vide alcuni manichini agghindati con gli abiti d’altri tempi che quasi tutti indossavano. In un altro negozio vide invece strani alambicchi di metallo, di cui si domandò l’utilità. Notò inoltre come, a quasi ogni angolo delle mura urbane, fosse affissa una miriade di volantini, dalle dimensioni variabili. Su ognuno di essi era reclamizzato un qualche tipo di prodotto, dalle creme ringiovanenti all’ultimo modello di mezzo su ruote. Le pubblicità ricordavano la propaganda di quasi un secolo fa, con pony sorridenti e acquirenti felici.

 

Mai più con gli zoccoli a terra, con la nuovissima Speedster 3000!”, era riportato su un cartellone, che raffigurava un tizio che, gioioso, guidava un osceno veicolo a carbone, pieno di tubi e marmitte.

 

Su un altro vi era riportato un pony triste e stanco, schiacciato da una montagna di fogli da compilare.

La stanchezza ti annerisce? Mandala in bianco, con la nuovissima Pillola Rinvigorente!”.

Seguiva un’altra scenetta in cui il pony, improvvisamente pimpante e muscoloso, si disfava bellamente del mucchio di carta.

 

Copper Head, intanto, si sedette ad aspettarlo, vagamente nervosa. Iniziò a scrutare con diffidenza chiunque le passasse attorno, come se si sentisse in enorme disagio o dovesse nascondere qualche segreto. Non le piaceva starsene ferma in un posto troppo a lungo, così colse la palla al balzo.

“Ehy, coso. Dust?”, disse al pony.

“Mh?”, mugugnò l’altro, assorto nelle proprie scritture.

“Senti… da qui non si vede nulla. Perché non saliamo un po’ lungo il crinale? Più in alto ci dovrebbero essere dei punti di osservazione”.

Silver si bloccò, improvvisamente interessato, e ruotò lentamente il capo in direzione dell’altro unicorno.

 

“Nel mentre”, continuò Copper, “potrei spiegarti qualcosa in più su Mechanus. Che ne dici?”.

 

*** ***** ***

 

    I due si ritrovarono quindi a marciare lungo una lieve pendenza in salita, verso alcuni degli edifici posti ad altitudini maggiori.

Questa volta, Copper stava camminando tranquillamente, a fianco dell’altro, e sembrava essere meno nervosa.

Dust, sempre col libro sollevato, la ascoltava con attenzione, scrivendo qualcosa di tanto in tanto.

“...così, dopo aver affinato la tecnologia a vapore”, gli spiegò l’abitante di Mechanus, “partì un enorme progetto per l’integrazione dei meccanismi per l’edilizia”.

“Affascinante”, commentò il puledro, prendendo nota. “Non ho mai visto un uso così intensivo della forza vapore”.

Copper non era troppo avvezza al ruolo di oratrice ma si sentì in dovere. Era pur sempre un allievo della Principessa.

“Già”, rispose. “Beh, è il motivo per cui Mechanus è famosa, dopotutto”.

La coppia continuò a camminare, dirigendosi verso uno spiazzo in fondo ai viali, passando in mezzo al solito trantran di macchine e abitanti.

“E… che materiali sono questi?”, chiese, osservando i numerosi edifici attorno. “Dall’aspetto direi… bronzo? Rame? Qualche lega particolare, insomma?”.

“Più o meno. Mechanus estrae una quantità spropositata di minerali. In parte li vendiamo e in parte li convertiamo in materiale da fonderia”.

“Quindi sono metalli raffinati?”.

Copper si fermò e puntò uno zoccolo in direzione della lontana colonna di fumo del vulcano.

“Lo vedi quello?”.

“Direi che si nota facilmente…”.

“Bene. Ora segui la mia zampa”. Con quelle parole, Dust notò un complesso e intricato sistema di tubi che proseguiva fino a valle, in parte sospeso sopra o tra le abitazioni, in parte interrato sotto le strade.

“Quei condotti”, riprese, “convogliano il magma incandescente dritto a valle”.

“M-magma??”, sbottò preoccupato. “Ma… ma non è possibile!”.

“Non sarebbe possibile… se non fosse che i metalli di Mechanus vengono fusi sotto l’assistenza di incantatori specializzati nell’arte della fusione. Si tratta di un materiale estremamente flessibile e refrattario al calore. Fornisce inoltre un isolamento perfetto e consente alla lava di giungere a valle senza solidificarsi”.

Silver stentò a crederci: “E… perché convogliate la lava?”.

L’insegnante improvvisata lo invitò a controllare il paesaggio alle sue spalle, costituito da colline e vallate lontane, piene zeppe di enormi laghi.

“Vedi quelle pozzanghere un po’ grosse? Si chiamano laghi”. Dust si sentì di nuovo trattato come un poppante. “La lava viene spedita in alcune strutture ed utilizzata per produrre vapore pressurizzato dall’acqua dolce. Condotti analoghi permettono quindi al vapore di risalire e venire poi distribuito per l’intera città, grazie ad enormi centraline di smistamento”.

“…pazzesco… sul serio…”.

“L’esubero torna nell’atmosfera e il processo di condensazione dei pegasi fa il resto. Poi piove, l’acqua torna ai laghi e…”.

“Sì, grazie”, la interruppe infastidito. “Conosco il normale ciclo piovano…”.

“Ah già. Dimenticavo che tu vieni dai campi di riso”.

Il pony grigio cercò di risponderle per le rime ma Copper lo invitò a raggiungere lo spiazzo.

 

    Il piazzale, meno affollato rispetto al centro cittadino, era stato costruito orizzontalmente, proprio come la stazione di attracco. Era però molto più piccolo e grazioso, con strane sculture metalliche sparse qua e là (forse una forma d’arte decisamente atipica per le abitudini del puledro). Non vi erano passerelle, sotto i loro zoccoli, bensì solide e (quasi) lucide piastrelle. Grazie a tale conformazione, Dust poté ragionevolmente avvicinarsi alle ringhiere, senza farsi cogliere dalle vertigini.

