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Autore: Alkimia    11/07/2014    6 recensioni
[Post-TheWinterSoldier]
"La voce dell’uomo con lo scudo grida di nuovo quel nome. Dentro a un ricordo che sa di neve e paura, il Soldato sente lo sferragliare di un treno coprire le parole del suo amico, un addio che è la somma di tanti inverni.
Amico, il suo 'migliore amico', è questo che ha detto di essere. Se fosse vero, quello che al Soldato resta da provare è un sentimento che impiega qualche minuto a definire: vergogna.
Ma ciò che gli urla nella testa ora ha la voce della vendetta."

Steve ha promesso che ritroverà Bucky. Fury ha promesso che darà la caccia a ciò che è rimasto dell'Hydra. Entrambe le promesse richiedono l’aiuto dei pochi alleati di cui ci si può ancora fidare.
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta, Spoiler!
Capitoli:
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Fourteenth bullet: La torre
 
I never knew daylight could be so violent
a revelation in the light of day
you cant choose what stays and what fades away
but I'd do anything to make you stay
 
IN VOLO
 
Il cielo oltre gli oblò è grigio temporale, il mondo è un ombra sotto strati di nuvole.
Natasha Romanoff vorrebbe che quell’aereo viaggiasse più veloce della sua impazienza.
Sa che leggere e rileggere i file che Stark ha decriptato non le dirà niente di più di quello che già non sanno, ma non riesce a fare altro. Forse è stata la visita a quel palazzo alla periferia di Glasgow, e l’idea che ora sia bruciato non le è di alcuna consolazione.
È stata lei stessa ad appiccare l’incendio, e sarebbe voluta restare lì a vederlo bruciare, a vedere la palazzina scomparire avvolta dalle fiamme.
Lo ha già fatto, ha lasciato bruciare una base del KGB e l’ha vista consumarsi, ardere come un gigantesco falò in una notte ad est del mondo. Era la sua prima missione come agente dello SHIELD, i fuochi di artificio non erano in programma, ma lei è sempre stata una a cui piace improvvisare e rubare a quello sporco mestiere ogni grammo di divertimento che riesce a prendersi.
Il fuoco danzava nelle sue iridi da gatta e Natasha Romanoff seppelliva nella cenere un nome e un passato che in parte le avevano già strappato via. 
Non ha mai pensato a quello che si è lasciata alle spalle, a tutto quello di cui non ha memoria, non le occorrono altri ricordi orribili in aggiunta a quelli che già possiede. Non ci ha mai voluto pensare, fino a quel momento, fino a quando non ha incontrato gli occhi del Soldato di Inverno, famelici e spietati, che la cercavano in mezzo a un caos di macchine e gente in fuga nel bel mezzo di Washington.
Ha archiviato la cosa perché non ne aveva il tempo, non ne aveva la voglia. Non ne aveva il coraggio.
Ma quelle schegge sono ancora sotto la sua pelle e fanno male. Sono schegge di neve e filo di ferro dove i ricordi si impigliano e sanguinano. Sono cicatrici tornate a bruciare all’improvviso, come quelle che pizzicano all’avvicinarsi di una tempesta.
Sono segni e tagli che si mettono in fila e convergono a formare la linea contorta della cicatrice che ha visto sulla schiena di Bucky Barnes quando lo stava medicando, dopo che erano tornati nell’albergo vicino al porto.
Conosceva quella cicatrice, sembrava parlarle di passato e futuro, come le cose scritte nelle linee delle mani.
E per quanto la sua ragione continui a ripeterle che è assurdo, lei sa che c’è una spiegazione.
Non voglio ascoltarla.
Non è pronta, per questo ha deciso di continuare a fare finta di niente e ha preferito concentrare le sue risorse e i suoi pensieri sulla lettura di quei file.
Natasha Romanoff è molto brava a mentire. Ma prima di allora si è sempre concessa la dignità di non mentire anche a se stessa.
Per molto tempo Fury aveva tenuto i dati del progetto Avengers solo in forma cartacea, in una cartellina tenuta al sicuro da qualche parte nel suo ufficio o chissà dove, poi erano arrivati gli dei dai mondi lontani e avevano portato sulla Terra le loro beghe familiari e i loro enormi automi sputafuoco, e il direttore dello SHIELD aveva dovuto mettere a parte il Consiglio della sua idea di formare una squadra per prevenire le minacce. E allora ogni cosa era stata archiviata nel sistema.
