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Autore: AshHurricane    11/07/2014    3 recensioni
Dopo secoli di silenzio sono tornata, questa volta in un altro fandom, ovvero quello ( ma dai? ) di Sherlock. Mi sono innamorata del telefilm, e questo è un esperimento. Non prometto nulla, non so come continuerà, e se continuerà. Posso solo sperare in meglio ç__ç
Soulmate!AU Steampunk world ( perchè adoro lo steampunk )
Ma John aveva bisogno di camminare. E ancor più di correre. Se non eri capace di correre, in tempi come quelli, a Londra, finiva che le pattuglie notturne ti prendevano. E lui non aveva voglia né tempo di farsi asportare un qualsivoglia organo interno a ripetizione per osservare gli effetti che l’operazione aveva sull’organismo. E men che meno aveva voglia di farsi modificare il cuore, o una qualsiasi altra parte del corpo a scopo sperimentale. Aveva avuto la sua dose di sangue e morte nella sua breve vita, e ora, all’età di ventidue anni appena, si ritrovava a pagarne il prezzo, ovvero la sua gamba, finita chi sa dove a marcire in pasto ai topi. Nemmeno ci voleva pensare, gli veniva da vomitare solo all’idea.
Genere: Generale, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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01 - Capitolo primo
 
 
 
Si era svegliato quattro volte quella notte, tutte per colpa della protesi che aveva al posto della gamba destra. Un leggero ronzio lo faceva sussultare sotto le coperte, poi, quando piegava l’arto robotico, era lo stridere degli ingranaggi a farlo rabbrividire.
John Watson non se ne intendeva di meccanica. Non ne sapeva niente, lui era un medico, ed era per questo che si era rivolto a qualcun altro per farsi costruire la gamba. Gamba che, peraltro, non valeva nemmeno la metà del prezzo che gli era stato richiesto ( circa duemila sterline in contanti, che nemmeno riusciva a ricordare come avesse fatto a trovare ).
Ma John aveva bisogno di camminare. E ancor più di correre. Se non eri capace di correre, in tempi come quelli, a Londra, finiva che le pattuglie notturne ti prendevano. E lui non aveva voglia né tempo di farsi asportare un qualsivoglia organo interno a ripetizione per osservare gli effetti che l’operazione aveva sull’organismo. E men che meno aveva voglia di farsi modificare il cuore, o una qualsiasi altra parte del corpo a scopo sperimentale. Aveva avuto la sua dose di sangue e morte nella sua breve vita, e ora, all’età di ventidue anni appena, si ritrovava a pagarne il prezzo, ovvero la sua gamba, finita chi sa dove a marcire in pasto ai topi. Nemmeno ci voleva pensare, gli veniva da vomitare solo all’idea.
Si tirò a sedere sul letto e, passando una mano sul viso si costrinse ad alzarsi. Quell’aggeggio infernale aveva pure bisogno di un paio di minuti per  caricarsi di prima mattina. Considerato il fatto che i cavi grazie a cui la protesi funzionava erano strettamente connessi al suo sistema nervoso la cosa non lo sorprendeva nemmeno poi tanto: pure a lui servivano un paio di minuti per iniziare a capire qualcosa appena sveglio. Ma diavolo, un conto era il cervello, un altro era la gamba. Aveva bisogno di svuotare la vescica, e presto, non poteva aspettare.
Si lamentò con un mugugno e, appena sentì che gli ingranaggi iniziavano a girare a sufficienza in prossimità del ginocchio, si trascinò sino al bagno dove, appoggiata la fronte al muro, si concesse una lunga pausa di riflessione in piedi di fronte al gabinetto. Per così dire.
 