E non poteva non ammetterlo. Mechanus, vista da certe angolazioni, era davvero spettacolare. Un lucente tappeto urbano di sotto; prodigiosi velivoli fluttuanti sparpagliati invece nel cielo.

Dopo una breve pausa per ammirare il paesaggio, riprese a segnarsi alcune cose sul libro.

Copper Head si avvicinò alla ringhiera e vi poggiò le zampe anteriori, evidentemente abituata a sporgersi da simili altitudini.

Silver sollevò gli occhi per un istante e si accorse di come il volto della compagna si fosse momentaneamente perso verso l’orizzonte, con un vago segno di melanconia.

Ripose delicatamente il libro nella sacca e scrutò meglio la città, decidendosi poi a farle altre domande.

“…ho anche notato…”, sussurrò, “…che c’è una certa… disparità sociale… o sbaglio?”.

L’altra si voltò sorpresa: “…ti riferisci a…?”.

“Da qui non si nota bene, inghiottito dalla maestosità di questi grattacieli. Ma è impossibile non notare il degrado di alcune zone… come dire? In ombra?”.

“No… no, hai ragione”, ammise, con un velo di tristezza. “È uno degli effetti collaterali di questo boom demografico”.

“Crescita incontrollata?”.

“Diciamo che il problema più grande è stato il potenziale che i privati hanno intuito in questa città”.

“Privati? Intendi… ditte private?”.

“Esattamente. Questo posto è un concentrato di minerali interrati, opportunità capitaliste e altre cose interessanti. Cose che solo a Mechanus possono essere trovate”.

“Il vapore? I velivoli?”.

“Non solo il vapore. Nel vulcano di prima, ad esempio, vengono estratte le Pietre Ignee. Sono rocce incantate che nascono nelle profondità dei luoghi più caldi del Creato. Hanno la proprietà di trattenere e sprigionare quantità incredibili di calore, per le loro dimensioni. Una risorsa più unica che rara, soprattutto per lo sviluppo di mezzi semoventi mossi da vapore”.

Il vento d’alta quota si levò gentile, scompigliando leggermente le chiome ai due.

“Insomma c’è stata una sorta di… corsa al fuoco?”, ipotizzò il visitatore.

“Sì. Un sacco di imprenditori sono giunti per fare fortuna e, tra tutti, sono spiccati solo i più ricchi e potenti. Gli altri o sono falliti o sono stati mangiati dai pesci grossi. Si sono fatti una montagna di soldi, investiti nello sviluppo di infrastrutture, per fare ancora più quattrini”.

“Un circolo vizioso…”.

“Già. Peccato che, in mezzo a tutto questo sviluppo, c’è chi deve andare a lavorare negli scavi, in condizioni pietose… per garantire vapore e comodità ai ricchi che sono nati da questo sviluppo smodato”. La puledra si girò ad osservare la piazza. Era molto bella ma, in alcuni angoli più o meno nascosti, iniziavano ad intravedersi lerciume e povertà. “Il grosso della città, vista da occhio inesperto, può sembrare una sorta di… enorme macchina prodigiosa”, narrò, aiutandosi con ampi gesti delle zampe.

Poi si incupì leggermente.

“La verità… è che il degrado viene nascosto. Gli operai ed i manovali partono all’imbrunire e tornano a casa prima dell’alba, viaggiando ammassati su enormi zeppelin volanti o in colossali treni a vapore. Nessuno quasi li nota. Vengono pagati una miseria, mentre le industrie si arricchiscono in modo spietato. E tutto questo è stato incentivato dall’espansione incontrollata, che non ha lasciato il tempo ai capitali di diluirsi tra la popolazione”.

Silver si sfregò una zampa, mostrando un volto estremamente dispiaciuto: “Uao… cioè… non… non credevo che esistesse una realtà simile…”.

Copper lo invitò nuovamente a controllare l’enorme città di metallo, con un ampio gesto dello zoccolo: “Da fuori potrai vedere una stupenda pelle scintillante. Ma sotto… nelle viscere… il vero cuore di Mechanus viene mosso da un unico insieme di povertà e miseria”.

“E la giustizia non fa nulla?”, domandò indignato. “Non potete denunciare queste cose al vostro Regnante?”.

L’altra gli rispose con una risata forzata, quindi cercò di essere più precisa: “Regnante? Vuoi scherzare? Forse, da dove vieni tu, c’è una puledra volante dai boccoli dorati, in grado di gestire in pace ed armonia qualche villaggetto sparso per le campagne. Qui, invece, hai idea della densità demografica in cui ci troviamo?”.

“Beh ma dovrà pure esserci qualcuno che gestisce questa parte del Regno!”.

“Certo. Attualmente è… uhh… aspetta fammi controllare…”. Il pony dagli occhi smeraldo controllò alcuni manifesti, quindi puntò lo sguardo sull’enorme fregata che volava nel cielo.

“Umh…”, bofonchiò. “Direi che quello è lo stemma dei Divites. Sì. Sono loro in carica, attualmente”.

“…carica? Cioè non avete un Regnante fisso?”, domandò perplesso.

“Te l’ho già detto, pony di campagna. Qui non ci sono Regnanti. L’ordine generale viene mantenuto da chi ha più soldi, per farla breve”.

Dust sembrò trasalire: “…ma! È un’assurdità! In pratica vi fate comandare dal più ricco??”.

“Qualcosa del genere. I soldi sono tutto, a Mechanus. Te ne renderai ben presto conto”.

    L’allievo della Principessa notò quindi un piccolo distaccamento armato eseguire una breve ronda attorno al piazzale. Anche Copper li notò e distolse subito lo sguardo, come se non volesse farsi vedere.