E ora l’HYDRA ha rubato anni di dati e ricerche scientifiche per farse chissà cosa. Perché è questo che i file dicono: hanno sottratto i dati sul progetto Avengers, le tecnologie di Stark, le analisi di Banner, i test su Rogers e i rilevamenti sul martello di Thor e li stanno usando, in qualche modo assurdo e scellerato. E loro non sanno dove, come, quando.
Stark e Steve erano furiosi quando lo hanno scoperto. Natasha è ben oltre la furia, è in uno stato d’animo che non provava da un sacco di tempo, prova quella sensazione rabbiosa e frustrante dell’animale in gabbia, di quello che se si aprisse anche solo un minuscolo varco tra le sbarre, farebbe tremare il mondo intero. Ma le sbarre reggono, stringono, chiudono.
E a lei viene voglia di urlare. Perché lo sa che a volte i nemici possono essere più bravi o più forti o anche solo più fortunati.
Ma lei deve restare in silenzio, la Vedova Nera non crolla, non si lascia vincere dalle emozioni, lei morde. E uccide.
 
***
 
«Non si può dire che il tuo amico sia tipo di molte parole» Tony riempie due bicchieri di Martini e ci infila dentro uno stecchino con tre olive ciascuno, poi ne passa uno al Capitano. «Lo so che l’alcol non è uno dei tuoi diletti, ma fammi compagnia».
Dopo qualche secondo di esitazione, Steve accetta il bicchiere da cocktail e lo prende con due dita attorno al sottile stelo di vetro.
Tony continua a guardare, non visto, gli altri passeggeri. Il Soldato è sprofondato in un sedile accanto a un finestrino e se la dorme alla grossa.
«Che cosa ti ha fatto cambiare idea?» gli chiede Steve. «Di certo non la nostra discussione, le nostre discussioni non ti hanno mai persuaso di niente».
Tony rimanda la risposta, vuotando in un paio di rapidi sorsi il suo bicchiere, forse perché di risposte non ne ha.
«Chi ti dice che io abbia cambiato idea?»
«Se così non fosse, Bucky non sarebbe su questo aereo»
«Mi credi sempre peggiore di quello che sono, è una cosa che fai solo con me»
«Perché sei troppo egocentrico e presuntuoso e io mi sento in diritto di bilanciare. Lo faccio per te, cosa credi?».
Tony guarda la bottiglia di Martini, come a chiedersi se sia il caso di prepararsi un altro bicchiere ma sembra resistere alla tentazione solo per non dare al Capitano l’impressione di aver ragione.
«Questa cosa va risolta, in un modo o nell’altro» si limita a dire. «E poi sei tu quello che si chiede cosa c’è sotto la mia armatura. Se non ti conoscessi, direi che ti sei preso una cotta per me»
«Sei tu quello che ha attaccato una cimice al mio scudo per seguirmi. Avrò pure più di ottant’anni ma ho imparato cosa vuol dire la aprila stalking».
Il signor Stark incassa il colpo.
«Ehi, ti sto risparmiando le battute sulla biondina, non farmi pentire».
Steve Rogers sposta lo sguardo con una velocità che lo tradisce.
Tony gongola ma per questa volta lascia correre.
A New York li aspetta un duro lavoro. A giudicare da quanto ha visto, non è solo una lavoro da eroi più forti del Pianeta, è qualcosa di più complicato, di cuori da mettere in riga: Steve e l’agente 13, Natasha e… Jon Snow, che non si capisce quanto ne sappia.
E lui pensa che sarà divertente, è un pensiero che che passa come un proiettile attraverso la coltre di sgomento e preoccupazione. I cattivi hanno di nuovo messo le loro manacce sudicie negli affari dei buoni, e non hanno pescato a caso.
Non sanno quanto è grosso il mostro che si nasconde nell’ombra e che quella squadra improbabile ha inseguito per mezzo mondo solo per scoprire - di nuovo - che si era già bello che accomodato in casa loro. Che sta giocando con i loro giocattoli.
«Ho detto che ne abbiamo viste di peggiori» dice Steve, all’improvviso. «Ma stavolta è diverso, vero?»