Il suo appartamento era un buco. E non lo diceva tanto per dire, era veramente un buco. Una stanza, nemmeno poi troppo grande, e un piccolo -ma che piccolo: minuscolo, bagno, con vista strada di periferia. O, per essere pignoli, con vista eroinomani. Perché ad essere franchi questo era ciò che John Hamish Watson vedeva tutti i santi giorni sporgendosi fuori dall’unica finestra che gli era stata donata. Una decina, se gli andava male il numero raddoppiava, di ragazzi della sua età intenti a cercare una vena libera sulle braccia, o in altri punti del corpo.
Le strade del centro erano decisamente più sicure, raramente sparivano delle persone da lì, ma proprio per questo il costo degli appartamenti in quella zona era inaffrontabile per John e la sua misera rendita come medico a chiamata. Non ci aveva pensato due volte quando gli era stato offerto il monolocale in periferia: meglio avere un tetto malconcio sulla testa che dormire all’aperto, dove avrebbe costituito un fin troppo facile bersaglio. In ogni caso lui non era un tipo che si preoccupava troppo, o che si faceva spaventare dalla presenza di un gruppo di drogati sotto casa. Che provassero a entrare nel palazzo, gli prudeva la mano dalla voglia di usare la rivoltella infilata nei pantaloni.
Aveva solo 22 anni ma già sapeva di aver visto molte più cose di quanto altri ragazzi della sua età avrebbero potuto sopportare. A partire dalla scomparsa dei suoi genitori e della sorella Herriet, in una calda serata di Giugno. Semplicemente era tornato a casa dopo aver fatto la spesa al mercato nero e loro non c’erano più. Aveva 16 anni all’epoca, e la ferita bruciava ancora, come fosse stato il giorno prima.
Dopo quell’episodio si era unito al gruppo di giovani rivoluzionari che tentavano di sabotare i laboratori sotterranei e di instaurare un governo proprio, convinto  che sarebbe servito se non a salvare la sua famiglia quantomeno a vendicarla. Aveva iniziato a vivere nel casermone comune, e, a soli 17 anni, dopo aver finito anticipatamente i suoi studi, aveva iniziato a prepararsi per diventare medico. Avrebbe potuto scegliere di fare il meccanico, o l’architetto, ma dopo aver visto tutte le mutilazioni e le modifiche provenienti dai laboratori si era messo in testa che ci fosse bisogno di qualcuno capace di sistemare le cose, di farle tornare a come era naturale fossero. Ciò voleva dire occhi al loro posto, niente più ferite che si rimarginavano da sole, o che non lo faceva proprio, per contrario.
Era stato addestrato come fosse un soldato, aveva imparato come spezzare il braccio a un altro uomo, o dove mirare perché questi morisse sul colpo. La pistola che portava infilata nei pantaloni era diventata la sua migliore amica. Lui, e quelli che considerava la sua nuova famiglia ( e che si erano successivamente rivelati solo un ammasso di idioti ) erano riusciti a far saltare in aria uno dei più importanti laboratori sotterranei di Londra, senza contare le innumerevoli strutture minori a cui era stato dato fuoco. Dubitava fosse sopravvissuto qualcuno a quelle incursioni, e il pensiero delle vite innocenti che aveva spezzato ( i pazienti mutilati, gli esperimenti umani chiusi in quei bunker ) lo tormentava ogni notte, rendendo il suo sonno inquieto e facendolo sudare freddo. Più volte aveva sognato di aver ucciso sua madre, suo padre, la sorella, li aveva visti bruciare, incapaci di uscire, intrappolati sino alla morte. In quei casi a svegliarlo non era l’angoscia, ma le sue stesse urla durante il sonno.
Viveva nel tormento di ciò che aveva fatto sino a due anni prima, quando aveva capito quanto tutto fosse sbagliato. A far scattare in lui l’idea che ci fossero altri modi per aiutare le persone ( come ad esempio attraverso la professione del medico ) era stato il perdere una gamba. Lui e altri cinque uomini erano riusciti ad entrare in un piccolo casermone le cui cantine costituivano uno dei numerosi ambulatori in cui coloro che sparivano dalla circolazione nelle strade di Londra si trovavano rinchiusi. Un altro laboratorio per esperimenti, per essere franchi. Avevano appiccato l’incendio dopo pochi minuti, ed erano corsi all’esterno. Le fiamme li avevano raggiunti troppo velocemente però. Avevano lambito la gamba di John, che non era più guarita. Le ustioni avevano infettato la carne, costringendolo a letto febbricitante.
Una settimana dopo la sua gamba destra era stata amputata.
Aveva avuto solo il tempo di guarire prima di essere sbattuto fuori: uno storpio, un uomo incapace di correre, costituiva solo un peso per il gruppo. Li rallentava. John si era convinto che il destino avesse giocato a suo favore in quel frangente, gamba esclusa.
 
