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Autore: Prontaanarrare    10/07/2014    1 recensioni
Finalmente è passata la brutta stagione, finite le epidemie d'influenza, finiti i temporali, finite le gelate. Il sole si alza forte all'orizzonte, il cielo è sereno e la temperatura, non c'è dubbio, è ormai primaverile. Nel Corso principale della città c'è una stazione della metropolitana e ogni mattina tante persone pronte a prendere il loro treno godendosi la primavera. In mezzo alla folla ci sono una donna, ferma sul marciapiede, con la mente chissà dove, Silvia, e un uomo sempre di corsa, con lo sguardo altrove, Marco; gli unici nel Grande Viale, sempre così trafficato, a sembrare addirittura appartenenti ad un altro mondo, dove è ancora inverno, dove la paura sembra avere ancora la meglio e dove il sole sembra non splendere. Ma cosa succede se un giorno ci si scontra faccia a faccia col proprio destino? Ci si scotta o ci si abbronza toccando il sole all'improvviso?
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 3


SBALZTERMICI



 
Marco si rimboccava le maniche della camicia aspettando dietro la porta dell’ufficio del direttore. L’aria diventava sempre più rovente e mai altra attesa era stata più sofferta, se non quella di Silvia mentre lei quella mattina ancora era indecisa se andare con lui o meno. Desiderava solo che aprissero quella porta.

- Avanti Carini! –

Entrò e si trovò subito davanti alla scrivania del direttore. Gli tese la mano.

- Buonasera. –

Sfoderò un sorriso energico. Si accomodò sulla poltroncina che il direttore gli indicava. Cercava di mantenere regolare il respiro e di non dare ascolto al cuore che batteva frenetico. Il suo petto era un acquapark di emozioni: ansia, attesa e curiosità che si divertivano sulle giostre. Bisognava solo vedere quanto erano alte le montagne russe.

Squillò il telefono.

- Abbia pazienza Carini, solo il tempo di rispondere. –

- Non si preoccupi, direttore. –

“Tanto ci sono già io che mi preoccupo”

Il viso di Marco si sciolse in una risatina nervosa. Rideva, e che altro poteva fare? Rideva mentre le sue emozioni si prendevano a pugni nell’acquapark, mentre distruggevano le giostre e si dimenavano come ballerine in una discoteca, dove il beat della musica era il tonfo del suo cuore che andava a tempo con l’ansia.

- Arrivederci. Ebbene, Carini, eccoci qui. –
 
 
Alessia Tomelli mise piede sul pianerottolo.

- La mia vecchia casa – esordì nostalgica.

- Eh sì tesoro! – le fece eco la madre che dietro di lei trascinava il trolley.

- Ti va di aprire proprio tu la porta della tua vecchia casa? –

Alessia assentì con lo sguardo e tirò fuori le chiavi dal borsello del padre, sorridendo al profumo invitante delle quattro pizze che lui teneva l’una sull’altra nelle mani. Girò le chiavi nella serratura, entrò per prima e si guardò intorno: erano ancora lì: il mobile intarsiato dove si truccava il sabato sera prima di uscire, il divano in cui guardava per ore e ore i film che tanto amava e la piccola cucina in cui assaggiava gli esperimenti della sorellina mentre studiava. Tanti anni prima quelle cose erano componenti quotidiane della sua vita. Alessia adorava poter lavorare davvero in mezzo ai film e adorava la vita che si era costruita in un’altra città, eppure tornare a casa le faceva brillare gli occhi.

- Silvia! –

La voce arrugginita della madre ruppe l’atmosfera pieni di ricordi. Alessia si voltò infastidita.

- Mamma, smettila! –

La madre, testarda, riprese a urlare.

- Ma quella stupida di tua sorella.. –

- Mamma, zitta, calmati, ci penso io, tu e papà preparate la tavola così mangiamo! –

Finalmente la donna si calmò  e lei si addentrò in corridoio. Non vedeva la sorella dal Natale precedente e le era sembrata giù di tono. Sospirò, da quello che avevano detto i suoi genitori in macchina non doveva essere cambiato molto, e se magari qualcosa fosse cambiata, sarebbe stato in peggio. Afferrò la maniglia della camera, un attimo la strinse titubante, poi l’aprì. Non c’era nessuno. E per giunta la stanza era in ordine. Si guardò intorno perplessa. Uscì dalla stanza e andò a cercarla nel bagno. La trovò seduta per terra a gambe incrociate, che stendeva lo smalto appoggiando la mano sul ginocchio.

- Bellissimo quell’azzurro, sorellina! –

Silvia sobbalzò.

- Alessia! Ma che ci fai qui? –

Si alzò e le andò incontro. Alessia l’abbracciò.

- Mi hanno detto che ti mancava una sorella maggiore rompiscatole. Quindi per una settimana potrai riaverla. –

Silvia si scostò.

- Mi manca tantissimo. Come va? –

Tornò a stendere lo smalto nelle unghie ancora rimaste senza.

- La mia vita a meraviglia. Mamma è arrabbiata da morire con te ma io ti trovo benissimo! –

Silvia alzò lo sguardo e la fulminò.

- Non ti sto prendendo in giro. –

Lei sospirò.

- Boh magari hai ragione. In effetti, oggi è stata davvero una bella giornata, ma non illuderti è stato un caso, o comunque la prima volta dopo tanto tempo, non so fino a che punto possiamo crederci. –

- Posso sperare che stasera non litighiate? –

Silvia sapeva esattamente cosa pensava sua madre, chiuse gli occhi e scosse la testa.

- No, Ale, qualsiasi mio progresso è ancora invisibile ai suoi occhi. E lei non è certo un’ottima osservatrice. –

- Però tu potevi rispondere al telefono. –

- Era l’ultima cosa che volevo avere sotto mano, sarà ancora in borsa. Che voleva dirmi? –

Alessia sbuffò.

- Silvia ma perché devi essere così scontrosa? Voleva dirti che stavo venendo io e se potevi comprare la pizza. –

Lei alzò lo sguardo, improvvisamente gelido, e si alzò chiudendo lo smalto. La squadrò torva con una mano dalle unghie azzurre e l’altra senza colore.
- Cosa ha detto che dovevo comprare? –

Alessia si spostò interdetta.

- La pizza. –

- La pizza. – ripeté sdegnata la sorella uscendo dal bagno.

Si precipitò in cucina, mentre Alessia la seguiva preoccupata.

- Mamma! Volevi che io comprassi una pizza? Pensi che il massimo che io possa fare per mettere su una cena è comprare una stupida pizza già pronta? Dopo più di 10 anni che cucino? –

La madre posò a tavola l’ultimo bicchiere e legò con l’elastico viola i capelli ricci. Silvia si trovò puntati addosso un paio di occhi, identici ai suoi, che la scrutavano furiosi.

- Ah sì?! Tu cucini? Una volta cucinavi, ora non lo so cosa fai, dici che non hai tempo, secondo me non hai proprio voglia. –

Silvia combatté contro la voglia di piangere, pensava che fosse meglio urlare.

- Ma io oggi pomeriggio ho cucinato, hai aperto il frigo? –

- Silvia non lo sapevo, che potevo fare? –

“Al mondo non importa cosa siamo, al mondo importa cosa mostriamo.” 

Le parole di Rosa risuonarono nella sua mente e mordendosi il labbro dovette riconoscere che erano più vere che mai.

- Tanto cosa vuoi che importi “sapere” tu hai sentenziato e basta, vero mamma? –

Alle due donne si unì la voce bassa di Giorgio Tomelli.

- Silvia non è tua madre, è la realtà che sentenzia. Sei disordinata e sempre depressa. Oggi sei arrivata in ritardo a lavoro per il secondo giorno di fila e non hai risposto al telefono. Ma dove vivi? –

- Ma voi che ne sapete? Non mi avete neanche chiesto e pretendete di sapere com’è stata la mia giornata? Perché dovete pensare per scontato? La vita non è scontata e io non sono depressa. Io reagisco e non tollero che stasera mi parliate in questo modo. Ho tanti difetti e sono la prima ad accorgermene ma nessun difetto può giustificare la vostra acidità, soprattutto la tua, mamma. Non hai la più pallida idea di cosa mi sia successo oggi. -

- Non c’è bisogno di saperlo, Silvia, è evidente, per forza di cose. Sei uscita di casa tardissimo e la tua macchina non ha le ali, cosa dovrebbe farmi pensare che sei arrivata in orario? E ancora non hai risposto al telefono, cosa dovrebbe farmi pensare che tu non abbia passato il pomeriggio a piangere in camera tua? –

Silvia la sovrastò urlando. La sorella assisteva in apprensione, si era trovata in mezzo a una tempesta, senza sapere cosa ci fosse stato prima.

- Brava mamma, pretendi pure! Pretendi di sapere, ne sei davvero così sicura! E allora ascolta, ascolta, cara. Ho preso la metropolitana e alle otto e mezza ero già in divisa e se vai nella mia stanza capirai cosa ho fatto questo pomeriggio. –

Il padre e la sorella la guardarono interdetti.

- Davvero?-

- Macchè voi ci credete? –

- Mamma, sei sempre così acida, puoi credere a quello che vuoi, cosa credi, che passerò la mia vita a piangere? –

Silvia si sedette a tavola al suo posto e gli altri la imitarono. Rimase in piedi solo la madre che aprì il frigorifero per prendere da bere. Silvia la vide mentre sbuffava e lo richiudeva tenendo in mano due bottiglie. Doveva aver visto la sfoglia, Silvia sogghignò e addentò la pizza.

Anna si sedette senza dire una parola. Silvia soffocò la voglia di sfidarla con lo sguardo e si limitò a masticare in silenzio.

- Silvietta che prende la metro, è vero? –

- Alessia, tra tutti i difetti che ho, vi ho mai mentito? –

Ancora una volta si fece sentire la voce asciutta del padre.

- Io mi chiedo solo che ci aspettavi. –

Senza alzare lo sguardo Silvia sorrise.

- Mamma,  è vero che la stanza di Silvia è ordinata. –

- Alessia non mi interessa, non è una metropolitana che risolve la situazione e stai certa che quell’ordine non durerà più di tre giorni. E francamente non mi interessa. –

- Ora state esagerando! E tu stai zitta e mangia! –

Giorgio non riusciva mai a nascondersi quando si spazientiva, soprattutto con la moglie.

- No, scherzi, voglio che mia figlia mi racconti un po’ di cose visto che non ci vediamo da un pezzo, Alessiuccia, come sta il tuo fidanzatino? –

- Buona cena a tutti. –

Silvia si alzò dal tavolo prendendo il piatto e il bicchiere e si dileguò.