«Se stai cercando di contagiarmi con il tuo pessimismo, sappi che sono vaccinato».
Sì, Rogers, è diverso. Stavolta sono soli, soli davvero. Non hanno niente e nessuno a coprirgli le spalle, e non hanno un traguardo ad aspettarli da qualche parte, né colonnelli orbi a tracciare una strada per loro.
Dal momento che è un genio, Tony Stark è abituato a definire il senso delle cose in termini semplici. Le battaglie lui le comprende in termini di vittoria o sconfitta, in probabilità di successo o insuccesso. Stavolta è tutto molto più complicato di così ed è inutile starci a rimuginare fino a quando non saranno arrivati a destinazione.
Stando ai documenti che ha letto tra i file decriptati, il progetto del Dipartimento X con le tecnologie rubate dal fascicolo degli Avengers è ancora solo una bozza. Devono averlo accantonato quando hanno cominciato a ritenere assai più valido il progetto Isnight e loro hanno ancora molto tempo per riuscire a scovarli e fermarli prima che un nuovo orrore diventi reale.
Manda al diavolo quel senso amaro che gli stringe la gola e si versa un altro Martini. Poi guarda Steve che ha già messo su la sua migliore espressione da suocera.
«Allora, mi fai contento? Mi dici qualcosa sulla biondina?».     
 
NEW YORK
 
L’aereo atterra su una pista privata, fuori dal centro.
New York sta raggomitolata tra le sue luci incessanti e un cielo nero dove le stelle non riescono a far breccia.
Il Soldato di Inverno respira una boccata di aria fumosa e guarda davanti a sé i puntini luminosi che disegnano la geometria della città in lontananza.
È un ritorno che dà le vertigini, ma è qualcosa che preferisce tenere per sé. Sentirsi un po’ più vicino ad essere se stesso è una di quelle cose importanti che gli sembra possano perdere di significato se se ne parla troppo, a voce alta.
Non che abbia in mente un’idea concreta di casa, ma mentre raggiunge insieme agli altri delle macchine fatte arrivare lì da Stark, Bucky Barnes sente di poter pensare per  la prima volta a qualcosa di simile al suo posto nel mondo. Forse è la mano di Steve che cala in una pacca affettuosa sulla sua spalla, in un gesto che è un incoraggiamento e un bentornato rimasto in sospeso. Forse è il viso di Natasha che entra un istante nel suo campo visivo e poi scompare nella rapidità del passo veloce della donna.
La vede salire su una delle auto. Prima di sparire dietro la portiera metallizzata, Natasha lo guarda un istante. Ha occhi che sono lame di coltello e lui non capisce perché.
Si riscuote dal disagio provato per quella breve occhiata e segue Steve verso la seconda macchina.
Mentre sfilano attraverso le vie trafficate, si sente improvvisamente sveglio, quasi euforico. Vorrebbe fermare l’auto e mettersi a correre lungo il marciapiede, tra le vetrine scintillanti e i coni di luce proiettati dai lampioni.
Qualche meccanismo si è mosso dentro di lui e il Soldato non sa su quale parte del suo cuore stia facendo leva. Ma è una sensazione piacevole, la prima dopo tanto tempo.
«Oh Cristo, ma è…» borbotta quando il profilo della Stark Tower compare in fondo alla strada, torreggiando su tutte le altre costruzioni.
«…orribile. Sì, l’ho pensato anche io la prima volta che l’ho vista. E non ho ancora cambiato idea» dichiara Steve, annuendo. Ma i suoi occhi parlano di ricordi fumosi di piombo e macerie.
Si scambiano un’occhiata, poi il Soldato guarda di nuovo l’imponente grattacielo e scuote la testa.
Le auto si fermano al margine del marciapiede, davanti all’ingresso della torre con il suo portone di vetro e acciaio, dal quale si intravede un androne di ingresso di marmo scuro.
Stark ha un sorrisetto da bambino che è una cosa inquietante quando si ferma davanti ai suoi ospiti e ne scruta l’espressione. Il Soldato non capisce subito il motivo di quella pantomima, poi vede gli occhi di Steve, Natasha e Barton fissi sulla grande A luminosa in cima alla torre.
«Ha anche il bat-segnale sul tetto?» mormora Barton, sollevando le sopracciglia in un’espressione divertita.