Aveva ricominciato ufficialmente da capo il giorno del suo ventesimo compleanno, quando, sul polso, era apparsa la data. Era cominciato la mattina, con un lieve pizzicore che non sapeva spiegarsi, e solo a metà pomeriggio, quando le cifre e le lettere avevano iniziato a farsi più chiare, aveva capito: stava succedendo.
Non erano mai stati fatti studi specifici a riguardo, e quel poco che John sapeva l’aveva imparato dalla madre e dal padre, quando ancora erano con lui. Il momento in cui la data appariva variava da persona a persona. La madre gli aveva spiegato che la data era la cosa più importante che possedesse, che andava custodita, che nessun altro doveva vederla fatta eccezione per lui. Gli aveva detto che stava custodendo il destino di una persona tra le mani e che, un giorno, lo avrebbe aiutato a capire. John non sapeva cosa intendesse, e tutt’ora il significato di quelle parole gli era sconosciuto. Solo di una cosa era certo: quella che aveva sul polso era la data esatta, l’orario preciso, il luogo, il momento in cui la sua anima gemella sarebbe morta.
Aveva letto da qualche parte che, secondo alcuni, essa costituiva un fardello consegnato agli uomini da Dio, un fardello troppo pesante per essere portato, che si trattava di una punizione divina per qualche sorta di peccato commesso dall’umanità di cui John non sapeva nulla. Sapeva solo che avrebbe conosciuto l’identità della sua anima gemella solo al momento della sua morte. Non gli interessavano discorsi teologici di alcun genere a riguardo. Capire che l’unica persona al mondo capace di completarti era quella morta il secondo prima, a parer suo, era già un prezzo abbastanza alto da pagare.
Così, la sera del suo ventesimo compleanno, mentre la data gli macchiava a vita la pelle, John fasciò il polso sinistro su cui essa era impressa e memorizzò quei numeri, quel luogo.
 
24 - 09 – 2038
14:30 Melcombe St
 
 
Erano passati due anni da quel giorno. Il polso di John era ancora fasciato mentre la gamba, che l’aveva svegliato quattro volte quella notte e che aveva fatto attendere la sua vescica per un tempo infinitamente lungo, si era finalmente decisa a funzionare come di dovere. Era il 7 agosto 2037, ovvero il ventiduesimo compleanno di John Hamish Watson, giovane adulto tormentato dai sensi di colpa che viveva nel tentativo di aiutare gli altri, annoiato, stanco della propria vita, forse anche depresso. Era il suo ventiduesimo compleanno, e, come regalo, avrebbe solo desiderato essere preso sotto da un furgone e morire sul colpo.
 