- Silvia che stai facendo? –

Se era rimasta ancora qualche briciola di pazienza in Giorgio Tomelli la decisione avventata di Silvia l’aveva soffiata via.

- Vedo che non sono gradita, e allora ciao. Mi va il cibo di traverso con quella vipera che non manca di sputare sentenze. –

Silvia sparì in corridoio. I tre cenarono in silenzio.
 
 …
 
Il direttore, un uomo sui 50 anni alto e brizzolato, tornò a sedersi alla scrivania vuota dinanzi a lui. Marco alzò lo sguardo e lo inchiodò agli occhi chiari di Giulio Favenza. Indossò la sua armatura e mascherò tutte le emozioni in uno sguardo impassibile. L’uomo di fronte a lui senza attendere sferrò il primo colpo.

- Carini, congratulazioni, lei è il vicedirettore della Favenza Corporation. –

La lancia colpì in pieno, perforò l’armatura e trapassò il petto del giovane guerriero.

Il viso di Marco si sciolse in un sorriso mentre il suo interlocutore di nuovo prendeva la parola.

- Ho voluto evitare inutili preamboli. Il destino, quando arriva arriva. Voi lo sapete e lo dovete ricordare, sempre. Lei che ne pensa? –

Secondo colpo. Meno irruento ma più doloroso del primo. Prima regola: non stare a guardare l’avversario, reagire, tuffare tutto ciò che ribolle nel cuore in una qualsiasi risposta.

- Giustissimo. –

In quella parola c’era un fondo di verità molto consistente, infatti, anche se Marco non aveva ancora imparato a fidarsi delle occasioni che incontrava, ad afferrarle al volo senza pensarci, conosceva perfettamente cosa invece doveva fare. Non si soffre se non si vedono i propri errori. E in quel momento Marco soffriva, soffocava nel nodo della cravatta, tentava di regolarizzare i respiri che si susseguivano concitati sotto i bottoni stretti della camicia. Lo stringeva un’ansia che non capiva, che assorbiva quasi come se volesse gustarla.

- Lorenzo Serpi dopo 21 anni che è stato al tuo posto ti passa volentieri il testimone, pensa che sei in gamba. –

Il direttore non alleggeriva la realtà, Marco sentiva la responsabilità di un grande incarico passare dalle mani del direttore direttamente alle sue, in un carico che portava già il suo nome marchiato a fuoco.

- Ne sono onorato, ringrazio tantissimo. –

Rimboccò ulteriormente le maniche della camicia. Giulio Favenza sospirò e decise di abbandonare ogni formalità.

- Marco, se vuoi, andiamo in balcone, in effetti devo ammettere che in questa settimana il caldo ci sta uccidendo. -

“Ecco, io non mi fido di questo caldo”

Fu un pensiero che riportò Marco alle angosce dei giorni precedenti e che lo fece barcollare nel percorso dalla scrivania al balcone, dandogli l’impressione di camminare sulle nuvole, di non avere sotto di sé un punt0 d’appoggio. Per stare in equilibrio la perpendicolare del baricentro deve cadere all’interno della base d’appoggio. Dov’è il baricentro, dov’è la base d’appoggio?

- Non credi che qui si stia meglio? –

Il vento fresco gli strappò una smorfia di sollievo.

- Assolutamente sì. –

- Allora Marco, che facciamo, ce li prendiamo questi uffici? –

- Sì. –

Egli stesso sentì che la voce tremava, dannazione! Lo sguardo fisso di Giulio Favenza lo trapassava.

- Lo so che è nelle tue capacità. Ora vorrei sapere cosa c’è nella tua testa. –

“Come chiedermi quanti capelli ho”

Si voltò per ammirare il panorama della città, le luci brillavano davanti ai suoi occhi che non le vedevano, il buio gli era compagno in quel tentativo di prendere un po’ di tempo in più per rispondere.

- Un cervello, dei muscoli facciali e qualcos’altro, credo. –

Vide un sorriso impercettibile sfuggire dalle labbra di Favenza, l’aveva spiazzato.

- La parte che preferisco è il cervello, perché il tuo lavora al ritmo che si richiede. Non mi piacciono quei, com’è che hai detto, muscoli facciali, perché a volte manifestano un’ansia e una paura ingiustificata, assolutamente indegna di un vicedirettore. –

Allo stesso modo Favenza aveva sferrato un ottimo colpo, ma Marco non era affatto spiazzato, era una realtà che conosceva. Lo fissò negli occhi verde spento e pensò che nonostante la conoscesse forse non l’aveva mai veramente presa in mano.

- Sì lo so. –

Lo sguardo del direttore divenne quasi truce.

- E allora? –

Due parole senza eco nella testa di Marco, solo un colpo sordo tra i suoi pensieri. Si sforzò di sorridere, sentì i muscoli rilassarsi e la chiara percezione che non ci fosse null’altro da aggiungere.

- Sì. –

Giulio gli tese la mano, il braccio in tensione e le dita aperte.

- Marco, un sì per davvero? –

Lui si voltò di nuovo verso la ringhiera. Il buio della città si accordò in un tratto al suo stato d’animo. Cacciò l’ansia in un angolo lasciando che quel telo nero cosparso di luci l’annientasse. Il duello non era finito.

- Sì. -

Quella seconda conferma suonò più accorata della prima. Gli strinse la mano, la stretta era energica e calda. Rientrarono nell’ufficio e Marco ebbe un brivido che gli corse su per la schiena, forse per lo sbalzo termico tra l’aria serale e quella della stanza, forse per lo sbalzo termico tra le emozioni che sentiva dentro.

- Prima che te ne vai, ci tengo a sottolineare che adesso io e te lavoriamo insieme, puoi, anzi, devi darmi del tu. –

- Sì, Giulio, una buona serata, e un buon week-end! –

- Grazie, anche a te, ti aspetto martedì alle otto. Abbiamo delle cose di cui discutere. Buonanotte vicedirettore. –

Marco gli offrì la mano.

- A martedì, Giulio! –

Si voltò e uscì dall’ufficio. Il duello era quasi vinto, ma voleva averlo qualcun altro il piacere di sferrare l’ultimo colpo.

- Signor Serpi, buonasera. –

- Spero ti abbiano già comunicato la lieta notizia. –

- Sì, ho saputo. –

- Le mie congratulazioni, sei pronto? –

L’ultimo colpo, il più tremendo, la chiave della sconfitta o della vittoria.

- Si può sempre fare di meglio. –

- Ok, ragazzo, sei pronto. –

Serpi si concesse una risata, nonostante fosse ben nota la sua fermezza non aveva lo stesso carattere schietto e provocatorio del direttore.

- Buona avventura, figliolo. –

Lo salutò con un affetto nascosto, un sorriso intiepidito dal carattere autoritario, ma non per questo meno sincero. Entrò nell’ufficio del direttore. Marco scese le scale senza pensare cosa avessero da dirsi i due pezzi grossi di tutta l’attività. Scendendo i gradini di marmo si morse il labbro per quella gaffe che si trovava a dover correggere: loro non erano più i due pezzi grossi, lo era solo Giulio Favenza e il secondo era proprio lui, Marco Carini.
 


 
Alessia aprì la porta ed entrò. Silvia, seduta alla scrivania, stava smaltando le unghie dell’altra mano che le erano rimaste senza l’azzurro, mentre in un angolo della scrivania stavano il piatto vuoto e il bicchiere ancora con un sorso d’aranciata. Alzò lo sguardo quando vide entrare la sorella e prima di parlare bevve quell’ultimo sorso.

- Mi dispiace Ale, non meritavi quest’accoglienza. –

Lei alzò le spalle incurante delle scuse.

- Suvvia, la realtà presenta sempre il suo conto senza aggiungere né togliere nulla. E io sono arrivata e ho trovato questa realtà. Per stasera è così. –

- E’ inutile, quello che ho fatto oggi, inutile, ma chi sono io per mettermi contro la realtà, chi sono io per pensare che possa realmente cambiare qualcosa? –

- Silvia non dire così. Che cosa pensi che sia inutile? –

- Alessia oggi ho passato una giornata fuori dal comune, l’opposto della mia noia di vita. Poi è arrivata lei ed è tutto finito. Poi è arrivata la mia vita ed è tutto finito; come se quella gioia non fosse mai esistita, come se avessi sognato, come se adesso mi si dicesse: “E che è? Ci avevi creduto? Povera ingenua!”

Alessia addolcì la voce.

- Ma qualcosa è cambiato veramente. –

- Ma se ne sbattono. Sono ancora fossilizzati in ciò che era prima. –

- Silvia se tu riuscirai a dimostrarlo.. –

La interruppe.

-Come? Il mondo non vede, non sente, non comprende. Tutti danno per scontata la loro verità. –

- Silvia, vuoi inchiodarti di nuovo dov’eri prima? –

Lei si alzò dalla sedia.

- Alessia il mondo lo accetta, è questo che vuole. Le cose già decise sono più veloci e semplici di una realtà da reinventare, meglio la Silvia di sempre, meglio le lacrime, meglio il passato. Il mondo ruotando porta con sé tanta indifferenza che ingoia tutto al buio, qualsiasi cosa sia. Non posso dimostrare qualcosa che sto solo adesso iniziando a essere. Pensi che sia un problema se io non cambiassi? No, per nulla. Per tutti e per tutto andrebbe bene. Sono solo io a volerlo. Finchè in me convivranno ciò che ero e ciò che voglio essere sarà sempre ciò che ero che le persone vedranno per prima, che prevedranno, che metteranno in conto. Ho fatto tante stupidaggini e oggi, nonostante abbia dato tutto per una realtà migliore con la massima sincerità, i miei non si sono accorti di nulla. È un’illusione cercare di cambiare la pelle, se procedi pian piano non se ne accorge nessuno e agli occhi degli altri rimani sempre la stessa. Se tu fai qualcosa, gli altri la valuteranno in luce del tuo passato perché quello nella sua bruttezza è dato come vero e inequivocabile, su quello le persone, anche quelle più vicine a te, scommettono sempre. Il passato vince sul futuro, se fai qualcosa di buono è solo un episodio sporadico oppure è un fuoco di paglia, nessuno teme che possa essere l’inizio di qualcosa di nuovo. È frustrante, credimi. Non sono libera di riemergere, di scappare da questo schifo che mi sono costruita in 28 anni, sono convinti che io sono quella col mio passato e una col mio passato non può costruirsi un presente diverso. E sono convinti che io sia questa e che io voglia questo. È troppo brutto sentirselo addosso, non riuscire a toglierselo via perché gli altri continuano a vederlo in te. –

La sorella non seppe cosa dirle dopo quella confessione accorata. Tutti i pensieri e le emozioni che aveva stretto tra i denti in cucina e che aveva masticato sola in silenzio mentre mangiava in camera adesso li aveva tutti scatenati in un fiume al quale lei si sentiva in dovere di rispondere. Cercava di tirarsi fuori qualcosa per dar conforto a quella sorellina che era finita in un vicolo cieco. Alessia dovette rendersi conto che a volte il dolore delle persone può essere capito fino in fondo soltanto da loro stesse, che non c’è qualcosa che possiamo far arrivare con le nostre parole che a loro serva, a volte l’unica cosa che abbiamo il dovere di trasmettere è che ci importa davvero che loro capiscono fino in fondo il loro dolore, chiedere loro, implorarli, di farcela. Alessia la abbracciò.