Era una manciata di unicorni, ricoperti da una pesante e rumorosa corazza di bronzo o rame (o qualsiasi cosa si avvicinasse all’aspetto dei due materiali). Gli stalloni, con andamento lento e implacabile, si spostarono con circospezione tra i passanti. L’armatura doveva essere molto pesante, con spessi rinforzi applicati al petto, agli zoccoli e al collo. Inquietanti elmi ne nascondevano i volti: la celata poteva ricoprirne l’intero muso ed era stata modellata imitando il ghigno rabbioso di un equino. L’unicorno in testa, tuttavia, teneva il viso scoperto.

L’armatura di Copper Head, in confronto, sembrava una vestaglia intarsiata. Le loro erano enormi, sproporzionate e, con quegli elmi, anche piuttosto spaventose. Su ciascun fianco portavano rispettivamente uno scudo circolare pieno di bozzi e una lancia stranamente corta.

Uno dei soldati pizzicò un poveraccio intento ad elemosinare. Il suo corno, debitamente protetto dal casco, in modo da farne uscire solo la parte terminale, accumulò potere. La lancia prese a levitare di fronte a lui e, dopo uno scatto metallico e sbuffi di vapore dall’impugnatura, triplicò quasi di lunghezza, puntando dritta al petto dello sfortunato.

La voce dell’energumeno proruppe profonda e metallica, amplificata dal metallo che indossava: “Non è permesso svolgere simili attività illegali, feccia”.

“M-m-ma… ma io…” protestò.

“Seguici e non fare storie”, gli consigliò il pony dal volto scoperto. “Opponi resistenza e dovremo agire con la forza”.

L’altro non poté far altro se non ubbidire.

Lo portarono via, accompagnati dal clangore delle loro corazze.

 

    Dust tornò con l’attenzione sulla compagna, che parve visibilmente risollevata.

“Quella è… la vostra forza di sicurezza?”.

“Chiamali pure così”, commentò infastidita. “Io userei termini ben più folcloristici…”.

“Ma a chi obbediscono?”.

“Difficile dirlo. Ogni tanto si mettono al servizio del riccone in carica… ogni tanto si comportano da mercenari… altre volte obbediscono solamente a se stessi”.

“Che caos…”, sussurrò il puledro, scuotendo il capo. Si accorse quindi di come non fossero di certo gli unici soldati, da quelle parti. Ce n’erano più o meno ad ogni angolo della città.

Udì quindi un tonfo lontano e si sporse dalla ringhiera, per osservare meglio. Sotto di loro, in mezzo ad uno dei viali lontani, notò qualcosa di gigantesco avanzare lentamente per le strade.

Era una poderosa macchina a vapore, grossa quanto una casetta. Possedeva le sembianze di un equino di metallo e si muoveva con passo lento e pesantissimo, producendo vibrazioni ad ogni colpo di zoccolo sul lastricato. Attorno a lui, di scorta, vi erano altri soldati in armatura.

“CHE CAVOLO È QUEL COSO??”, domandò sbalordito.

Il macchinario cigolava e strideva come un ferrovecchio, accompagnato da costanti fughe di vapore. Ciò che non era protetto dallo spesso strato di corazza metteva in bella mostra ingranaggi e meccanismi in costante movimento.

“Oh, quello?”, rispose l’altra, con aria annoiata. “Quello è un Calcator. Ma io lo chiamerei grosso e rumoroso aggeggio su zampe”.

“È grande quanto il vagone di un treno!”.

Il Calcator si fermò e il suo muso, con due grosse lenti un po’ sporche come occhi, ruotò alcune volte, producendo nuovamente stridii fastidiosi. Riprese quindi la propria marcia, dopo l’ennesimo sfiato. Sembrava una sorta di soldato troppo cresciuto, con una corazza ramata mostruosamente pesante. Era anche discretamente danneggiata, piena di graffi e ammaccature.

“E poi”, domandò nuovamente l’unicorno grigio, “non vedo alcun tipo di combusto! Solo sfiati di vapore! Come fa a muoversi?”.

“La Pietre Ignee, te l’ho detto prima. Con una manciata di pietruzze magiche e una caldaia, quell’affare può sviluppare pressioni così potenti e così a lungo da permettergli di marciare per ore ed ore. L’interno è occupato da uno di quei maniaci militari: basta legarsi alcuni cavi in punti chiave del corpo e l’aggeggio riprodurrà i movimenti del pilota”.

“Ma a che diavolo serve?”.

“Tante cose”.

“…cose?”, ribadì incerto. “Cavolo, Copper! Le ho viste le corazze e le armi di quei tizi! Sembrano piuttosto logore e malandate… e questo significa che le usano spesso”.

L’altra assunse un atteggiamento schivo e sembrò evitare il discorso.

Dust riprese a controllare la pattuglia: “…più che una forza di sicurezza sembra un distaccamento d’assedio…”. Alzò quindi gli occhi al cielo e notò le spaventose armi da fuoco che la fregata volante aveva in bella mostra. Il puledro si voltò verso l’altro unicorno per porle altre domande ma Copper si stava lentamente allontanando.

“Ehy! Dove vai?”.

“Mi sono stufata di stare qui”, gli rispose, con voce calante.

Il pony grigio riaccorciò le distanze. Aveva la netta impressione che l’altra volesse volutamente chiudere il discorso. Ma lui non era molto avvezzo all’empatia sociale, così pensò di poter essere in errore.

“O-ok. Ma… riguardo questi soldati…”, continuò mettendosi al suo fianco.

“Sono soldati”, sbottò seccamente l’altra. “Prendono, pigliano, affettano. Fanno roba da soldati. Voi non avete soldati, da dove vieni?”.

“Beh, sì ma… ma non sembrano equipaggiati come se dovessero muovere guerra da un momento all’altro…”.

Copper si fermò: “Senti… mi hai riempita di domande… ti spiace se facciamo un po’ di pausa, per oggi? Ho la gola secca…”.