Si era costretto a vestirsi e uscire di casa, conscio del fatto che se fosse rimasto steso sul letto a dormire la voglia di lanciarsi dal tetto del palazzo sarebbe aumentata allo scorrere dei minuti. Decisamente non voleva fare una fine tanto miserabile, né il giorno del suo compleanno, né mai. Aveva camminato sino alla fermata dell’autobus nella via parallela alla sua, e aveva avuto decisamente fortuna, perché cinque minuti dopo il mezzo rosso e arrugginito gli si era fermato davanti, permettendogli di salire.
Si era seduto poco dietro il posto dell’autista e aveva guardato la città scorrere sotto i suoi occhi dal finestrino. Poi, quand’era ormai vicino al centro, si era alzato, aveva aspettato un paio di fermate, ed era sceso.
Non gli era mai piaciuto tanto passeggiare, men che meno con quella gamba, e non gli erano nemmeno mai piaciuti più di tanto i fiori, o i prati. Si grattò piano il naso che prudeva per colpa dell’allergia e passò il dorso della mano sulla nuca sudata a causa del caldo torrido di quel giorno. Nemmeno c’è bisogno di dire che si stava pentendo amaramente di essere uscito di casa. A pensarci era meglio se mi buttavo dal tetto, si disse, mentre passava di fronte all’ennesimo baracchino che vendeva hamburger. O almeno quelli che dovevano sembrare hamburger.
Non si fece rallentare dal profumo, né dallo stomaco che brontolava e continuò a camminare, sino a che, alle sue spalle, non sentì una voce che lo chiamava.
-John? John Watson?-
La mano corse immediatamente alla pistola mentre si voltava. Il viso di Mike Stamford a pochi metri da lui, sorridente, un panino grondante di salsa piccante in mano, lo indusse a mollare la presa.
-Mike, Mike Stamford! Lo so, sono un po’ ingrassato-
Borbottò l’uomo, ridendo e dandogli una pacca sulla schiena. Avevano studiato insieme per diventare medici, avevano condiviso il tavolo da laboratorio al Barts, e John ricordava chiaramente come se fossero passati solo un paio di giorni il forte profumo dell’amico, le sue battute, e la voglia di imparare che trapelava da tutta la sua persona. Ricordava anche un fisico decisamente più asciutto di quello che si trovava davanti ora. La pancia prominente di Mike non doveva di certo aiutarlo molto nei movimenti. John sorrise appena e scosse piano la testa.
-No, ti trovo bene-
Mentì.
 
Avevano parlato del più e del meno per cinque minuti, poi erano passati al rivangare i vecchi tempi, e, John nemmeno sapeva dire come, si erano ritrovati a parlare di appartamenti, e del fatto che fossero tutti troppo costosi e convenisse condividerli con qualcuno. John si ritrovò a sbuffare, e dare un morso al panino che si, alla fine aveva ceduto a comprare. Ora a languire era il suo portafoglio.
-Chi vuoi che mi voglia come coinquilino?-
Disse. Sul viso di Mike si fece largo un sorriso divertito che a John non fece presagire nulla di buono. Prima che l’amico parlasse John notò che il suo polso sinistro era lindo, nessuna data ancora lo decorava. Quasi lo invidiò.
-Sai, sei la seconda persona a dirmi una cosa del genere oggi-
Disse. John si voltò a guardarlo e alzò un sopracciglio.
 
 
-Chi è la prima?- 








n.d.a.: Finalmente sono riuscita a finire questo benedetto capitolo. Non credo di aver mai scritto capitolo tanto lungo, è un record o.ò 
Che dire, penso che ormai si sia capito che pubblico di notte, perchè è alla notte che son sveglia e che scrivo. Ho voluto fare un bel primo primo piano sul dottore più amato dal fandom ( e dal mondo, cioè, voglio dire, chi è che non ama John Hamish Watson? Anche il suo secondo nome ridicolo è amabile cwc ) prima di dare il via alle danze. Che dire, nel prossimo ci occuperemo di Sherlock, e del primo incontro tra i due. Primo che incontro che ho deciso di prendere dalla serie, rivisitandolo. Poi insomma vediamo come va. Non so promettere nulla, nè scadenze nè termini, quindi nulla, spero solo di farvi avere il capitolo il prima possibile :3
Di questo sono abbastanza contenta, speriamo bene. 
Grazie a tutti quanti, 
Miki!
 
  
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