- Scusami davvero se la serata tra sorelle con cui ti ho accolta è questa. –

- Silvia non importa. –

Silvia ritornò alla scrivania per richiudere lo smalto e parlò di nuovo con una voce flebile, lontana.

- E allora cos’è che importa? -

- Non lo so, dipende, a te adesso cosa importa? –

Appoggiò la schiena al tavolo e si voltò di nuovo verso la sorella.

- Non ci sono segreti tra sorelle? –

- Non ci sono segreti tra sorelle. –

- Mi importa solo di arrivare a domani mattina. –

- Perché? –

Silvia prese fiato.

- Da dove comincio? –

- Dall’inizio. –

Silvia ripensò all’inizio e le venne da ridere.

- Mercoledì un uomo ha sbattuto contro di me mentre correva, in mezzo al Grande Viale. –

Alessia scoppiò a ridere.

- Ma che dici? –

Silvia si unì alla risata.

- La verità. –

- Ma dai, racconta tutto. –

- Aspetta, vengo lì sul letto, sono stanca. –


 
Marco si svegliò da un sogno. Aprì gli occhi e visualizzò le immagini vivide di un acquapark montato nel suo ufficio. Si mise a ridere, cambiando posizione tra le lenzuola. Tutti i dipendenti erano su uno scivolo in giacca e cravatta e lui correva tra una giostra e l’altra. Non aveva un senso quel sogno, si disse. Gli tornò in mente che lui nel sogno era l’unico in costume e rideva tutto il tempo come se avesse sentito una barzelletta. I sogni erano un mondo che non aveva mai capito e che a maggior ragione dopo quello, così strano, non voleva capire. Dovette riconoscere però che gli scivoli insieme facevano un bel pendant, doveva essere venuto un bravo architetto nel suo sogno. In ogni caso quando sarebbe andato a occupare il suo posto il martedì successivo non avrebbe trovato gli scivoli, solo le scrivanie, quasi quasi un po’ gli dispiaceva. Si alzò e fece un giro per la sua casa, silenziosa e illuminata dal sole sorto da poco, dove abitava con i genitori e il fratello da 14 anni. Era entrato in quella casa senza idee chiare per il futuro, un sedicenne che continuava a studiare con la sola voglia di fare qualcosa, anche senza sapere cosa, e che già all’epoca sentiva che non tutti come lui nutrivano la stessa voglia, convinta e sincera. Adesso a 30 anni, doveva spostarsi un po’ davanti allo specchio, perché insieme a lui c’era un prestigioso incarico di vicedirettore di un’azienda piuttosto importante, o almeno, che per molte persone comuni era così definibile. Lui aveva cominciato a lavorare lì finiti gli studi. Intuita la sua personalità attiva ed efficiente non gli avevano mai risparmiato lavoro da fare, nonostante la giovane età. Dal canto suo però aveva sperimentato come non fosse nulla di straordinario “quella azienda piuttosto importante”. Conosceva tutte le pratiche e tutte le operazioni. Se suo fratello la chiamava “Il palazzo delle Fate” lui poteva dire di saper usare tutte le bacchette magiche. Peccato che tendenzialmente non voleva dirlo. Tornarono alla mente le immagini della sera prima, quando aveva annunciato alla sua famiglia la sua promozione. Si sentiva addosso soltanto delle sensazioni, come incollate alla sua pelle, come se i loro stampi, gli eventi che le avevano scatenate, fossero solo delle scene lontane. Alessandro lo aveva abbracciato, era felice, e così anche il padre e la madre. Solo lui sentiva il carico sulle spalle, per gli altri c’era solo gioia. In qualche modo sentiva che quel carico non era solo fatto del lavoro effettivo, ma che era soprattutto qualcosa di emotivo. Sapeva per esperienza che “emotivo” non va d’accordo con “spiegazione”. Sbuffò, aveva bisogno di una doccia fredda. L’acqua iniziò a massaggiare i pensieri che comunque non smettevano di correre.

“Smettila di dire cavolate, ti ho già detto ieri sera, quando smanettavi col mio computer,  che ne sei capace!”

“Figlio mio, sono orgogliosa di te e devi esserlo anche tu.”

“Marco, che dirti? Hai fatto tutto tu, io ti ho solo cresciuto.”

Tutti avevano fiducia in lui, mancava all’appello solo se stesso. Era pericoloso riconoscersi la bravura da soli, e lui aveva visto che il disastro che poteva portare un errore del genere era enorme, tanto addirittura da far finire delle carriere. Aveva visto tante persone presentarsi alla vita fiere e piene di sé e sentirsi dire che avevano soltanto sognato un talento, sperato in una reale attitudine per i loro progetti. Si trattava di persone in qualche modo amiche, vicine, conoscenti e ciò gli aveva permesso di vedere ancor più da vicino il crollo di quei castelli di carta, di quei sogni, di quelle illusioni, di quei sacchi vuoti, di quei pupazzi senza volto e ne aveva sentito il gusto amaro attraverso imprecazioni, lacrime, sospiri, “vaffanculo” e “ciaociao”. Ognuno di questi ricordi aveva un nome, che fosse Giovanni il vicino di casa o Flavio il compagno di banco o Maria la sua ex fidanzata, per ognuno di loro un nome che conosceva bene e che portava con sé il vivido stampo dell’emozione da loro provata. Lui sapeva che “emozione” non va d’accordo con “spiegazione” e sapeva che poteva succedere anche a lui. Continuò a cullarsi sotto il getto dell’acqua, come per far scorrere via i pensieri, oltre che la schiuma. Molto semplicemente era pericoloso essere pieni di sé, dunque, meglio essere vuoti; la vita non era una persona di cui fidarsi.

 


 
Silvia uscì dall’appartamento senza fare rumore. Chiuse la porta alle sue spalle con un lieve scatto, con calma. Pigiò il pulsante che riservava solo per lei l’ascensore. Svegliarsi alle 7 il sabato mattina, quando la sua famiglia era solita non fare nient’altro che dormire, le permetteva di avere quel silenzio che le serviva, almeno per il momento. Doveva capire. Cosa? Si ripeteva che al momento giusto l’avrebbe capito. Certo, sapeva che quel silenzio non poteva durare per sempre, prima o poi avrebbe dovuto affrontare quel sottofondo di parole altrui che chiunque deve sostenere. Mentre percorreva a piedi la traversa in cui abitava, stringeva i denti, s’imponeva di stare tranquilla e non pensare a quel momento, si stava concedendo soltanto una piccola pausa di silenzio, ascoltando l’unica voce altrui che riuscisse a non distruggere ogni nuovo spazio che si creava, la voce di Marco, che l’aspettava al Grande Viale. Man mano che si avvicinava alla pasticceria dove si erano dati appuntamento Silvia sentì il silenzio che lei stessa aveva creato avvolgerla e accarezzarla con le sue dita sottili, solleticandola nelle zone più sensibili della sua anima, quelle che era impossibile assemblare al silenzio, quelle che non potevano tacere, per nessuna ragione al mondo. Non ci può essere silenzio in un cuore che batte furioso, in un respiro che si affanna. Il silenzio e il futuro, ciò che cercava Silvia, la investivano in pieno quel sabato mattina, l’avvolgevano trasformandosi in rumore e presente.
Lo stesso rumore e lo stesso presente riempivano l’abitacolo di una Grande Punto blu, si riflettevano in un paio di occhi che aspettavano dietro un finestrino abbassato, in un paio d’iridi azzurre che non volevano fidarsi di loro. Il presente prese la forma di una donna castana, abbastanza alta e piuttosto magra che camminava in jeans e maglietta verde costeggiando un’auto blu parcheggiata di fronte alla Pasticceria del Grande Viale. Un colpo di clacson. La donna trasalì e si voltò.

- Marco! –

- Silvia! –

La donna si avvicinò al finestrino.

- Ciao, perché sei con la macchina? –

L’uomo fece abbassare ulteriormente il vetro.

- Ti accompagno a lavoro io oggi. –

- Ma io non lavoro il sabato, è il mio giorno libero. –

- Neanche io. –

Scoppiarono a ridere.

- Sali, da qualche parte ti porterò. –

- Da qualche parte. –

Silvia si voltò per raggiungere lo sportello del sedile del passeggero e si chiese che significato avessero quelle tre parole, forse non ne avevano, forse nulla aveva un preciso significato. Salì a bordo dell’auto e salutò Marco su quelle guance lisce e odorose che, volente o nolente, doveva riconoscere stavano diventando una consuetudine. Allacciò la cintura e non disse niente. Mentre lui accendeva il motore e guidava piano lungo il Viale lei si soffermò  a guardare le case, i negozi, i locali, le attività, le luci, le ombre di quel viale dove erano scritti anni e anni della sua vita. Sfilava tutto davanti ai suoi occhi, come una tempesta di cui non afferrava il senso, erano successe troppe cose in quei giorni. Sentì le vertigini e cercò gli occhi di Marco, erano sempre una scusa per sorridere, anche se “sempre” corrispondeva solo a quattro giorni. Era soltanto da solo quattro giorni che lo conosceva, da quattro giorni che nella sua piccola vita si alternavano gioia e dolore, e in fondo, come diceva Tiziano Ferro, avevano lo stesso sapore.

- Dove andiamo, Silvia? –

- Non importa. –

Marco tentò un tono più conciliante.

- Cosa vuoi fare? –

Le venne in mente che avevano un discorso rimasto in sospeso dal giorno prima e decise che era inutile rivangare sempre gli stessi pensieri.

- Voglio parlare, e camminare. –

Marco fissò il volante pensieroso.

