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Autore: Piebavarde    11/07/2014    5 recensioni
Francesca Molinari è una ragazza con la testa sulle spalle, una dose incredibile d'orgoglio e iattanza e la nomina di rappresentante di classe della IV C. Snob, selettiva, nevrastenica e acida come un limone, Francesca ha sempre mostrato alla gente una maschera di superbia e indifferenza.
La sua saccenteria verrà però contrastata dal nuovo professore di letteratura italiana: Marco Fanti.
Marco è quel che il mondo definisce lo "scapolo d'oro": amato dalle sue alunne e invidiato dai suo colleghi, il professore sembra esser la saggezza fatta uomo. La mente tra i libri e le riviste d'auto sportive, e le parti bassi sempre tra le gambe di qualche donna; questo è il tipo d'uomo rappresentato dal professore tanto ambito tra le lenzuola, che tenterà di frenare la spocchia della sua alunna sognatrice.
Se i principi della fisica iniziassero ad intervenire sulla vita di questi due individui?
Se Newton avesse avuto ragione?
Cosa accadrebbe se una forza F agisse inconsapevolmente su una massa M, provocando un'accelerazione A?
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo III
Le moment de la lune
“Testa di canfora”
 
 
 
Il professor Fanti entrò nell’aula della IV C indossando un maglioncino obbrobrioso con le renne e dei pantaloni di cotone da mercatino delle pulci.
 
Il degrado, in pochissime parole.
 
Francesca strabuzzò gli occhi.
 
E quello cos’era?
 
Dov’era finito l’affascinante professore da copertina di GQ?
 
Quello sembrava il figlio di una badante rumena che si vestiva a luci spente.
 
Tentata, Francesca cercò di puntare il suo sguardo su Rita Neri, curiosa della sua reazione da infarto, ma gli occhi decisi del professore lo osservavano con una tale insistenza che la ragazza non riuscì proprio a non fissarlo.
 
E ora che voleva?
 
Lo sguardo verdognolo del docente racchiudeva in sé un grande punto interrogativo, come se stesse cercando appoggio nella figura della Molinari.
 
-Prof, si sente bene?-, domandò la Neri, attirando l’attenzione di Marco Fanti.
 
Evidentemente la smorfiosetta faceva riferimento al troppo poco buon gusto che aveva indirizzato Marco Fanti quella mattina nella ricerca di un degno look da lavoro.
 
Che non trovò.
 
-Sto benissimo, Rita!-, esclamò entusiasta l’insegnante, afferrando il libro di testo dalla ventiquattrore.
 
Osservando sempre di sottecchi Francesca, il prof Fanti si accomodò sulla cattedra con l’aria più persa del pianeta.
 
Si massaggiò il capo, facendo ondeggiare i capelli chiari e morbidi, provocando contemporaneamente i bollori delle ragazzine presenti in classe; poi sfogliò assente le pagine del libro, come se in realtà non stesse leggendo quel che aveva davanti.
 
Nonostante quel maglione da nonno di Heidi, quel dannato d’un Marco Fanti risultava comunque un gran figo da paura.
 
Matilde aveva segretamente confidato alla sua migliore amica che il professore, con quell’aria corrucciata all’Alain Delon, era l’individuo, a suo parere, più scopabile della penisola. Francesca aveva semplicemente mandato a cagare la sua amica, definendola “di facili costumi”, perché secondo lei uno come il prof Fanti era da denunciare alla questura, altro che Alain Delon!
 
Quella mattina era poi da ergastolo.
Da denuncia immediata!
Perché cappero continuava a fissarla?
Brutto broccolo pervertito!
 
Prima che il professore prendesse parola, proprio quando quest’ultimo posò per l’ennesima volta i suoi occhi sul viso perennemente corrucciato della Molinari, a Francesca arrivò una fitta allo stomaco.
 
No, non perché anche lei venne colpita dal dardo d’ormoni.
 
Aveva altro.
 
Le iniziò a tamburellare la testa; ma poiché si trattava di un fattore abbastanza solito nella sua vita, inizialmente non ci fece molto caso.
 
Poi Francesca comprese cos’era quell’altro quando arrivarono raffiche di fitte allo stomaco.
 
D’improvviso, quasi ravvedutosi da quel che poteva parere malumore, il prof iniziò a spiegare.
 