Quelle parole non convinsero per niente il giovane, che decise comunque di non insistere ulteriormente.

Pensò di porle un’ultima domanda: “Solo un’altra cosa”.

“Mi sembrava di averti detto: basta per oggi”.

Dust alzò gli occhi al cielo: “Noto che è pieno di aggeggi volanti, qui a Mechanus. Ma di pegasi nemmeno l’ombra”.

“Queste zone sono interdette al traffico aereo dei pegasi”.

“…come, scusa?”.

L’interlocutrice, sempre più spazientita, cercò di essere chiara: “I pegasi non possono volare, fatta eccezione per determinate scorte armate”.

“E per quale motivo, scusa?”.

Copper alzò le spalle: “Che vuoi che ti dica? È così e basta. Il grosso di Mechanus è composto da unicorni. Credo che gli unicorni, da queste parti, abbiano da sempre invidiato la capacità di volare dei pegasi. Quindi, quando si sono arricchiti e ne hanno avuto la possibilità, hanno creato un traffico aereo artificiale, rendendolo l’unico legalmente tollerato”.

“Quindi non c’è solo un divario sociale… ma anche… razziale?”.

“Cosa ti avevo detto un attimo fa? I soldi sono tutto, a Mechanus”.

“Non credevo si arrivasse a simili livelli…”.

“Ti dirò di più. La maggior parte dei manovali che lavora nelle cave sono tutti pony di terra. Un’assonanza beffarda, non trovi?”.

Silver notò le lunghe ali metalliche che il pony bardato teneva ripiegate sui fianchi.

“È per questo che la tua corazza ha… le ali?”.

Copper si fermò, quindi si voltò verso di lui, con aria saccente.

“Primo”, specificò, alzando uno zoccolo e chiudendo gli occhi. “Questa non è un’armatura. È un esoscheletro di potenziamento assistito. E secondo…”.

“…secondo?”.

“Niente. Niente di importante…”, concluse, riprendendo la marcia.

“Può o non può volare? E poi sei l’unica, in giro, ad indossare una cosa simile. Non ne ho viste altre, perlomeno”.

Ogni cosa, in lui, sembrò infastidire Copper e il puledro non ne comprese il motivo.

“Senti… ti ho già detto che per oggi chiudiamo qua. Magari ne riparliamo domani, mh?”.

“…d’accordo. Come vuoi…”.

“Bene. Arrivederci”, e fece per allontanarsi.

“Ehy! Come arrivederci??”, trasalì.

“Me ne torno a casa. Tu vai dove preferisci”.

“Ma non ho un posto dove stare!”.

“Beh, pagati un ostello. Sei il ninnolo di una Principessa. Scommetto che in quelle sacche avrai borse di monete o un mazzo di assegni firmati”.

“In verità la Principessa confidava nella tua ospitalità…”.

L’unicorno in armatura assunse un atteggiamento indisponente: “Cosa? Non scherzare. Non ho il becco di un quattrino. Riesco a malapena ad arrivare a fine giornata, figuriamoci se devo mantenere te durante la tua visita di piacere…”.

“In verità”, la informò Dust, “la Principessa coprirà tutte le spese del caso…”.

Copper Head rizzò le orecchie e parve accendersi improvvisamente di interesse. Scattò come una molla verso di lui e, con gesto inspiegabilmente rapido, gli stritolò le guance tra gli zoccoli.

“STAI DICENDO”, berciò, “CHE… che finché tu rimani da me… avrò le spese coperte dalla tua Principessa Boccoli d’Oro??”.

L’altro si sentì il volto chiuso in una morsa d’acciaio. Con labbrucce sporgenti e occhi preoccupati rispose: “uhhhh… fì?”.

“AH!!”, esultò, mollando la presa. “Ma allora questo cambia tutto!!”. Gli diede quindi una poderosa zampata sulla schiena, infliggendogli un colpo decisamente violento, forse grazie all’esoscheletro che indossava. “Sei il benvenuto nella mia stamberga fino a contrordine!!”.

“Gra… grazie…”, rispose, sentendosi in realtà accetto solo per via della convenzione monetaria.

“Oh, per tutte le valvole!”, festeggiò, sfregando gli zoccoli tra loro. “Potrò finalmente mangiare pasti decenti dopo… dopo mesi!!”.

Con quelle parole, gli fece cenno di seguirla ed iniziò a galoppare lungo una via secondaria.

Il matematico iniziò immediatamente a correrle dietro ma si rese presto conto di come qualcosa non andasse. Quella puledra sembrava un corridore professionista: compiva falcate pazzesche, sterzando bruscamente ad ogni angolo e senza perdere la presa sul terreno. Gli ingranaggi della tuta ruotavano e sibilavano a pieno regime.

Non aveva dubbi.

Quell’esoscheletro, qualsiasi cosa fosse, le permetteva di eseguire manovre decisamente strabilianti.

Chissà cos’altro avrebbe potuto compiere, tramite quell’arnese?

 

*** ***** ***

 

    Silver Dust e Copper Head raggiunsero una delle stazioni ferroviarie, proprio quando il sole iniziava ad eclissarsi al di là del vulcano.

Il marchio sul fianco dell’unicorno iniziò a riflettere i primi bagliori rossastri del tramonto e i due attesero pazientemente il convoglio, che non tardò ad arrivare.

Dust vide sopraggiungere una locomotiva gigantesca, grossa almeno tre volte quelle che era abituato a vedere in Equestria e ben più rumorosa. Possedeva numerose ruote circolari e una moltitudine di comignoli fumosi. Lungo le fiancate, invece, spiccavano tubi e manometri di ogni forma e dimensione.

La colonna di vagoni era immensa e il visitatore ipotizzò che quello fosse il motivo di una locomotrice così grande.

Salirono, immediatamente schiacciati contro un angolo dalla folla di passeggeri.