- Ok. –

Svoltò a destra e arrivò a una rotonda ampia, dove il traffico girava intorno ad un’enorme aiuola di alberi alti. Silvia si accorse che erano fioriti. Non disse nulla, godendo dei colori della città, che scorreva nelle strade e negli incroci, e dell’aria primaverile, che sentiva solo a tratti, come un film guardato da persone assonnate per cui si vede una scena sì e una scena no. Per la sua bella stagione, mentre Marco parcheggiava e spegneva il motore, era sicuramente una scena sì.

- Hai delle belle unghie! –

Silvia trasalì e scendendo dall’auto sorrise imbarazzata.

- Grazie. –

Per un attimo rimase ferma davanti allo sportello chiuso, indugiando nel fissare assorta l’azzurro che colorava le sue mani. Non era una sfumatura a caso nella sua vita, era a metà strada tra il blu del mare e il bianco delle nuvole, quel bianco che negli ultimi giorni stava prendendo piede conquistando ogni volta un piccolo angolo in più del cielo nero che lei aveva dentro. L’uomo dagli occhi azzurrissimi che aveva accanto e che la aspettava poteva comprendere quel nero? Sicuramente si era preso la briga di toglierglielo e lei assentiva. Non sapeva cosa desiderare e, almeno per il momento, non desiderava altro che pendere dalle labbra di quell’uomo, di entrare in un altro mondo e dimenticare il suo.

- Vieni, Silvia, questo parco lo conoscevi? –

Si guardò intorno.

- No. –

- Spero sia di tuo gradimento. –

- Vedremo. –

Seguì Marco che entrava nel parco, informale ma ugualmente impeccabile nei pantaloni neri e nella camicia blu dalle maniche rimboccate, lui accennava un sorriso senza aprirlo. Silvia notò un’ombra che increspava l’azzurro delle sue iridi, scura come i capelli lisci che incorniciavano il viso dai lineamenti regolari. Stavano passeggiando su un prato chiaro, interrotto da pochi alberi. Camminavano senza una direzione, sia all’interno del parco, che nella loro vita. Entrambi non aspettavano altro che quel momento in cui si trovavano da soli, con le loro voci, quasi in intimità. Silvia inchiodò i suoi occhi allo sguardo di Marco, che subito si trovò davanti il sorriso luminoso e incisivo della donna che attendeva, ancora all’ingresso di un posto pronto a lasciarsi osservare in lungo e largo. Dovette riconoscere anche lui che non aspettava altro che quella passeggiata con lei, perché a volte la realtà è mille volte più forte di qualsiasi parola, addirittura più veritiera di qualsiasi pensiero inconscio, la realtà a volte arriva tempestiva nella sua bellezza improvvisa e Marco in quel momento non poteva fare altro che prendersi quella piccola fetta di vita e mascherare quei pensieri con una smorfia. Silvia, dal canto suo, notò quel bagliore appena visibile nello sguardo dell’uomo e fu pervasa da una piacevole sensazione di calore. Si voltò indietro a guardare la città dietro le loro spalle che si allontanava sempre di più, le sorrise beffarda, finalmente riusciva ad isolarsi da tutto quel rumore di fondo e poco le importava se non sarebbe durato per sempre. Si avvicinò a Marco e gli cinse la vita con un braccio.

- Silvia, ti piace qui? –

- Sì, mi hai portata in un bel posto. Hai qualcosa da raccontarmi? –

- Perché non provi ad indovinarlo da sola, come hai fatto ieri? –

- Ti hanno promosso. –

Lui non poté trattenere un gemito di stupore. Colpito e affondato.

- Ce l’ho scritto in fronte? –

- No, negli occhi, nitido e preciso. –

- E dimmi, a cosa sono stato promosso? –

- A qualcosa d’importante, non so gerarchicamente come siete organizzati. -

- Stai tirando a indovinare. –

- No, per nulla. Ne sono certa. –

Silvia aveva negli occhi il lampo della sfida. Marco sentì un senso di commozione stringergli il cuore. L’aveva raccolta che piangeva in mezzo alla strada come una rosa che sta per essere calpestata, ma Silvia non era debole quanto il petalo sottile di un fiore e quegli occhi che brillavano sicuri in quel mattino solo per loro lo attestavano.

- Mi dispiace non essere all’altezza, per quanto guardi i tuoi occhi non riesco a leggerli come tu fai con i miei. –

- I miei occhi? –

Vide un lampo passare furtivo nello sguardo di Silvia.

- Che c’è? –

- Hai detto che guardi i miei occhi? –

Marco strinse la fronte come faceva ogni volta che non comprendeva e cercava di avvicinarsi di più a lei.

- Sì, mi piace guardare i tuoi occhi, hanno un colore intenso che trovo affascinante, cosa c’è di strano? –

- A nessuno sono mai piaciuti i miei occhi. –

Marco rise.

- Allora sappi che è da quattro giorni che a qualcuno piacciono da morire e te li guarda ogni volta che gli parli. Ah, dimenticavo, ti ringrazia perché continui a farlo. –

Silvia arrossì inerme.

- Digli che da quattro giorni io faccio la stessa, identica, cosa. –

- Ti fa i complimenti, riesci incredibilmente a stare al passo con Marco Carini, come se riuscissi a capirlo in una totale sintonia, non è facile. E’ piuttosto raro che lui si senta compreso. –

- I complimenti li meriti tu, che dopo quattro giorni non hai ancora mandato a quel paese quella cretina di Silvia Tomelli, addirittura ti piace stare con lei. –
- Silvia, non mi corrispondi per nulla a quella cretina di cui mi racconti. –

Un pensiero attraversò la mente della donna, rapido e scottante come un meteorite nel cielo,  suggestivo come una cometa che illumina la notte.

 “Qualcuno che non pensa che io sia pazza o totalmente sregolata! O è più pazzo di me oppure ho davvero una reale possibilità di felicità!”

- Marco, sei pazzo, che tu sappia? –

Lui rise.

- A volte lo penso ma ci sono tante persone che mi ripetono notte e giorno che ho una testa regolare ed efficiente, e mi fanno pure i complimenti. No, mi sa che non lo sono, è impossibile che si sbaglino tutti quanti. –

- Allora è vero che un pizzico di buono e di valido c’è anche in me. –

Lo disse con un tono che voleva essere affermativo ma che sembrava scivolare nel dubbio e nella domanda, come se non ne fosse convinta, o come chi inizia a sperare e ha paura che dicendolo ad alta voce poi non si avveri.

- Silvia, un giorno ce la farai a riprendere da sotto i piedi tutta la tua autostima? –

- Lo stesso giorno in cui tu accetterai il tuo prestigioso e meritatissimo nuovo incarico. –

- Lo stai facendo di nuovo. –

- Cosa? –

- Leggimelo negli occhi. –

- Scusa, sto scappando, lo so, sto cambiando argomento per scappare. –

Marco vide il suo sguardo incrinarsi in una smorfia sperduta e le sistemò una ciocca di capelli.

- Però sai, hai ragione in quello che dici, io non lo accetto, ma non so se accettarlo sia una cosa giusta. Non mi va di mettere le mani avanti e passeggiare per i corridoi, orgoglioso di essere il vicedirettore del plesso. L’orgoglio è una cosa pericolosa. –

- Vicedirettore? –

Silvia lo guardò stupita e assorta. Lo immaginava rivolgere lo stesso sguardo letale su tutti i colleghi.

- Marco, ti sta alla perfezione, credimi. Ti ho guardato troppo per avere ancora dei dubbi. Te lo ridico, ti sta alla perfezione. –

Lui la accarezzò.

- E non sai cosa starebbe alla perfezione a te. –

Silvia ebbe un fremito sotto quella mano che la accarezzava. Si avvicinò a lui.

- Cosa? –

- Chef di successo! –

- Ma non hai mai mangiato nulla che io abbia cucinato. –

- Quando vuoi sono disponibile, a patto che non mi avveleni. –

Silvia rise.

- Ok, direi che è una condizione che posso accettare. –

Marco le indicò l’inizio di una pavimentazione. Lei mise il piede sulla prima mattonella color perla. Poi con Marco stretto al suo fianco iniziò a percorrere un ampio viottolo interrotto da grandi aiuole.

- Mamma mia, sono stupendi questi fiori. –

Si staccò da lui per toccarli e sentirne il profumo. Le gardenie e il glicine la riportavano a quei momenti dove gli odori e gli aromi scatenano gli istinti più profondi dell’essere e per placare una banale fame si inizia, quasi senza accorgersene, a lavorare di fantasia mischiandoli tutti, alla ricerca di un risultato armonico.

- Ti stai già ispirando a cucinare i fiori? –

Silvia si scostò dalle piante mostrando all’uomo che la precedeva una finta arrabbiatura.

- L’unico fiore che posso cucinarti è quello di zucchina. –

Marco annuì.

- Mi sta bene. –

- Ok caro, me lo segno. –

- L’hai già dimenticato che dovevi raccontarmi cosa ti ha detto Rosa ieri? –

Silvia sospirò. Tornare alla sua realtà era scomodo e frustrante, come tentare invano di mettere insieme delle tessere che non combaciano. Dovette fare i conti con un nodo in gola prima di cacciar fuori la voce, eppure un piccolo tocco nel suo cuore sussultava, in fondo, anche se non voleva ammetterlo, non aspettava altro.

- Mi ha detto che ieri sembravo più attiva. –

Marco sentì di nuovo quel laccio di commozione stringergli il cuore, Silvia era una donna unica, capace di assorbire le vibrazioni a una velocità impressionante, con pochi minuti di buon umore aveva trovato una nuova spinta. Arrossì nel pensare che era stato lui la causa di quel buon umore.

- Brava. E poi? Cosa c’è che non riesci a interpretare? –

- Mi ha detto che dormo e che non do’ il massimo. –

- Te lo sei detto anche tu stessa. –

- Mi ha anche detto che ha capito che io ho delle aspirazioni. –

- Silvia ti ha.. –

Lei lo guardò come per tirargli fuori di bocca le parole.

- Ti ha capita. –

Silvia si fermò in piedi dietro ad una pedana.

- Mi ha capita, sì. E allora? –

Marco, più avanti di lei, si fermò a guardarla, voltandosi indietro.

- Allora è tutto pronto, basta solo che tu metti te stessa, lei sta aspettando questo. –

La voce di Silvia si incrinò.

-  Ma io sono solo una fallita insicura. –

Marco le strinse la mano.