«Il Capitano non l’aveva notata quando è venuto a trovarmi nei giorni scorsi» dice Stark. «Ma ho dato una rimodernata ai piani alti del palazzo. Sono molto selettivo sui miei coinquilini, ma mi era bastato già Lok… Bambi a convincermi che un Helicarrier non è una base affidabile»
«Potrei commuovermi» replica Natasha, sarcastica.
«Immagino dovreste chiamarla… Avengers Tower adesso» osserva Sam.
Stark fa una smorfia. «Ora non esageriamo. Gli operai sudaticci li ho comunque dovuti sopportare io, e poi c’è tutta una questione di percentuali con cui dovete discutere con Pepper».
Barton si avvicina a Stark e gli dà un buffo sul braccio. «Questa cosa farebbe venire l’occhio lucido anche a Fury».
Varcano il grande portone che immette nell’ingresso e si dirigono verso l’ascensore.
Nell’androne c’è un profumo per ambienti leggerissimo e gradevole che tradisce la presenza di una mente femminile dotata di buon gusto.
«È bello essere a casa, signore» trilla la voce robotica del maggiordomo di Stark di cui il Soldato ha già avuto modo di stupirsi. «Agente Romanoff, Agente Barton, Agente Carter, signor Wilson, Capitano Rogers, Sergente Barnes, benvenuti».
Sergente Barnes. Era una vita - letteralmente - che qualcuno non lo chiamava usando i suoi gradi di ufficiale. Non è sicuro che siano ancora validi, ma chi è lui per mettersi a discutere con un maggiordomo invisibile?
«Avrei un grado anche io…» borbotta Sam tra i denti.
L’ascensore è rapido e silenziosissimo mentre li porta in cima alla torre. Le porte automatiche si aprono su un grande attico che sembra sospeso in mezzo al cielo di New York, con una vetrata che offre lo spettacolo straordinario della città vista dall’alto.
Al centro del grande open space c’è un tavolino di vetro contornato da un divano di pelle bianca. Sul divano c’è un uomo con un computer portatile sulle ginocchia. L’uomo si alza quando vede entrare l’improbabile squadra tornata dall’Europa e va loro incontro.
«Non vi aspettavo così presto» dice. «Non ho finito i controlli su Boston per cercare il laboratorio. Comunque, ben tornati»
«Dottor Banner» esclama Natasha, con una nota di calore nella voce. «Davvero vivi qui? Pensavo ti piacessero i posti tranquilli»
«Ed esotici e dove ci vogliono almeno dieci vaccinazioni per viaggiarci» le fa eco Barton, sorridendo all’uomo con l’aria timida e un po’ sciatta di chi non è abituato a stare in mezzo alla gente.
Banner tiene le mani l’una nell’altra e passa tutti loro in rassegna con lo sguardo, uno sguardo in cui il Soldato legge il riflesso di una paura e di un senso di rimorso che sente stranamente uguale al suo. Il dottore ha l’aria di qualcuno che ha deciso di condannare se stesso a un’espiazione continua.
Abitare con Stark deve essere già una penitenza, in qualche modo.
«Vieni Bruce, lascia che ti presenti i nostri nuovi acquisti» dice il padrone di casa.
Sharon è la prima a farsi avanti e a presentarsi. Tende la mano all’uomo e gli sorride. «Ci siamo già incontrati, dottor Banner. Ero nella squadra che venne a prelevarla a Calcutta»
«Oh. Quindi possiamo considerare sorpassata la parte in cui le faccio prendere uno spavento per metterla alla prova».
«E qui abbiamo l’altro pezzo vintage della collezione» aggiunge Stark spingendo avanti il Soldato.
Il dottor Banner lo guarda risparmiandogli ogni tipo di espressione incuriosita o anche solo vagamente turbata, non indugia neppure un secondo a guardare in direzione del suo braccio sinistro. Fa una faccia cordiale e gli tende la mano, come se sapesse come ci si sente ad essere mostri proprio malgrado.
Il Soldato ricambia la stretta di mano e si sente persino un po’ in imbarazzo. Non era pronto a momenti come quello, a quando si sarebbe dovuto rapportare con un’altra persona semplicemente da uomo a uomo.