Moliere.
 
C’era qualcosa di meno infelice di Moliere nel loro programma?
 
No, sicuramente: la spiegazione piacque e interessò a tutti.
 
Tutti tranne la Molinari.
 
Che gran bel paio di due balle, questa rappresentante.
 
Punto primo: Francesca Molinari proprio non sopportava quell’uomo. Non voleva ascoltarlo, né dargli il merito che stesse seguendo la sua spocchiosa lezione.
 
Punto secondo: quelle renne erano psichedeliche e attiravano la sua attenzione più di quanto potessero fare le sue parole.
 
Punto terzo: il professore pareva una pala eolica mentre spiegava, e Francesca si distraeva.
 
Marco Fanti era infatti un gesticolatore nato.
 
Manco fosse nato muto e con gli anni si fosse esercitato a comunicare con il linguaggio del corpo.
 
Francesca l’avrebbe ben visto in una televendita mentre cercava di indurre lo spettatore ad acquistare un set di pentole in acciaio inox. O in un telegiornale per sordomuti.
 
Mentre teneva la lezione su Moliere, accompagnava le sue parole con teatrali gesti delle mani. Le portava da un lato all’altro con frenesia e trasporto.
 
Come se ciò non bastasse, parlava con una velocità tale che Francesca si domandava soltanto dove e come si spegnesse quel minchione di professore.
 
Aveva un pulsantino, situato quasi con certezza dietro la nuca.
 
Bisognava solo addentrarsi con le dita tra i suoi capelli, trovarlo e premerlo.
 
Poi quel cicaleccio avrebbe avuto fine.
 
Ma un pulsantino, in realtà, non esisteva.
 
Ovviamente.
 
E quell’uomo continuava a parlare, parlare, parlare.
 
Francesca lo guardava aggrottando la fronte, con il mento posato su una mano ed un’adorabile e indelebile espressione corrucciata.
 
-Che nervi-, si fece sfuggire in un sussurro.
 
Arricciò il naso indispettita.
 
-Non ho proprio voglia di ascoltarlo!-, grugnì ancora, estremamente addolorata.
 
Matilde, che inizialmente interpretò i lamenti dell’amica come velati rimproveri indirizzati al professore per la sua negligenza, intuì che la sua saccente compagna di banco stava davvero male.
 
Psicologicamente male. Il che era un pericolo per l’intera umanità.
 
Per calmare i suoi malori da ospedale psichiatrico, infatti, i fantastici quattro, Batman, Spiderman e supereroi vari non sarebbero bastati.
 
Matilde portò la sua mano gelida sulla fronte di Francesca, mentre le parole del prof inondavano imperterrite la stanza.
 
Il broccolo non si era accorto di nulla.
 
O forse sì, e pensava si trattasse solo di uno stupido teatrino.
 
Quando la ragazza incontrò la pelle di Francesca, comprese: la saccentona non aveva né febbre, né raffreddore. Peggio: era nel suo “moment de la lune”.
 
Allarme. A tutte le unità: la Molinari aveva il ciclo.
 
Fantastico.
 
-Se non ti senti bene, chiama i tuoi-, sussurrò Matilde, osservando la sua amica negli occhi.
 
-Sto bene-, disse Francesca con tono sicuro, per tranquillizzare più se stessa che la sua amica. –E poi mio padre ha detto che Paolo Fox questa mattina mi ha dato cinque stelle: figurati se mi viene a prendere proprio oggi, che dovrebbe essere la mia giornata super!
 
Matilde sorrise amaramente, ma con gli occhi divertiti.
 
Adorava il padre di Francesca, le era simpaticissimo.
 
Il signor Molinari era un bizzarro maniaco dell’oroscopo ed ogni mattina intratteneva il suo dolce parentado informandolo sulla posizione degli astri.
 
Se Francesca beccava due stelle, poteva anche restare a casa a poltrire. Soprattutto se avesse detto a suo padre che quella mattina l’attendeva un’interrogazione di biologia.
 
-Fila a letto, te la firmo io la giustifica domani.
 
Le avrebbe potuto rispondere, con il tono più serio al mondo.
 
Sì, Matilde adorava proprio quell’uomo.
 