- No, per niente. –

- E allora gli altri che ne sono così sicuri, sono pazzi? Mentono? –

- No, non sono pazzi e non mentono. Semplicemente non riescono a interpretarti bene. Se tu non ti esponi il mondo ti interpreta come vuole. –

- Ma il mondo lo vuole? –

- Silvia, non pensare al mondo, pensa alle persone della tua piccola realtà. Rosa lo vuole, io lo voglio. Gli altri dovranno solo prenderne atto e regolarsi di conseguenza. –

- Quella’acida di mia madre dovrebbe…. –

- Quell’acida di tua madre ti ama. E adesso mi racconterai meglio di quest’acida di tua madre, ma prima chiudi gli occhi, ascolta. –

Silvia li chiuse e sentì la mano di Marco stringere la sua in una morsa ancora più forte, lo sentì muoversi di fianco a lei, avvicinarsi. Nello stesso istante sentì il calore di un raggio di sole sul viso e il respiro dolce del vento tra gli alberi. Poi lo sentì scavalcare i suoi sensi per arrivare dritto a un angolo profondo dell’anima, prendere possesso di lei e scuoterla con un fremito magico nella sua assoluta naturalezza, lui, ciò a cui Marco si riferiva, il rumore dell’acqua, fresco e scrosciante, ritmico ed etereo. Riaprì gli occhi.

- Andiamo, Marco, voglio vederla. –

Lui la trascinò su per la rampa e la corresse.

- No, andiamo a vederle. –

Silvia lo seguì fino a poggiare i piedi su un nuovo pavimento, dalle mattonelle azzurre che ne circondavano altre dalla decorazione più complessa, composta da girasoli, tutte disposte ad intervalli regolari. Al centro del vasto spiazzo due imponenti fontane erano state pensate per essere simmetriche e complementari e lasciavano libero un piccolo corridoio centrale. Le vasche, rotonde, avevano con un bordo abbastanza ampio da permettere alle persone di sedersi. Le strutture in marmo erano ornate da piante rampicanti sistemate in modo raffinato, tranne che nelle parti in cui il materiale prendeva  la forma di due creature umane. Nella fontana collocata a destra si ergeva in piedi la figura di un uomo possente, dai muscoli scolpiti e dallo sguardo fiero. Teneva le braccia aperte verso quelle delicate, protese timidamente verso di lui,  della figura femminile scolpita nella fontana che stava a sinistra. Era una donna esile e proporzionata, l’opposto dell’uomo nella fontana di fianco, vestita di un abito che ricordava quello tipico delle greche, che scendeva leggero dalle spalle alle ginocchia, fermato da una cintura in vita. I capelli seguivano dei riccioli scolpiti nel marmo in maniera sublime, lo sguardo era rivolto al possente uomo alla sua destra.  Istintivamente Silvia li visualizzò nell’abbraccio che lo scultore voleva sottintendere tra le due statue, così scontato eppure destinato a non realizzarsi mai. Si avvicinò alla fontana in cui era ritratta la figura femminile e notò altre piccole forme di vita in marmo che accompagnavano la donna tra le acque cristalline della vasca: rane, farfalle, libellule, scolpite con un impressionante dinamismo, unito a una grande ricchezza di particolari. Ritratti con la stessa abilità erano anche i gabbiani e i granchi ai piedi dell’uomo nell’altra fontana. Avvicinandosi a lei anche Marco si ritrovò ad ammirare tutti i soggetti scolpiti nel marmo immobile. Le due fontane sembravano pullulare di vita, eppure gli unici autentici esseri viventi erano i pesci che si rincorrevano nell’acqua limpida delle due vasche. Silvia si sedette sul bordo della fontana maschile e Marco le venne accanto. Dapprima cercarono di commentare ciò che li circondava, di dare delle parole alle sensazioni che il luogo donava loro. In un girotondo di emozioni i loro discorsi si ampliarono di raggio, passando dall’arte di quel luogo a quella di mille altri che avevano visitato in passato e che avevano qualcosa che meritava di essere raccontata. E tra una parola, una carezza e un sorriso il passato dell’uno o dell’altra si rifletteva in un paio di occhi azzurri, o mogano. Si parlavano, si ascoltavano, lasciavano che le loro emozioni si intrecciassero, passando a quel piccolo momento che si erano ritagliati, venendo direttamente dal loro luogo d’origine, dal momento in cui erano state provate per la prima volta, dai loro ricordi, e quindi dai viaggi a Parigi, Madrid e New York che aveva fatto Silvia o dai due anni che Marco aveva trascorso in Germania da ragazzo, o ancora dai colori delle loro case, dalle tradizioni delle loro famiglie, dagli attimi in sequenza dei loro aneddoti. Appresero che erano stati i piatti tipici delle capitali europee ad aver alimentato in Silvia la passione per la cucina e i due anni trascorsi a Berlino ad aver contribuito alla propensione di Marco all’ordine e all’organizzazione. Caddero inermi nel gioco magico della conoscenza: ogni cosa che si condivide con l’altro è insieme punto di partenza e di arrivo, causa ed effetto di quelle caratteristiche dell’altro che in realtà s’intuiscono al primo sguardo in una dimensione incorporea e istintiva, dotate di un fascino che diventa sempre più concreto e intrigante al fluire crescente delle parole, all’incrociarsi sempre più fatale degli sguardi.

- E alla fine tua madre non era poi così acida. –

Mentre tenendosi per mano passeggiavano di nuovo verso l’ingresso del parco quella frase riportò i pensieri di Silvia alle loro battute di qualche ora prima, quando non erano ancora saliti nell’ultima parte del parco, la più bella. Aveva ragione Marco, alla fine il filo dei loro discorsi aveva addolcito la realtà, o forse era soltanto un effetto dello sfogo, uno sgravarsi da un  sentore negativo troppo marcato. Eppure quella frase che riprendeva l’inizio aveva nella mente di Silvia il sapore di un epilogo. Si trovò titubante.

- Marco? –

- Dimmi. –

Il bagliore nei suoi occhi si velò di un gusto amaro.

- Lo sai. –

- Dobbiamo tornare. –

Assentì senza aggiungere nulla.

- Perché ti sei ammutolita? –

Marco voleva una spiegazione ma Silvia sentiva chiaramente che anche la sua voce si era incrinata, avrebbe scommesso che per entrambi non c’era bisogno di parlare.

- Il mio mondo, casa mia, se vogliamo circoscrivere, non è lo stesso parco felice in cui tu mi hai portato oggi. –

- Neanche la mia, Silvia. –

- Dobbiamo tornare. –

- Torniamo. -

Le loro voci erano due sussurri poveri e Silvia ebbe la sensazione che non solo non c’era bisogno di parlare, per giunta le parole non facevano che peggiorare la situazione. Entrambi scelsero l’arma del silenzio per fronteggiare il loro nemico e tornarono a parlare senza nominarlo, come se le loro case, i loro specchi, non esistessero e l’unica cosa reale era quella Punto blu dove stavano risalendo.

- Vorrei essere a pranzo da te se è vero che mangerete la tua sfoglia. –

Silvia appoggiandosi al finestrino rispose in un mugugno, mentre Marco avviava il parcheggio e si immetteva nel traffico.

- Alessia me l’ha promesso. Non credo che mia madre abbia la sfacciataggine di cucinare e servire qualcos’altro come ha fatto ieri sera. –

Marco sterzò e si voltò verso di lei.

- No, stai tranquilla. –

- Ci provo. -

- Se tua madre dovesse essere incavolata e per orgoglio non volesse mangiare il tuo piatto non esitare a rivolgerti a me. –

Le fece l’occhiolino e Silvia staccò lo sguardo dal finestrino per guardarlo divertita.

- Ma ti piace tanto la sfoglia o hai l’ansia di assaggiare qualcosa di mio? –

- Entrambi. –

- Bene, fiori di zucchina e sfoglia, ti sei pure fatto il menù, non so, vuoi anche autoinvitarti a casa mia e stabilire giorno e ora? –
Marco si voltò mentre aspettando il verde del semaforo.

- No, è da persone scortesi. –

Silvia si mise a ridere, e Marco con lei. Ridevano come due bambini, con quella gioia pura che il dolore della rassegnazione non può contaminare. Scattò il verde e attraversarono l’incrocio. Ancora ridevano che Silvia vide l’insegna di un panificio sfrecciare veloce davanti a lei, identica a quella del panificio nella traversa dove abitava. Non poté evitare che un senso di soffocazione l’assalisse. Aprì il finestrino e si voltò di nuovo verso Marco.

- Ti dà fastidio? –

- No. Guarda alla tua sinistra, in questa via c’è Zara. –

- Ah sì? –

- Sì, ma non ricordo esattamente dov’è. Guarda finché non lo vedi. –

Silvia obbedì e si ritrovò di nuovo davanti alle immagini veloci di una città che le scorreva di fianco, immobile nel suo movimento illusorio. Anche Marco guardava ogni tanto verso quella direzione, come per aiutarla a cercare l’insegna. Vedeva composti di colori, piccoli squarci di vita illuminati dalla luce forte del mezzogiorno. Comparve alla loro vista il negozio.

- L’ho visto, grazie, penso che ci andrò presto. –

Silvia si chiese quanto potesse essere assurdo che lei non sapeva della sua esistenza. Lo avevano aperto non più di tre mesi prima.

“E dove sono stata negli ultimi tre mesi?”

Scosse la testa e non oppose più resistenza allo sconforto che la invadeva, poteva giurare che il silenzio di Marco aveva lo stesso retrogusto del suo. Poco alla volta riconosceva i luoghi che attraversavano o costeggiavano. Casa si avvicinava, no, no. Marco nel frattempo guidava, sapeva, capiva. Continuò a guidare, finchè per quanto guidassero o pensassero e basta, nessuno sterzo poteva più deviarli dalla realtà. La macchina era parcheggiata con il motore spento davanti al portone del condominio in cui abitava Silvia. La donna sospirò e aprì lo sportello. In piedi davanti al suo portone indugiava con lo sguardo assente. Si voltò verso Marco senza richiudere lo sportello.

- Scendi? –

Lui la osservava, stretta nei jeans attillati e nella maglia leggera e annuì senza parlare. Aprì lo sportello e scese dall’auto. Le venne incontro e d’un tratto il suo sguardo oscillò, ebbe la sensazione che nonostante si fossero già salutati quella loro piccola mattina rimaneva senza una vera e propria fine, si ritrovò in bocca il gusto amaro del lettore che finisce un libro e lo dichiara “in sospeso” magari gettandolo sul comodino e insultando lo scrittore. Silvia seguiva quel bagliore che si muoveva negli occhi di Marco avvicinandosi a lui.