«Se andiamo avanti di questo passo, Pepper ci convincerà a formare una squadra di football da far giocare nelle partite di beneficenza contro la squadra dei pompieri di Manhattan» dice il dottor Banner, in tono sarcastico.
«Se volete seguirmi al piano di sotto, vi mostro le vostre stanze» dice poi Stark. «Pepper si vanterà del fatto che tutto quanto ci sia di bello è stata una sua idea: lasciamoglielo credere»
«Hai davvero costruito delle stanze appositamente per noi?» domanda Steve. «Non me ne hai parlato, l’ultima volta»
«L’ultima volta che sei stato qui non eri molto ricettivo, Capitano. Ad ogni modo, i tre nuovi acquisti saranno ubicati altrove, non hanno ancora la tessera del club»
«Dove si compilano i moduli per l’adesione?» domanda Sam, e non sembra nemmeno particolarmente scherzoso quando mettono piede nel corridoio sul quale affacciano gli alloggi che Stark ha fatto preparare per i componenti della squadra degli Avengers.
Il Soldato ha ricordi confusi al riguardo, ma l’HYDRA li ha tenuti d’occhio da quando il direttore Fury aveva condiviso con i vertici dello SHIELD l’idea di formare una squadra con persone dotate di abilità peculiari. In quegli ultimi anni ha visto più di una volta le loro foto e i loro fascicoli, anche se non ne ricorda con esattezza i dettagli.
«Però dato che Thor non c’è, la sua stanza è libera» aggiunge Sam, speranzoso.
«Non dormirai qui, Wilson. Fattene una ragione» lo rimbecca Barton. «Così impari a rubarmi il primato di pennuto della squadra»
«Ci sono altre stanze di sotto» Stark armeggia con un pannello di interruttori e delle luci bianchissime illuminano a giorno tutto il piano. Gli alloggi hanno tutti un lato che affaccia sulla grande vetrata del lato nord della torre. «Voi tre potete dormire dove volete, basta che non vi mettiate a litigare su chi deve stare in stanza con Rogers».
«Ci servirà un libretto delle istruzioni per sopravvivere dentro queste stanze?» domanda Steve, affacciandosi sulla soglia degli alloggi destinati a Captain America.
Tony Stark si stringe nelle spalle. «Per qualsiasi cosa, chiedete a Jarvis. E se sentite rumori strani di notte, non vi spaventate, è solo Banner che è nottambulo».
Sharon copre uno sbadiglio con una mano. Il viaggio è stato lungo e stancante e il Soldato non ha idea di che ore siano, ma deve essere molto tardi.
Lui, la ragazza e Sam seguono il padrone di casa al piano di sotto. Il terzultimo livello della torre non è meno lussuoso ed elegante degli altri due che ha visto.
Stark li lascia in un corridoio pieno di porte di vetro sabbiato. Nel rettangolo di parete tra una porta e l’altra ci sono delle stampe antiche - probabilmente originali - che contrastano con l’ambiente arredato in stile moderno e minimalista, creando un effetto molto bello, che qualcuno con il palato fine potrebbe definire di classe o qualcosa del genere.
Uno scampolo di ricordo scivola da quella parte del suo cervello ancora avvolta dall’oblio: Steve era un ottimo disegnatore, aveva sempre in mano carta e matita quando non era impegnato a fare altro o quando il mondo diventava troppo per lui.
Il Soldato si stupisce di come mai non gli sia venuto in mente prima.
Forse è solo il magnetismo esercitato da quel posto, un luogo vicino a dove è nato e cresciuto, dove riesce a pensare a Bucky Barnes senza avvertire la voragine che lo separa da lui.
«Poteva prestarmela la stanza di Thor» dice Sam, indugiando sulla soglia di una delle tante camere da letto.
«Non prendertela» Sharon gli strizza l’occhio. «Domani mattina puoi offrirti volontario per portare la colazione a letto ai ragazzi di sopra e visitare il covo degli Avengers»
«Sì, sarà il mio primo pensiero quando mi sveglierò, se mi sveglierò. Non so voi, ma io sono distrutto».
Il Soldato realizza di non essere davvero stanco. È ancora indolenzito per i colpi ricevuti nella brutta avventura del giorno prima - o forse erano due giorni prima - ma si sta riprendendo in fretta. Sente ancora sotto pelle il senso di euforia che lo aveva colto dopo l’atterraggio.