    Si sorbirono quindi un viaggio piuttosto lungo, in cui il mezzo prese via via a svuotarsi. Quando ci fu un po’ più di spazio, Silver si avvicinò ad una delle finestre (decisamente sporche) e prese ad osservare il cielo lontano, che diveniva sempre più scuro. Per contrasto: gli edifici di Mechanus si arricchirono di innumerevoli lucette luminose (uno dei tanti vantaggi permessi dal vapore centralizzato).

Gli stabili, durante il tragitto, iniziarono lentamente a cambiare. Gli altissimi palazzi vennero progressivamente sostituiti da strutture molto più basse e larghe, dotate di camini da cui usciva un fumo denso e nero. Qualcosa gli fece intuire che si stavano allontanando dall’area urbana, per entrare nell’ancor più inquinata zona industriale. L’aria, all’esterno, divenne infatti scura e pesante, rendendo il crepuscolo tutto tranne che luminoso, e le luminarie parzialmente occultate dal velo di combusti.

“La prossima fermata è la nostra”, lo informò Copper, con un tocco sulla spalla.

Il veicolo iniziò a rallentare.

“Ma non dovevamo andare a casa tua?”, domandò scettico.

La carrozza ebbe un sussulto e i fischi dei freni saturarono i timpani dei passeggeri.

Il meccanismo a pressione si svuotò, permettendo alle portelle di spalancarsi.

“Infatti”, gli rispose uscendo.

Il compagno la seguì all’esterno e si ritrovò circondato da uno stuolo di industrie a pieno regime.

Gli bastò un unico respiro per percepire un odore simile a quello delle ferramenta, accompagnato da un improvviso bruciore in fondo alla gola. Tossì alcune volte.

Le strade erano praticamente deserte, illuminate da sporadici lampioni e assolutamente piene di sporcizia d’ogni sorta: ammassi metallici, barili scoperti da cui gocciolavano sostanze oleose e, per finire, rottami di veicoli abbandonati da chissà quanto.

I numerosi volantini pubblicitari di Mechanus erano giunti fin lì, trasportati dal vento, e viaggiavano per le strade come sterpaglie in un deserto .

Il trambusto delle folle era assente, sostituito però dalla cacofonia di meccanismi e reattori posti all’interno di ciascuna struttura. Le pareti delle fabbriche riuscivano solo in parte a mascherarne la presenza, creando di fatto un costante clangore di sottofondo.

Silver riportò l’attenzione sull’unicorno dai crini rugginosi e riprese il discorso di prima: “Quindi tu… abiteresti da queste parti?”.

“Esatto”.

“Mh…”.

“Sì, lo so. Non è propriamente l’angolo più accattivante di Mechanus”.

“Sembra un settore industriale”.

“Lo è”, gli spiegò, iniziando a trottare e invitandolo a seguirla. Gli unicorni presero a muoversi lungo le strade, caratterizzate da incroci perfettamente perpendicolare ed equidistanti tra loro. La simmetria geometrica del luogo era impeccabile, creando una ripetitività che avrebbe mandato in confusione chiunque. E non c’erano quasi indicazioni. Copper Head continuò a parlare: “Qui è dove vengono condotte le materie prime, per essere trasformate in prodotti elaborati”.

“Le fonderie?”.

“No. Le fonderie sono sul picco del vulcano, in modo da avere a portata di zampa sia il calore che i minerali estratti. Qui arrivano materiali in parte già processati”.

“Quindi… tu vivresti in mezzo alle fabbriche?”.

L’altra si voltò verso di lui con volto infastidito: “Beh?? Ti crea qualche problema?”.

“N-no!”, ribatté preoccupato. “Era… era solo per sapere…”.

Copper riprese la marcia. Dust, invece, era sempre più convinto che quella puledra avesse una scorza molto dura. C’erano tante cose che la infastidivano e di cui non voleva parlare. E di certo lui non era intenzionato a mandare su tutte le furie una sorta di unicorno agghindato con una corazza ad ingranaggi. Preferì tacere.

Proseguirono in silenzio, con la compagna in testa, muovendosi tra i fabbricati rumorosi. Dopo un po’, Silver notò come si stessero addentrando in zone dismesse: gli edifici divennero via via vuoti, silenziosi e abbandonati a se stessi. Anche le luminarie erano più esigue; la maggior parte di esse rotte o mal funzionanti. Le vetrate degli stabili erano quasi tutte in frantumi o ricoperte da assi inchiodati.

Il frastuono e la luce delle fabbriche in funzione divennero sempre più tenui, lasciando il posto ad un ambiente oscuro e lambito dal lieve ululare del vento.

Poi, senza nemmeno voltarsi e continuando a camminare, Copper snocciolò rapidamente una frase. Dust percepì una certa dose di disagio, nelle sue parole.

“È un locale in sublocazione. È conveniente…”.

“Mh?”.

“Dove vivo, dico. Non posso permettermi altro, con le mie finanze. A dire il vero… è già tanto che io abbia un tetto sopra la testa”.

Il pony dai crini scuri si domandò se fosse vero. Si era potuta permettere una corazza così strabiliante… Possibile che avesse difficoltà a pagare l’affitto?

“Posso… posso chiederti che lavoro fai?”.

Copper ebbe un attimo di esitazione: “Non saprei se chiamarlo davvero lavoro”.

Dust si fermò; la puledra, quando se ne accorse, fece altrettanto o lo guardò con aria interrogativa.

Il compagno la fissò intensamente.

“Scusa, Copper”, disse infine. L’altra spalancò le palpebre, visibilmente sorpresa. “Hai ragione. È tutto il giorno che ti assillo. Mi pare anche che tu abbia avuto un po’ di grattacapi… ed ora ti sto facendo domande troppo riservate. Scusami”.

Quelle parole fecero uno strano effetto alla compagna che, sulle prime, non seppe cosa dire. Rimase alcuni secondi immobile, fissandolo negli occhi.