- Ciao, e grazie, davvero. -

Mentre Marco scuoteva la testa tra sé e sé e le porgeva la guancia, lei sentiva qualcosa che doveva dire e che non aveva detto, bloccata al centro della gola. Doveva tornare a casa, doveva imporsi di andare per la sua strada e accantonare qualsiasi pensiero, ma non riusciva ad ignorare quel groppo in gola, né lo sguardo interrogativo di Marco. Si accostò a lui, senza riuscire a nascondere lo sguardo intenso e corrugato, mentre lui, sorpreso, allargava le braccia. Gli cadde inerme tra le spalle, poggiando la testa nell’incavo del collo. Lui la avvolse in un abbraccio delicato.

- Grazie a te, Silvia. –

Lui ascoltava, la capiva, addirittura la ringraziava. Le luccicarono gli occhi, nascosti nell’ abbraccio. Alzò il volto e lo fissò nelle iridi azzurre, vide di nuovo il colore in assoluto più bello al mondo, due lacrime sbucarono sul suo viso e si aprì in un sorriso grande e luminoso. Marco, avvinghiato a lei, vide il suo volto illuminarsi nei denti banchi e sfavillare in quelle lacrime, sentì un brivido che lo colse improvviso, un fremito che dai muscoli arrivava allo stomaco e dritto al cuore. Si strinsero, sorridendosi sempre vicini, sorridendo come non avevano fatto mai. Silvia tremava percependo  una nuova vibrazione nell’aria, in silenzio, come una donna fragile, Marco sorrideva fiero, come un uomo in carriera. Spostò le sue mani dalla schiena della donna al collo, si fermò ancora un secondo a guardarla e con lo stesso sorriso la strinse a sé e dischiuse le labbra sulle sue. Silvia sentiva il suo corpo affondare senza possibilità di scampo nell’azzurro di Marco, terso e infinito come il cielo, lui cadeva precipitosamente nel buio sfavillante del color mogano di Silvia, come Alice nella tana del Bianconiglio.
 
I due corpi si stringevano. Nello stesso istante due cuori sobbalzavano, due busti si muovevano, due volti istintivamente si completavano. Due mani si allungavano scorrendo sulla pelle dell’altro e due paia di occhi si incrociavano. Due sussurri si univano in un unico respiro, due voci tacevano per lasciare la comunicazione ad un altro linguaggio, un’altra arte. Due sguardi si ritrovarono a stare così, in un intreccio, due nastri colorati nell’aria tiepida e azzurra di quella piccola primavera.

- Marco. –

- Silvia. –
 
Si sorridevano di nuovo, senza aggiungere altro, come se il nome dell’altro potesse racchiudere tutto l’universo. Silvia sentiva soltanto il battito agitato del suo cuore, avvicinò il suo volto a quello di Marco e premette la sua bocca contro quella dell’uomo. Le sue labbra ripresero quel gioco in cui le anime si intrecciano e il mondo scompare mentre Marco la stringeva ancora di più a sé, senza smettere di accarezzarle i fianchi e stringerle il cuore, come solo lui riusciva a fare.

 
Dopo la tempesta di nuovo la quiete, in un ciclo che non si ferma mai e che trascina con sé tutto il mondo e tutti gli attimi che il mondo chiama vita. Per quanto sapesse che i cicli dominano il mondo e lo rendono addirittura più governabile Marco avrebbe fatto volentieri a meno di quella fase di quiete per tornare di nuovo nella tempesta, avvinghiato a Silvia. Sentiva su di sé il sudore dell’eccitazione, il gusto intenso dell’istinto che stermina tutto, che distrugge i residui di cemento e monotonia della vita che ti viene incontro e che si sgretola nell’impatto. Uscì dall’asconsore e aprì la porta di casa.

- Congratulazioni! –

La voce squillante della zia Adele lo sorprese. Entrò sorridendo a lei e anche allo zio Ernesto e alle cugine che lo aspettavano in cucina. Applaudivano e lo invitavano ad entrare. Si fece abbracciare e rispose cordialmente a tutti. Parlò a lungo di quella promozione, di quanto ne fosse onorato, di quanto ne fosse compiaciuto e preoccupato, ma i loro discorsi erano tutti mobili, case, auto che volteggiavano spinti dal vento come in un uragano. Nel suo uragano l’occhio del ciclone era Silvia e il suo odore ancora rimastogli addosso, gli occhi, le lacrime, il corpo magro, la voce. Cosa di quella donna non gli era entrato nel profondo dell’anima? Si rigirava nelle sensazioni lasciategli dai baci e dal desiderio di riaverla, che facevano da anestetico contro le preoccupazioni per cui i parenti cercavano di rassicurarlo. Li ascoltava dall’esterno, come se non le avesse mai provate, eppure era proprio lui quel bravissimo vicedirettore di cui parlavano. Mentre stappavano una bottiglia di Martini sentì di nuovo un brivido incerto sfiorargli la schiena. Spostò il suo sguardo oltre la primavera fuori dalla finestra, come se cercasse una meta dal nome ignoto.  
 

 
Silvia entrò in casa e si buttò tra le braccia della sorella che la accoglieva. Alessia scoppiò a ridere, sorpresa e compiaciuta. Si scostò dall’abbraccio e fissò lo sguardo assente della sorellina.

- Silvia? –

- Perché è già finito? –

- Deve ancora iniziare, tesoro. –

Silvia espirò e si diresse verso la sua camera, Alessia la seguì.

- Che fai? –

Si tolse le scarpe e si gettò sul letto a pancia in su guardando il soffitto.

- Ale, guarda, di questo colore sono gli occhi di Marco. –

Alessia seguì il dito di Silvia che indicava i ciuffetti di panna colorata nella foto appesa sopra la testiera.

- So che finirà, lo so, so che fra un attimo tornerà il mio abituale schifo, ma non mi importa Alessia, non ha importanza. –

- Non capisco esattamente cosa vuoi dire, ma, non ti vedevo così felice da un pezzo. –

Silvia si alzò e si guardò allo specchio. Il trucco era poco preciso e tracciato abbastanza di fretta, e comunque era sbavato.  Anche il cuore sentiva battere sbavato nel petto, come se una polvere colorata che prima lo aveva ricoperto cadesse giù in fondo all’anima svuotandolo. Certi tipi di ormoni sorridevano sul viso al posto suo.

- Sorellina, io vado ad apparecchiare, dai, tra poco pranziamo. –

Silvia le fece un cenno di saluto e si allontanò dallo specchio per affacciarsi alla finestra, inseguendo la sfumatura più tersa di quel cielo oltre i vetri. Girò la maniglia e aprendo le ante tuffò il viso nel venticello fresco. Il paesaggio sotto di lei si dissolveva nell’aria, il sole alto nel cielo coronava di luce i desideri chiusi a chiave nell’antro più profondo del cuore. Non poté evitare che le immagini, le parole, i suoni di quella mattina le inondassero la mente e si riflettessero attraverso i suoi occhi in quel cielo limpido davanti a lei.

Marco, sul bordo della fontana le raccontava imbarazzato la pessima figura che aveva fatto il suo primo giorno di lavoro in azienda.

- Silvia, è pronto! –

Marco la scrutava divertito dopo che lei aveva infilato le mani nell’acqua della fontana e si era voltata con le dita gocciolanti verso di lui.

- Silvia vieni! –

Marco le faceva domande, incuriosito, mentre lei richiamava alla memoria il successo delle torte che avevano cucinato lei e Clarissa per il compleanno della zia Matilde.

- Silvia santo cielo! –

Marco la baciava, passionale, delicato e perfetto come sempre. Marco, Marco, Marco.

- Silvia! –

Si voltò, chiuse la finestra e uscì dalla stanza. Mentre entrava in cucina, dava una rapida sciacquata alle mani e poi si dirigeva verso la sua sedia la donna rabbrividiva nel sentire il suo nome pronunciato con quel tono nervoso ed esasperato. Le faceva nascere dentro il cuore una sensazione nera ed elettrica che sembrava spezzare ogni precedente pensiero positivo e che la serrava come una morsa. Non disse nulla e si sedette al suo posto.

- Silvia, perché ti sei degnata soltanto adesso di venire a tavola? Non te ne importa un fico secco di noi che ti permettiamo di vivere qui e non ti cacciamo di casa a 28 anni, no non te ne importa, e stai abbandonando pure il rispetto? –

La donna rabbrividì di nuovo, a che serviva sapere nella propria coscienza che non era la verità, se sua madre ne era profondamente convinta? La gente vede quello che vuole vedere, e Silvia lo sapeva bene, faceva eccezione solo qualche persona, la incontri ogni tanto e te ne accorgi, perché viaggia senza lenti sugli occhi e si ferma a guardare davvero il mondo. Silvia addentava la sua sfoglia e guardava gli altri di sottecchi, mentre conversavano, mentre si ritagliavano quello spazio con le loro stesse credenze, si chiedeva quanto poteva essere pungente l’amarezza che provava. Sempre un gradino in più della speranza, di quella piccola spinta in avanti che solo poco tempo prima l’aveva animata. Sorrideva ogni tanto tra una forchettata e l’altra, tanto per sorridere, pur sapendo che era un sorriso amaro e scettico, come se il suo cielo caldo si fosse ad un tratto annuvolato. Dov’era Marco? Dov’erano le due fontane bellissime? Dov’era il parco con gli alberi e i fiori? Dov’era tutta l’energia di quella mattina? Non passò molto che oltre alle nuvole arrivò pure il fulmine, con tanto di odore di pioggia. Piombò al centro del salone poche ore dopo assumendo la forma dello squillo del telefono.

- Pronto? -

- Pronto, Silvia! –

Sussultò sorpresa, conosceva quella voce abbastanza bene da non concedersi né un sorriso né una smorfia.

- Clarissa? –

- Bella, come stai? –

Silvia provò un impulso micidiale, come poteva riassumere in una parola ciò che le avrebbe raccontato giorno per giorno?

- In qualche modo sto. –

- C’è una cosa che vorrei dirti. –

- Vediamoci. –

Sentì un mugugno all’altro capo del telefono.

- Sono di fretta, scusami, davvero. –

Silvia cambiò colore in volto.

- Figurati. –

Fece una pausa e cacciò fuori una sillaba per volta.

- Allora dimmi pure. –

- Verresti ad una cena speciale? Al mio locale, lunedì sera, è un evento che stiamo organizzando come Cena del Primo Maggio per attirare un po’ di gente. Il prezzo è a dir poco stracciato ma tu sei mia ospite, nessuno ti chiederà un soldo.