Sam mormora un augurio di buona notte e sparisce dietro una delle porte, sbadigliando. Nel corridoio restano solo lui e Sharon, e anche la ragazza ha il viso stanco e gli occhi leggermente velati.
«Non litigherò con te per chi deve dividere la stanza con Steve» le dice il Soldato, trovando lo spirito di accennare un sorriso.
«Buono a sapersi, perché probabilmente non ne sarei uscita viva»
«Il mio voleva essere un suggerimento».
Contro ogni previsione, Sharon Carter dimostra di essere il tipo di ragazza ancora capace di arrossire, sotto la scorza dura di agente speciale dello SHIELD.
«Un suggerimento che sarei lieta di seguire. Ma non sono certa che la circostanza sia quella giusta» ammette, con un sorriso che appare quasi intimidito.
«Stiamo parlando di Steve Rogers, non c’è una circostanza giusta»
«Sembriamo due liceali, non trovi?»
«Mi piace di più pensarmi come un vecchio saggio che dispensa consigli. Del resto, l’età è quella».
Sharon si lascia scappare una risatina, poi lo guarda con una gratitudine insperata e inattesa e anche se il cuore del Soldato non registra alcuna variazione, Bucky Barnes sente mancare un battito.
«Aspetterò una sera in cui mi sento meno stanca e più coraggiosa» conclude la ragazza, senza smettere di sorridergli.
Lui annuisce. «Non aspettare troppo», le dice prima che lei gli auguri la buona notte.
Il Soldato guarda Sharon richiudersi la porta di vetro alle spalle, poi sceglie anche lui una stanza.
La camera è ampia e quadrata con un letto enorme sistemato su un soppalco di legno chiaro, uguale a quello dei mobili eleganti che compongono l’arredamento.
Vediamo se ho capito come funziona
«Jarvis?» dice, parlando al vuoto davanti a sé.
La voce dell’intelligenza artificiale gli risponde solerte. «Sì, sergente Barnes».
Gli fa impressione sentirsi chiamare a quel modo. L’ultimo ricordo che ha di qualcuno che lo aveva chiamato così risale a quando si era risvegliato nel laboratorio dell’HYDRA dopo la caduta dal treno, con il volto dello scienziato tedesco chino su di lui a sorridergli lezioso.
Cerca di non pensarci.
«Hai della musica?»
«Immagino lei intenda se posso riprodurre della musica. In questo caso la risposta è sì. Cosa gradisce ascoltare?».
Non gli è difficile immaginare che Jarvis possa attingere in qualche modo da un repertorio infinito.
Se non fosse solo in quella stanza direbbe qualcosa che si possa ballare. Gli piaceva ballare, è un altro ricordo che compare tra i suoi pensieri senza un motivo preciso.
«Qualcosa al pianoforte. Stupiscimi»
«Molto bene, signore». 
La musica che comincia a suonare sembra riempire l’aria.
Con suo grande stupore, il Soldato la riconosce e dopo qualche secondo gli viene in mente il nome del compositore. Erik Satie, un pianista francese morto negli anni Venti.
Con le note del pianoforte che vibrano attorno a lui, provenienti da casse che non riesce a individuare a vista, il Soldato va in bagno e apre l’acqua calda nella doccia, aspetta che il vapore salga ad appannare lo specchio e comincia a sfilarsi i vestiti, sentendo a ogni movimento troppo brusco i punti che gli ha applicato Natasha tirare e i muscoli mandare nuove fitte di dolore.
Il getto bollente dell’acqua gli arrossa la pelle.
Ci sono residui di gelo dentro di lui, a volte gli piace illudersi di poterli mandare via.
Quando esce dal bagno e torna nella camera da letto, sente il rumore forte della pioggia al di sopra delle note del pianoforte. Si avvicina alla vetrata e scosta la tenda per osservare una piccola tempesta abbattersi su New York. Da quell’altezza è uno spettacolo ancora più bello.
Resta a guardare la città spazzata dalla pioggia e dal vento per qualche minuto prima di decidersi a coricarsi.
Si infila sotto le coperte lisce e profumate di pulito, sentendosi al sicuro per la prima volta da giorni.
«Devo interrompere la musica, signore?» domanda Jarvis quando lui spegne la luce.
«No. Lasciala».