“Non… non fa niente…”, farfugliò, come se quel discorso la mettesse in imbarazzo. Si voltò di scatto e  riprese a trottare.

 

    Dopo un paio di svincoli giunsero infine di fronte ad una grossa fabbrica dismessa.

Tutto era buio e silenzioso. Dust si mise davanti all’enorme struttura in mattoni rossi e alzò lo sguardo, seguendola per tutta l’altezza. Era davvero grossa e terminava con numerosi comignoli che sfidavano le leggi della gravità, completamente inattivi. Vi erano delle finestre, per lo più integre, nonostante molte fossero state rotte o sbarrate con scarti metallici.

Tutt’attorno erano presenti enormi mucchi di rottami e lamiere, oltre le solite chiazze d’olio e lampioni semifunzionanti.

Vi era un’enorme insegna in ferro battuto, sopra l’ingresso principale, ma la scritta che un tempo riportava era stata completamente mangiata dalla ruggine.

Copper si avvicinò al portone in metallo che conduceva all’interno.

“…invenzioni”, gli sussurrò a bassa voce, osservando un punto indefinito sul muro, con aria triste.

“Come?”.

“Dovrei progettare e vendere invenzioni”.

“Dovresti? In che senso?”.

L’altra non rispose.

Afferrò invece il volano della porta ed iniziò a ruotarlo secondo uno schema preciso.

Dust, senza nemmeno farlo apposta, udì il meccanismo ruotare e individuò immediatamente lo schema matematico per far scattare la chiusura di sicurezza. Una combinazione relativamente semplice.

Copper aprì la portella, che si spalancò con un vagito cigolante.

    L’interno era buio pesto.

La padrona di casa entrò, sicura nei propri movimenti.

Silver fece altrettanto ma qualcosa lo costrinse a immobilizzarsi.

Nell’oscurità, senza alcun preavviso, si accesero quattro minuscoli lumini azzurri.

Le lucine iniziarono a muoversi disordinatamente, avvicinandosi ai due, accompagnate da un ticchettare metallico simile a spilli che cadevano per terra.

Il puledro fece qualche passo indietro, preoccupato.

Dall’ombra fuoriuscirono quindi quattro piccoli esserini, grossi quanto una mela.

Erano dei minuscoli costrutti simili a scarabei, costituiti da un telaio dorato. Si muovevano proprio come insetti, tramite le sottili zampe collegate al ventre. La loro corazza era piena di spiragli da cui si intravedevano i canonici ingranaggi e un pulsante nucleo di luce azzurra.

Tre di essi si arrampicarono letteralmente addosso a Copper, che ne sollevò uno con una zampa e sorrise felice.

“Ciao, piccoletti”, disse. “Vi sono mancata?”. Uno di loro si fermò a guardarla e rispose con uno squittio meccanico, prendendo quasi a scodinzolare.

Un quarto, invece, si avvicinò incuriosito a Dust.

L’ospite continuò ad indietreggiare.

“C-Copper!?”, blaterò.

“Mh?”.

“Che è ‘sto… ‘sto affare?? Che vuole da me?”.

“Oh. Sono dispositivi di sicurezza. Hanno il compito di infilarsi sotto la pelle degli sconosciuti e di salire fino a cervello per ucciderli”.

“COSA??”.

La puledra rise: “Scherzo… Non sono in grado di fare del male”.

L’insetto artificiale continuò ad avvicinarsi sempre di più al pony, tutt’altro che rassicurato.

“Sei sicura?”.

“Certo. Non fa parte del loro schema mnemonico”, lo tranquillizzò, giochicchiando con uno dei costrutti che le era salito addosso.

“Sarei comunque più tranquillo se mi stesse alla larga!”, protestò, comportandosi come un elefante col topolino.

“Sembri una puledrina dell’asilo. Su, ragazzi. Il signore se la sta facendo sotto, tornate qui”.

Dopo quelle parole, tutti e quattro gli insetti si diressero prontamente sull’esoscheletro di Copper. Due si piazzarono sulle sue spalle e si richiusero su se stessi, celando le fonti luminose e divenendo sostanzialmente gli spallacci per l’armatura. Gli altri due si collocarono invece sotto le ali meccaniche e fecero altrettanto.

L’unicorno color creta si diresse verso una parete nel buio.

Silver tirò un sospiro di sollievo.

“Ma… ma cos’erano?”.

“Costrutti”, rispose, armeggiando con qualcosa nell’ombra.

“Non… non ho mai visto nulla di simile…”.

“Perché li ho fatti io”.

“…sul serio?”.

“Sì”.

“Sempre con le… Pietre Ignee?”.

Copper tirò alcune leve, senza che accadesse nulla.

“No. Non sono così sofisticati. In pratica sono un piccolo insieme di meccanismi alimentati da una pietra mnemonica”.

Il puledro si avvicinò a lei: “…credevo che le pietre mnemoniche servissero solo ad immagazzinare dati”.

“Infatti. In ogni pietra ho sostanzialmente inciso un codice preciso abbastanza complesso. Poi le ho infuse con un po’ di magia extra. Collegandolo ad opportuni dispositivi ho creato queste minuscole macchine, in grado di agire secondo quello schema preimpostato”.

Dust spalancò le palpebre: “Stai scherzando?? Mi stai dicendo che hai creato una sorta di… intelligenza artificiale?”.

“Oh no, no”, si affrettò a precisare, sorridendogli. “Sono solo dei comandi. Gli forniscono le direttive per ubbidirmi e per la loro incolumità. Non hanno la benché minima capacità decisionale o di apprendimento. Sono soltanto… beh… un’interpretazione matematica”.

L’interesse dell’ospite si accese.