-Prestami tuo padre, ogni tanto-, sussurrò l’amica bionda, accucciandosi al suo fianco, per massaggiarle un braccio.
 
-Magari oggi. Se fosse stato un po’ più normale, non avrei esitato a chiamarlo!-, rispose prontamente Francesca, scacciando Matilde dal suo banco.
 
-Ma davvero non ti verrebbe a prendere?- sussurrò incredula, -e poi perché mi stai allontanando, bastarda? Sto cercando di calmarti!
 
-Certo che verrebbe, scemina. Ma non voglio disturbare nessuno: Nicolò ha una partita di calcio con gli osservatori questa mattina e papà è sicuramente andato a tifare per il suo figliuolo prediletto. Al leone hanno appioppato quattro stelle: è lì con la trombetta da stadio a starnazzare a gran voce qualche coro, sicuro dell’ingaggio di suo figlio, nato il 16 agosto.
 
Matilde ridacchiò, ritentando il contatto con l’amica e accucciandosi sul braccio di lei.
 
-E per la cronaca-, riprese Francesca scostando con forza il corpo di Matilde che ricadeva come un peso morto sul suo,-ti scaccio perché più mi stai appiccicata, più i miei nervi ballano la samba! Sai che ti voglio bene, ma non punzecchiarmi durante il ciclo.
 
-Molinari, smettila: sono dieci minuti buoni che continui a parlare!
 
L’immancabile rimprovero di Marco Fanti arrivò d’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, perché per un attimo Francesca aveva addirittura dimenticato di essere lì, in quell’aula, a scuola, e di star male per “le sue cose” e per il ronzio provocato dalla pseudo spiegazione dell’insegnante.
 
Non bofonchiò neanche il consueto “mi scusi” e si limitò ad abbassare lo sguardo.
 
-Volevo solo calmarti un po’, nervosona!-, le confidò Matilde riprendendo il discorso appena il professore si dedicò ancora al suo monologo interminabile.
 
Francesca sorrise optando per il silenzio.
 
Riportò i suoi occhi sul professore e si sforzò di prestargli ascolto.
 
Senza riuscirvi.
 
La sua attenzione venne catturata da un orecchino di semplice fattura, rotondo, che circondava l’orecchio del professor Fanti e che lei notò soltanto quel giorno.
 
Tintinnava, aggrappato all’orecchio del prof, con agitata forza, come se stesse per staccarsi da un momento all’altro.
 
Quell’orecchino doveva patire le pene dell’inferno.
 
Stare appiccicato all’orecchio di un testone come quello di Marco Fanti doveva essere una tortura.
 
Soprattutto se il suddetto Fanti non faceva che muoverla e muoverla quella testa di ca…canfora, quando parlava.
 
E quelle labbra.
 
Quelle labbra non stavano ferme e zitte neanche per un secondo.
 
Andavano su e giù.
 
Su e giù.
 
Un moto costante e irritante.
 
-Molinari, ti sei imbambolata?-. domandò indignato il professore, scatenando il riso di tutti i presenti.
 
Maledetto broccolo!
 
Compativa l’orecchino.
 
Perché il prof era proprio un’odiosa testa di canfora!
 
 
 
 
 
No, proprio no.
 
No, no, no e ancora no.
 
Nonnoissimo!
 
Lei non poteva stare chiusa in un’aula deserta con quella testa di canfora e quelle renne psichedeliche a scrivere un copione per uno spettacolo che neanche le piaceva.
 
E poi era in quel periodo lì.
 
Non le si poteva chiedere una cosa del genere!
 
Un abominio!
Gli avrebbe certamente staccato la testa a morsi, se lui l’avesse provocata.
 
Francesca marciava a passo lento lungo il corridoio della scuola restando alla sinistra del professore e a sua debita distanza.
 
Il prof svoltò a destra repentinamente e si accomodò nell’aula bidelli.
 
L’aula bidelli.
 
Che a chiamarla “aula”, Papa Francesco avrebbe dovuto farti santo.
 
Quello era uno stanzino delle scope. Un bugigattolo. Una tana per topi.
 
-Questa è l’unica libera-, spiegò il professore interpretando il ghigno infastidito dell’alunna.
 
Francesca sospirò pacatamente e avanzò verso il tavolino e prese posto su di una delle due sedie.
 