Si addormenta senza accorgersene, con la mente ancora impegnata a seguire le note di pianoforte e il ritmo dolce della musica.
Non ci sono sogni ad attenderlo dietro le palpebre chiuse, e nemmeno incubi. C’è il nero di un oblio confortante e il suono della pioggia.
Non si accorge che la tempesta si è fatta più violenta, ma è il suono forte di un tuono a svegliarlo di colpo e una sensazione conosciuta che non riesce subito a richiamare alla mente: l’impressione di una presenza che i suoi sensi allenati fiutano di istinto, il rumore vago della porta che viene aperta e poi richiusa.
Apre gli occhi e la vede come un fantasma, nell’attimo di luce di un lampo.
«Cos… Natasha?».
La donna non dice niente, resta in mezzo alla stanza a guardarlo, un’ombra in mezzo al buio.
«Che ci fai qui?» insiste lui.
«Dovevo sapere»
«Di cosa stai parlando?».
Il gelo turbina un istante nei suoi pensieri, ricordo di un inverno che ha deciso di tenersi dentro perché non possa fare altro male.
Vede Natasha avvicinarsi, non sente i passi sul pavimento e quasi è disposto a credere che sia un sogno.
Più che vederla, l’avverte. Poi sente il materasso smuoversi appena quando lei si appoggia al letto e sente il suo profumo di sapone e capelli ancora umidi per un bagno appena fatto.
Sente il respiro di lei vicinissimo.
Non lo fare, ti prego. Lascia linverno lì dove deve rimanere.
Lo pensa, ma non riesce a dirlo, né a fare niente per opporsi. Quando le labbra di Natasha si posano sulle sue il freddo dell’inverno e il calore che gli si accende dentro diventano dolore per un istante rapidissimo, prima che il raziocinio ceda al ricordo che sale a galla sulla sua pelle e non gli lascia via di uscita né alcuna possibilità di resistere.
La bacia prendendole il viso tra le mani, con la stessa disperata veemenza dei baci clandestini di un amore affogato nella neve una vita fa.
«Chi sei?» mormora Natasha sulle sue labbra. «Da quando siamo stati in quel palazzo a Glasgow, è come se…».
Non lo sa dire. Non c’è una parola per descrivere quella sensazione di sogni a occhi aperti che la mente si rifiuta di chiamare ricordi. Forse il palazzo di Glasgow era troppo simile al luogo in cui è stata addestrata, forse è la foga di quella lotta disperata contro nemici sempre più sfuggenti.
Vorrebbe dirle di non pensarci, che è passato così tanto tempo e che nessuno di loro è la stessa persona che era allora. Ma i cuori hanno un modo tutto loro per conservare la memoria, come la pelle e i muscoli che ricordano ancora prima che lo faccia la mente.
Forse è per questo che Natasha è lì, ora.
«James» mormora il suo nome come se stesse guardando il suo viso in una fotografia e lo avesse riconosciuto in mezzo a tanti visi sfocati.
E la logica si sfalda, e ogni cosa perde di importanza.
La spinge di schiena sul materasso, più brusco di quanto avrebbe voluto.
Le mani si muovono alla cieca, scostano la stoffa dei vestiti quel tanto che basta. I ricordi scandiscono il ritmo di un’impazienza che lui sente bruciare in fondo allo stomaco, tanto da chiedersi come abbia fatto a non rendersene conto fino a quel momento.
Quando Natasha gli circonda i fianchi con le gambe e spinge il bacino verso di lui, il Soldato non ricorda più da che parte soffi l’inverno.
 

 
 


 
Note
Nella mia testa, a Bucky è rimasta una brutta cicatrice sulla schiena dovuta alla caduta dal treno.
Natualmente, che Sharon fosse nella squadra che era andata a recuperare Bruce a Calcutta è un’idea tutta mia.
Erik Satie. Se non lo avete mai ascoltato, fatelo!
Citazione iniziale dal brano “No light, no light” dei Florence + The Machine
 
La prossima settimana temo salterà l’aggiornamento, causa ultimo esame-eccessivamente-tosto di questa infernale sessione estiva. Mi scuso con tutti voi che leggete, odio essere in ritardo, ma odio ancora di più postare capitoli non scritti con la dovuta cura.
Ci aggiorniamo venerdì primo agosto. 
   
 
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