   

 

Copper Head finì quindi di armeggiare e concluse sollevando un’ultima leva. Quando il meccanismo fece contatto, partirono alcuni lampi e sfrigolii: l’intera stanza si illuminò progressivamente, alimentata dall’elettricità generata dalle turbine a vapore di Mechanus.

Dust rimase interdetto.

L’interno era lercio e fatiscente almeno quanto l’esterno, se non di più.

Un’enorme stanzone, pieno di tavoli e ripiani, straripava di componenti meccanici alla rinfusa. Tubi e cavi penzolavano dal soffitto, unitamente a strane intelaiature e oggetti strani, probabilmente dei progetti in corso d’opera. Attrezzi e altre stramberie erano appoggiati sulle mensole o riposti a casaccio. Molteplici tubature correvano in tutte le direzioni, perdendo anche un po’ d’olio.

“Beh”, lo accolse l’inventrice, con una leggera pacca sulle spalle. “Benvenuto nel mio castello incantato”.

Il compagno si grattò nervosamente la criniera, mentre la proprietaria lo invitò a seguirla.

“Qui è dove sto quasi tutto il giorno”, gli disse. Gli puntò quindi uno zoccolo al petto e divenne vagamente minacciosa: “Non, e ripeto, NON toccare mai nulla. Se tocchi una chiave inglese, io me ne accorgo e te la faccio ingoiare. Se giri una valvola, io me ne accorgo e ti ci appendo per la coda. Se prendi una lamiera…”.

“Fammi indovinare: te ne accorgi?”.

“Sì. E non vuoi sapere cosa potrei farti con quella”.

“Caaapito”, canzonò il puledro, scrutando con attenzione il posto. “Questo tugurio di rottami è offlimits”.

“Come tutto il resto, caro mio. Se ho cercato un posto isolato dove poter stare è per un motivo. E non voglio che la gente vada a ficcanasare o a toccare le mie cose”.

“Credevo che questa ubicazione dipendesse dalle tue finanze…”.

L’interlocutrice fece finta di non aver sentito: “Vieni. Ti faccio vedere dove potresti stare”.

    La puledra gli fece fare un rapido giro dello stabile. Gli mostrò dove teneva il cibo (un refrigeratore che produceva un ronzio infernale), i sanitari (incrostati e pieni di ruggine) e infine la sua stanza, sita ai piani superiori.

Ci volle qualche minuto per aprire la porta, che sembrava inchiodata dall’ossido di ferro sui cardini. Gli ingranaggi della bardatura acquisirono improvvisamente giri e l’unicorno riuscì a forzarla senza troppe difficoltà.

Silver Dust si trovò d’innanzi ad uno stanzino striminzito con una finestra, una branda piena di cianfrusaglie e un tavolino. Tutto sembrava inutilizzato da tempi immemori.

“Mh…”, commentò interdetto.

“Uhh…”, borbottò Copper. “In effetti era da un po’ che non entravo qui dentro…”.

Dust invocò la levitazione ed iniziò a mettere a terra gli oggetti posti sul materassino.

La compagna azionò un interruttore ed una minuscola lampadina penzolante si accese.

“Beh, dai”, lo incoraggiò. “L’elettricità arriva”.

Silver si avvicinò alla finestra ed osservò l’esterno. Era buio pesto ed anche piuttosto inquietante.

“Immagino che tu sarai abituato a letti col baldacchino e servitori in camera, dove stavi”, lo punzecchiò.

“Copper…”, le rispose a tono, “…guarda che non sono un principe. Non sono il parente di qualche riccone. Sono un unicorno normalissimo che è divenuto un allievo della Principessa”.

“Chiamalo poco”.

“Mi so accontentare, dico davvero. I miei genitori erano dei semplici contadini. Ho dormito su materassi di foglie di granturco per anni”.

L’unicorno in armatura sfoggiò un piccolo sorriso sincero: “Lo dicevo io che eri un contadinotto. Dai vieni”, ed uscì.

“Hai delle coperte?”, chiese, mentre la seguiva.

“Se vuoi. Ma qui quello che non manca è proprio il riscaldamento. Nella maggior parte delle tubature scorre vapore pressurizzato, quindi…”.

Passarono d’innanzi ad una portella di cui non gli aveva detto nulla.

“E questa?”.

“È una porta”.

“Non mi dire… Seriamente, qui cosa c’è?”.

“Sai quando ti ho detto che è tutto offlimits a parte la tua stanza?”.

“E i sanitari? Speravo di poter usare almeno quelli”.

“In quella porta non si entra. E non potresti comunque: è chiusa da un meccanismo a combinazione”.

Silver Dust fece finta di niente, pensando alle probabilità che avrebbe avuto nel riuscire a scoprirla.

Tornarono nello stanzone di prima.

 

    Copper lo fece accomodare (per quanto potesse essere comodo) ad uno dei tavoli. Creò un po’ di spazio tra gli oggetti e andò a prendere un cesto con qualche mela.

Il puledro sgranò gli occhi. Erano le mele più grandi e rosse che avesse mai visto. Il suo stomacò borbottò.

Copper si sedette dall’altro lato.

“Tò, mangiamo qualcosa”.

“In effetti… è da stamattina che non metto qualcosa sotto i denti. Posso?”.

“Abbuffati. Se è vero quello che hai detto sulla copertura delle spese… domani andremo a prendere del cibo decente”.

“Decente? Cavolo, scherzi?”, commentò divertito, sollevando magicamente una delle mele e portandosela alle labbra. “Non ho mai visto delle mele più succulente!”.

Diede un morso.

Masticò.

Si fermò.

Il suo volto assunse un’espressione curiosa.

“Mh…”, mormorò, riprendendo a masticare con indecisione.

Copper mangiò a sua volta e lo osservò con volto interrogativo.

“Beh? Qualcosa non va?”.

“Mhh… no. No. Va tutto bene”, rispose, deglutendo a forza. “Soltanto… uh… mi aspettavo un… ecco… un sapore diverso”.