“Certo, sua ospite, non ex-dipendente?”

- Non sono i soldi il problema. Dovrei tornare in quella topaia? –

- Solo per una cena. –

- Non credo. –

- Perché? –

- Se hai fretta non credo di potertelo spiegare, ma a te ho sempre raccontato tutto, immagina. -

Sentì l’amica tentennare spiazzata, dalla sua risposta o da una realtà che già conosceva e rifiutava?

- Pensaci, Silvia. Ti prego. Buona serata. –

- A te. –

- Ci sentiamo. –

“Sicuro”

Scosse la testa e chiuse la conversazione. Per un attimo si rimproverò di essere stata sgarbata, poi scacciò dalla mente quel pensiero, ciò che era stato era stato e il problema principale rimaneva comunque ciò che doveva ancora venire. Si avvicinò al frigorifero, lo aprì e trovò una bottiglia quasi vuota di aranciata che ormai si presentava come un semplice succo d’arancia. Senza più bollicine e senza più idee chiare vuotò la bottiglia bevendo direttamente da lì. La vita ogni tanto diventava come quell’aranciata, non più frizzante, andava bevuta e basta, accontentandosi almeno del sapore e dello zucchero, anche se lascia le labbra appiccicose. L’atteggiamento di Clarissa le incollava la coscienza più dello zucchero. Era giusto andare a quella cena? O era sbagliato? Aveva realmente bisogno di lei? O era stata solo superficiale e frettolosa? E soprattutto Clarissa era o non era un’amica?
Chiuse il frigorifero, gettò la bottiglia vuota nel cestino della spazzatura, afferrò la maniglia della dispensa e la tirò a sé: si accorse che il cacao che aveva usato il giorno prima non era finito. Pensò ad una mousse e si accorse che gli ingredienti per prepararne c’erano tutti. Cominciò ad afferrarli e metterli insieme intrecciando i loro sapori per delle persone che davanti al suo aspetto si sarebbero scoperte affamate. La cucina era una grande amica, chiede tanto lavoro e poi dà, appaga. Esempio indiscutibile di giustizia restituiva nella raffinatezza del gusto tutta la minuziosità e la passione impiegata nel lavoro. Rimase sola in quella culla in cui poteva dondolarsi per ore e ore senza mai cadere nel sonno, dentro cui non sentiva la mancanza di niente e di nessuno, persino il sorriso e i baci di Marco potevano aspettare quando era sola con quella passione. La passione andava sempre d’accordo col futuro, attingeva del passato e velava di una luce migliore il presente. Era un modo per sfuggire al tempo, per legarsi ad un altro luogo, eterno e variabile, per diventare una piccola fibra di un tessuto elastico che poteva adattarsi a rivestire qualsiasi persona, qualsiasi cosa. La passione era un istinto universale, un desiderio dell’animo profondo quasi quanto la coscienza, imperioso quasi quanto i sentimenti. Ma la passione, pensava Silvia spostando lo sguardo sulle piastrelle chiare della parete davanti a lei, pur essendo fatta della stessa pasta dei sentimenti era caratterizzata da una sfumatura più scura, un riflesso diverso, un pizzico di polvere che la faceva brillare in ogni tipo di buio. Non riuscì a definirla e scosse la testa. Aveva importanza?
 
Marco correva a perdifiato in tenuta sportiva, avanzava falcata dopo falcata, lungo il marciapiedi che costeggiava il mare opaco. Solo finita la festa per la sua promozione era riuscito a ritagliarsi quel piccolo momento di tregua mentre il sole del pomeriggio scendeva verso l’occidente. Lasciava vagare lo sguardo tra i colori ambrati del cielo e quelli scuri della strada. Aveva perso il controllo di ogni situazione e continuava a correre dentro quell’ansia di arrivare più lontano. Marco, che voleva correre, adesso correva, senza una direzione. Prima o poi la fascia del lungomare sarebbe finita. Questo era tutto quello che sapeva. Il resto, solo nuvole chiare, come quelle nascoste ai lati del cielo, a circondare quel tramonto. Sperava che non arrivasse mai il tramonto, perché era il limite che si era fissato: appena il sole sarebbe tramontato doveva tornare a casa, a farsi festeggiare dagli amici quella promozione. Un pensiero gli attraversò fulmineo la mente. Se gli avessero dato la possibilità di sgravarsi da quell’incarico di vicedirettore la avrebbe accettata? Forse no. Eppure sentiva qualcosa da cui si sarebbe sgravato volentieri, cosa?  A parte naturalmente le innumerevoli calorie dell’entusiasmo culinario della madre e della zia, che tra l’altro già scivolavano via nel sudore che gli inumidiva la maglietta? Lo sentiva stringerlo forte, sentiva la sua forma a nodo di corda, a cappio, ma non riconosceva la sua entità. Riconobbe suo malgrado un’altra identità. Avanzava verso di lui in un abito sagomato, ostentava un’eleganza che non aveva. Lo precedette nel saluto concedendosi il lusso della sorpresa.

- Salve Liguori, e buonasera a voi, belle signorine. –

Angelo ritrasse il braccio dalle spalle della ragazza mora, che accennò insieme all’altra al suo fianco un timido “buonasera”.

- Ciao collega, anche tu qui. Ragazze, vi offro un drink mentre saluto l’affascinante signor Marco Carini. –

“Senti un po’ mi piglia pure in giro”

Marco sapeva di essere tutto tranne che affascinante in pantaloncini e maglia senza maniche, sudato e probabilmente anche spettinato.

Il collega allungò una banconota alla mora e indicò loro il bar vicino. Prima di voltarsi fece un ultimo cenno alle due donne.

- Vi raggiungo, aspettatemi lì. –

- Angelo mio, è scortese fare aspettare delle ragazze, e lo è ancor di più importunare il tuo collega che era serenamente impegnato a svagarsi. –

Liguori rise della sua ironia pungente, poi gli rispose senza il minimo artificio.

- Lo so che sto rompendo le scatole al vice che vuole tonificarsi come i divi di Hollywood, ignorando che è già un bell’uomo. –

Marco si mise a ridere e tralasciò con una certa noncuranza le sue chiacchiere vuote, badando all’unico particolare degno di nota del suo discorso.

- Com’è che mi hai chiamato? Bice? –

Angelo sentì chiaramente la nota di scherno nella voce.

- Simpatico, caro vicedirettore, davvero. –

La prova del nove! Già si sapeva. Marco tirò un sospiro.

- Bene, vedo che non devo spiegare nulla. –

- I miei complimenti, comunque. –

A Marco non interessava neanche se fossero sinceri o meno. Lo fissò nelle iridi senza espressione.

- So che non ti va giù l’ufficio in cui ti trovi. –

Seguì il riflesso delle sue parole sul suo volto sorpreso. Liguori sospirava sollevato, come se avesse vinto un bonus, non dover spiegare nulla che non fosse ancora chiaro.

- Angelo, non posso fare niente. –

Il collega si limitò a rassettarsi i capelli piastrati e a fare una smorfia.

- Il vicedirettore, spalla destra del Signor Favenza  non ha alcun potere? Ma dai. –

Gli cinse una spalla col braccio scoppiando in una sonora risata. Marco ignorò la sensazione del suo sangue che ribolliva nelle vene. L’ironia e la diplomazia erano armi facili da tirar fuori quando non si ha un carattere, ma diventano sempre più difficili da utilizzare quando entra in gioco il sincero interesse, che preme sempre per la verità. Liguori continuava a ridere e proprio la verità sbucò fuori rifiutando i mezzi termini, sempre più forte di ogni artificio umano.

- Angelo, ho altro lavoro da fare. Sì, ok, volendo potrei fare in modo che siate tutti rimescolati come delle pedine, ma non è nel mio interesse, perlomeno, non per ora. Ci sono lavori più urgenti di cui ha bisogno la nostra baracca per stare in piedi. –

Recuperando un po’ di sana diplomazia si trattenne dall’aggiungere che per lui era difficile capire perché l’unica cosa che doveva restare in piedi nella sua prospettiva di vita era il suo ciuffo. Avesse potuto dirglielo….
Si limitò ad un cenno di saluto.
- Aspetta, Marco. –

- Sì, dimmi. –

- Conosco un’amica di Silvia. –

Marco strinse il pugno senza darlo a vedere.

- E con ciò? –

- E’ la donna bionda che camminava con me e Giuliana. –

- Carina, devo dire. Ma Silvia è più bella, e bacia da favola. Mi dispiace, ma ormai non saprei che farmene di un aggancio. –

Liguori infilò la mano in tasca per giocherellarci indisturbato, come se Marco non vedesse già dai suoi occhi ogni tentativo di appiglio, solo che ormai non aveva più nulla in cui cercarlo.

- Buona fortuna allora, neo-vicedirettore e neo-fidanzato. Giuliana e Clarissa mi aspettano, non voglio essere troppo scortese. Ciao. –

Il suo collega lo salutò in fretta, con un sorriso che brillava di una luce al neon, di scarsa qualità e sul punto di fulminarsi.

- Ciao Angelo, passa una buona serata. –

Lo vide allontanarsi di fretta e continuò a correre. Non gli aveva augurato la buona fortuna perché la ragazza bionda era un’amica di Silvia e non le augurava proprio di avere accanto un tipo come Liguori, e per solidarietà non lo augurava neanche all’altra che era con lei. Quell’incontro gli aveva lasciato un sapore amaro in bocca, come una sensazione strana da scrollarsi da dosso senza neanche capire. E invece lui voleva capirla. Continuando a correre e mantenendo sostenuto il ritmo inseguì i suoi pensieri illuminati dalla luce del tramonto. Già si sapeva, dunque, ciò che lui era diventato, ciò che lui era, chi lui era.

“Chi sono io?”

“Quello che smanettava con i file sul computer di Alessandro, però in maniera ufficiale.”

Ripensò al nome di quella cartella, “babbuini rampicanti”, e non poté fare a meno di immaginare Angelo Liguori come una scimmia che tentava di arrampicarsi su un albero, sbuffando dalla fatica e sistemandosi un ciuffo di peli piastrati. Il pensiero lo gettava a terra come una banana matura che cadeva da un albero. Prima della promozione sarebbe bastato chiudere la porta della sua stanzetta e avrebbe risolto la questione “collega insopportabile”, adesso non poteva chiudere più nessuna porta. Martedì mattina aveva un appuntamento, con il destino che lo guardava implacabile, con tante cose da sbrigare, con gli occhi di tanti dipendenti improvvisamente sotto il suo sguardo e con quel babbuino rampicante piantato alla gola come un boccone di traverso. E in ogni caso, dovevano ancora arrivare la domenica e il lunedì, prima che arrivasse il martedì mattina. Corse ancora, fino a dimenticare che forma avessero i pensieri, fino a sentire chiaramente quella dei muscoli sforzati, finché non intravide la macchina e con essa la promessa di mezz’ora di tragitto per tornare a casa e poi meno di un’ora di tempo libero prima di uscire di nuovo, forse non molto per rilassarsi ma abbastanza per una bella doccia, che tra le cose che desiderava,  era l’unica di cui era precisamente consapevole.


 
“A che gioco stiamo giocando?”

Clarissa sorrideva nella foto abbracciandola davanti alle loro torte. Silvia fissava in piedi l’immagine senza riuscire a darsi una risposta.

- Alessia secondo te dovrei andare a quella cena lunedì sera?  -

La sorella alzò le spalle.

- E’ una decisione che devo prendere da sola, vero? –

- E’ una decisione che devi prendere con lei. –

Silvia guardò la sorella mentre un lampo le passava negli occhi, in fondo sapeva che era vero. Era una sensazione nascosta, che riaffiorava leggera nella sua insistenza e forte nella sua cruda verità: anche se lei era lontana, solo con lei poteva affrontare quel discorso. Per tutta risposta archiviò quel pensiero in un angolo remoto della coscienza per dedicarsi alla scelta di un vestito.

- A me piace questo verde. – esordì Alessia.

Silvia prese la gruccia e rigirò il vestito, osservò il tessuto leggero dondolare nell’aria come lei lo muoveva. Pensò che poteva andar bene. Lo disse alla sorella e lo ripose nell’armadio.

- Ale che ore sono? –

Alessia le mostrò l’orologio e lei trasalì.

- E’ già così tardi? –

- Sì. –

- Perché non sento mai il tempo giusto? –

Sospirò e posò sul letto il vestito. Lì accanto sistemò anche dei collant, un reggiseno senza spalline, uno slip e una scatoletta Morellato. Slegò i capelli raccolti in un frettoloso chignon e si spogliò gettando i vestiti alla rinfusa sulla scrivania.

 


 
Silvia entrò nel piccolo ristorante dopo la sorella e i genitori. Camminò svelta osservando le pareti tinte di arancio e il pavimento in parquet, da quanti mesi non ci entrava? Alzò le spalle e prese posto al tavolo che avevano prenotato per festeggiare l’arrivo di Alessia. La temperatura all’interno del locale era notevolmente più alta rispetto alla serata ventosa che avevano lasciato alle loro spalle chiudendo la porta del locale. Le si arrossarono le guance e si guardò intorno, come se si aspettava che succedesse qualcosa. Si ripeté che doveva soltanto godersi la serata, non la inseguiva nessuno. Già, nessuno, eccetto che i pensieri. L’indomani il lavoro l’aspettava, la settimana successiva Clarissa l’aspettava. Lavoro significava insicurezza e voglia di andare più a fondo, fuse insieme in un impasto ambiguo, lo stesso che accompagnava il pensiero di Clarissa e che in tale caso si componeva di affetto e lontananza. Non c’era mai una risposta nella sua vita, mai un punto di equilibrio, mai un punto fisso, mai un pilastro stabile. Partecipava alle conversazioni della sua famiglia giocherellando con la forchetta, rigirando tra le mani quella piccola posata, sul cui colore argentato si rifletteva la luce ambrata della sala. Di tanto in tanto ascoltava il rumore dei camerieri che percorrevano rapidi lo spazio dalla cucina ai tavoli, delle posate che si poggiavano sui piatti, delle persone che ridevano, tutti immersi in un tintinnio e in un vocio continuo come un sottofondo che sapeva di vita, di allegria. Spostò lo sguardo sul menù, stampato in carta color ocra, in caratteri grandi, neri e arancio, elegante ma non sfarzoso, invitante nella sua semplicità, tutto l’opposto della sua vita. E l’esatta raffigurazione di un’altra vita che in quel momento entrava dalla porta a vetri all’ingresso. Silvia fissò i battenti allibita. Per un attimo si concesse il lusso pigro e appagante di un’occhiata in quella direzione, assaporando con gli occhi l’eleganza e la semplicità di un Marco Carini in jeans e camicia sportiva. Mentre lui si dirigeva ad un tavolo dall’altra parte del ristorante seguito da altri uomini giovani ed eleganti Silvia non pensò neanche a fargli un cenno per farsi vedere, rimase ferma a guardarlo, finchè non la scosse un’altra visione: Clarissa con il fratello Antonio che attraversava l’ampia sala del locale e che lo salutava con uno sguardo incerto. Lui aveva tirato fuori un sorriso di cortesia e le aveva voltato le spalle per raggiungere il suo tavolo. Marco e Clarissa si conoscevano?

- Ciao bella! –

Silvia si scosse e si alzò in piedi. Raggiunse l’amica che si avvicinava al tavolo e si salutarono.

- Clari, ciao. –

- Anche voi qui? –

- Sì, festeggiamo la presenza esclusiva della star di casa, non l’hai vista? –

Clarissa si voltò sorpresa verso il tavolo.

- Ciao Alessia. –

La donna alzò gli occhi dal menù e le rivolse un ampio sorriso, così come fecero i signori Tomelli.

- Anche da me mio fratello in via del tutto eccezionale è tornato per un paio di giorni, ha ottenuto un posto di lavoro strepitoso, non lo sai? –

Silvia la guardò interdetta.

- No. -

- Ti devo raccontare amica mia. –

Si voltò un secondo verso l’ingresso dove con uno sguardo impaziente l’attendeva Antonio. Tornò a guardare Silvia e la salutò con un’ombra di dispiacere sul viso armonioso, quasi statuario.

- Sì, mi devi raccontare tante cose. –

- Sì, Silvia, buona serata, e fammi sapere per lunedì. –

Sorrise ancora una volta prima di voltarsi e allontanarsi verso il fratello che l’aspettava.

Silvia ancora con i tutti i suoi dubbi rimasti intatti cercò con lo sguardo il tavolo di Marco. Si concesse un’altra rapida occhiata, era così bello...
- Silvia cosa ordini tu? –
Si voltò di botto verso la madre che la chiamava e disse al cameriere, che l’attendeva con penna e taccuino in mano, la prima cosa che lesse sul menù.

- Fusilli alla norma. –

- Grazie signorina. –

Il ragazzo alto e biondo si allontanò in fretta verso la cucina. Silvia si voltò verso la sorella e si ritrovò di nuovo a conversare con lei mentre aspettavano la cena, come facevano tanti anni prima.

- Guarda cosa mi ha regalato Riccardo per i nostri sei mesi. –

Silvia osservò lo schermo lucido del cellulare della sorella e alla vista di una fotografia che ritraeva un ciondolo d’oro.

- Bellissimo! –

Una casa tutta sua, un lavoro oltre le sue aspettative e un fidanzato. Quanto era diversa la vita della sorella! E così, in fondo, era stato da sempre.

- Dai Silvia, andiamo a lavare le mani. –

Si alzarono dalle sedie in legno scuro e percorsero tutta la sala verso il bagno. Non riuscì a fare a meno di lanciare un’occhiata verso il tavolo di uomini appena alla sinistra di dove passarono. Si voltò di nuovo verso la porta a vetri con i simboli della toilette e non poté vedere che proprio da quel tavolo l’uomo dagli occhi azzurri l’aveva fissata per un paio di secondi e poi si era alzato dalla sedia.

I lavandini erano tutti in fila in una saletta comune, piccoli davanti a un grande specchio.

- Silvia, puoi tenermi la borsa un attimo? –

Lei annuì e prese la piccola tracolla nera mentre la sorella si infilava nella porta a sinistra, con l’insegna di una piccola donna stilizzata. Silvia iniziò a lavarsi le mani pensierosa, come scossa da un’ansia indistinta, senza un colore preciso. All’improvviso nel grande specchio alla parete comparve la figura di Marco che apriva il rubinetto nel lavandino di fianco.

- Ciao Silvia. –

Trasalì.

- Ciao Marco. –

Chiuse il rubinetto e si voltò verso di lui. Anche Marco chiuse il suo e con le mani umide le accarezzò il collo.

- Sei molto bella, stasera. –

Silvia sentì il fuoco divampare nelle guance e abbassò lo sguardo, alle gambe toniche dell’uomo che le cingeva il viso.

- Grazie, anche tu. –

Alzò di nuovo il viso e gli accarezzò le guance, anche lei con le mani bagnate. Lentamente lo baciò. Ricadde di nuovo in quella sensazione che il mondo, con tutti i suoi dubbi e i suoi brutti nodi, diventasse solo un dipinto lontano mentre la vera realtà erano quelle labbra, quel volto, quel profumo maschile, quella lingua che comunicava senza parlare. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalle sensazioni. Quando li riaprì vide Alessia che prendeva la sua borsa rimasta sul piano dei lavandini e che lanciandole uno sguardo d’intesa si allontanava. Rimase ferma a guardare nello specchio l’immagine dei loro corpi abbracciati, Marco appena un po’ più alto di lei, con i capelli più scuri e gli occhi più chiari. Sentì un nodo bloccarle la gola e quelle che il mondo chiama farfalle invaderle lo stomaco. L’immagine riflessa nello specchio rifletteva un piccolo raggio di quella perfezione che al mondo umano non era concessa. Nel vortice di emozioni aggrovigliate il cuore picchiava furioso nel petto, come se volesse abbattere delle pareti invisibili che lo chiudevano prigioniero. Un altro cuore batteva concitato dentro quell’abbraccio di baci che, all’improvviso, di nuovo li avvolgeva. Entrambi si sfioravano, fermi in quella piccola stanza, alla fine di quella giornata che era stata per entrambi un miscuglio di emozioni. Improvvisi raggi di sole e angosciosi attimi di vento freddo senza possibile via di fuga si erano alternati nelle vicende di quel sabato, riflettendosi nei loro volti, che diventavano sempre più familiari, nelle loro parole sempre più libere, nei loro cuori sempre più vicini, eventi che si erano susseguiti come sbalzi termici e che li avevano portati lì, in quel lungo abbraccio senza temperatura. Il cieco piacere di quei baci non lasciava loro neanche uno spiraglio di anticipazione, neanche una piccola traccia, per capire se dopo quegli sbalzi termici sarebbe arrivato altro freddo o altro caldo.  
 
  
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