La compagna gli sorrise sinceramente, per la seconda volta nell’arco della giornata: “Te l’ho detto. Da domani… cibo decente”.

“Se devo essere sincero, Copper… non ho mai mangiato una mela così terribile in vita mia. Eppure sembrava così… bella”.

Ed ecco il terzo sorriso giornaliero: “Benvenuto a Mechanus. Dove tutto non è come sembra e dove conta di più una buona immagine, piuttosto che un buon contenuto”.

“Ma non ci sono mele migliori?”.

“Oh, sì. Quelle di importazione. Soltanto che costano dieci volte queste, che vengono da coltivazioni intensive”.

“Le concimate col catrame? Sono terribili… E poi… dieci volte il prezzo? Pazzesco…”.

    La coppia finì il poco appetibile pasto.

La stanchezza iniziò ad impossessarsi del puledro, decisamente provato dal lungo viaggio e dall’intensa giornata. Gli occhi si fecero pesanti.

Copper portò via il cesto e prese ad arrabattare tra le sue cose. Si accorse quindi dell’ospite che sbadigliava e si stropicciava gli occhi.

“Perché non vai a dormire?”, gli chiese.

“Mh. Avrei voluto… stare ancora un po’ sveglio”, rispose ciondolando. “Tranquilla. Niente domande. Per oggi, inteso. Dovrei semplicemente buttar giù un altro po’ di appunti, preparare alcune lettere per la Principessa…”.

“Boh, vedi tu”.

“Tu non vai a dormire?”.

“No. Devo rimanere qui e sistemare alcune cose. Tu vai pure, se vuoi. Non farò rumore”.

“…ok”.

In effetti c’erano tante cose che avrebbe voluto chiederle.

Sapere qualcosa di più su di lei. Della sua situazione. Il suo mestiere. Del perché del suo atteggiamento schivo che aveva manifestato in alcune occasioni della giornata. E poi, ovviamente, altre informazioni su Mechanus.

Ma era decisamente stanco, così optò per una sana dormita.

Si incamminò verso le scale.

“Domani che vuoi fare?”, le domandò, prima di andarsene.

“Io devo rimanere qui almeno fino a metà pomeriggio, poi andrò in città per qualche spesa. A tal proposito… se vuoi lasciarmi l’attestato per la convenzione…”.

Dust estrasse magicamente una pergamena arrotolata dalla sacca e gliela consegnò.

“Tranquillo, ti prometto che prenderò solo il necessario. Non sono una scroccona”.

“Non ho mai detto questo…”.

“Sono solo… stufa di mangiare sassi dipinti di rosso…”.

“Sono perfettamente d’accordo. Ma io, allora, cosa farò domani?”.

L’altra si infilò una maschera da saldatrice sul muso. Il suo corno generò quindi un’abbagliante fonte di luce sulla punta. Silver si coprì gli occhi, infastidito.

“Quello che vuoi”, gli rispose, dirigendo l’energia verso alcuni pezzi metallici. “Puoi prendere un treno, tornare a Mechanus e girare per i cavoli tuoi”.

Girare a Mechanus? Quell’enorme caos urbano? Per lui che era un pony nato e vissuto nelle campagne, sembrò un’opzione alquanto terrificante.

“Uhh… i-io…”.

Copper si fermò, sollevò la visiera e gli disse: “Scusa, Silver. Se potessi ti accompagnerei. Ma, davvero, ho una cosa importante da sistemare. Poi ti prometto che darò una zampa a te e alla tua Principessa dalle Chiappe Regali. Dai, stai tranquillo che non ti succederà nulla. Nel peggiore dei casi vai a piagnucolare da una delle guardie e ti fai rispedire qui”. Riprese a saldare.

“Mh. Sei molto comprensiva, vedo…”.

“Non ti sento”, dichiarò con voce ovattata.

“Ok. BUONANOTTE!”, urlò.

“Buonanotte”.

 

    L’allievo di Celestia tornò nella propria camera, soffermandosi giusto qualche attimo sulla porta misteriosa.

Entrò nella cameretta e chiuse a fatica la portella.

“…mininale ma essenziale”, commentò, dopo una rapida occhiata.

Si slacciò la sacca e si sedette sul materassino, facendo partire qualche molla. Non gli importava. Si sdraiò a zampe aperte, emettendo un verso di sollievo.

Rimase quindi immobile a fissare il soffitto.

 

Mechanus.

Già. Che posto incredibile.

 

Incredibile e in parte terrificante.

Ripensò alle meraviglie che aveva visto, all’ingegno e alla maestosità della metropoli.

Poi, però, non poté fare a meno di rimembrare le cose spiacevoli che aveva notato e sentito.

 

Il degrado.

La miseria.

Le guardie armate.

Il discorso sullo sfruttamento degli operai.

 

Si rialzò, con un colpo di reni, dirigendosi alla finestra.

Come al solito, tutto era buio.

Tutto taceva.

 

In lontananza poteva però vedere l’enorme assembramento di edifici urbani, che si abbarbicava attorno al vulcano, pieno zeppo di lucette (ovvero le luminarie della schiera di palazzi abitati).

 

All’orizzonte, infine, scorse l’enorme fregata volante che aveva notato all’arrivo.

Fluttuava lenta sopra la città di Mechanus. Sullo scafo erano presenti potentissimi generatori di luce, che proiettavano coni bianchi in tutte le direzioni, come se stessero scandagliando il suolo.

 

Dust scosse la testa. Sul pavimento notò una paio di tendine stropicciate.

Le raccolse e le appuntò sopra al vetro.

 

Era troppo stanco per fare qualsiasi altra cosa, così decise infine di sdraiarsi su un fianco.

Pensieri e strane sensazioni si mescolarono al sonno crescente, gettandolo in un curioso dormiveglia.

 

“Domani”, sussurrò a se stesso.

“…domani”.
   
 
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