-Queste sedie stanno per lasciarci, ma dobbiamo accontentarci-, disse sorridendo il prof, accendendo la luce e posizionando tutto l’occorrente sul tavolo.
 
Lei rispose con un finto sorriso di circostanza.
 
Perché non era cristiana fino al midollo, lei? Perché?
 
Perché in quel momento non poteva seguire la lezione di religione?
 
Gesù era un così interessante personaggio. Simpatico al punto giusto. Moltiplicava anche il pane!
 
-Allora…-, il professore fissò l’elenco dei ragazzi, poi il libro, infine Francesca:-Molinari, ti dispiace chiudere la porta?
 
Tanto con quel maglione non era neanche lontanamente desiderabile: non c’era alcuna speranza che Francesca potesse sentirsi a disagio con lui in quella stanza.
 
Si alzò e con lentezza chiuse la porta.
 
-Ti confesso che mi risulta un po’ difficile, perché non mi piace molto come storia.
 
-Come mai?-, domandò lei riaccomodandosi sulla sedia. 
 
Il professore fece spallucce e aprì il libro:-Che ne dici di ridurre la prima parte fino al loro incontro? Penso che alla gente interessi la loro storia d’amore.
 
Francesca annuì, completamente d’accordo.
 
-Posso chiederti una cosa, Molinari?-, domandò lui, levando per un attimo lo sguardo dal libro.
 
Francesca, che fino ad allora non aveva fatto altro che osservare le renne psichedeliche, lo osservò come ridestatasi:-Mi dica.
 
-Quale opera avresti scelto?
 
-Macbeth-, rispose senza pensarci due volte, accompagnando la risposta con un sorriso sulle labbra, fin troppo lusingata dall’interessamento.
 
-Perché?-, il professore strabuzzò gli occhi sorridendo:-Perché avresti voluto rappresentare la tragedia dell’ambizione?
 
Era il suo momento.
Quello che tanto agognava.
Doveva farcela.
Doveva dimostrare al professore di non essere una semplice civetta saccente.
 
No, lei era ben altro.
 
Poteva e sapeva essere critica al punto giusto.
I suoi saggi erano una squisitezza per ogni lettore.
Sapeva destreggiarsi tra citazioni varie, mescolarle nel suo calderone di idee e sfornarne un ottimo pasto per la mente.
 
Lei era Francesca Molinari, rappresentante dei comites della IV C.
E poteva farcela.
Sì, poteva convincere quell’uomo del suo ingegno, della sua maturità e della sua cultura.
 
Lo osservò con occhi da volpe, sorridendogli, ma in realtà sfidando quell’uomo che l’aveva soltanto, fino a quel momento, screditata.
 
-Mi piacciono i personaggi: sono molto umani. Vengo corrosi dalle loro debolezze, dalle loro passioni. È un po’ di questo che parla la tragedia, no? Passioni. Non le compiango, né le biasimo, le passioni: le capisco, poiché anch’esse sono aspetti umani.
 
-Spinoza!-, esclamò orgoglioso il professore, captando la poi non tanto velata citazione;-Molinari, sei una continua sorpresa! Peccato per quella spocchia sovrana-, queste ultime parole, l’insegnante si guardò bene dal sussurrarle tra i denti, poiché non aveva intenzione di offendere la sua alunna.
 
Tuttavia Francesca le udì e ne sorrise, coscia della sua passione e pronta a comprenderla.
Ma più che altro soddisfatta di aver vinto la sfida che aveva propinato a se stessa.
 
-Macbeth, però, non ha usato l’intelletto per placare le sue passioni-, aggiunse il prof Fanti, riferendosi anch’egli al filosofo olandese.
 
-No, non di certo. L’elemento sovrannaturale lo impedisce. Le tre streghe vengono poste in netto contrasto con la forza dell’intelletto. O mi sbaglio?
 
Il professore si passò la lingua sulle labbra e sorrise, mostrando i bei denti bianchi.
 
Renna o non renna, quella testa di canfora restava un gran bel pezzo di manzo.
 
E non poteva guardarla con tutta quell’ammirazione.
 
Non quando Francesca si trovava nel suo moment de la lune e non poteva rispondere completamente delle sue azioni.
 
Una flebo.
Necessitava di una flebo.
 
-Tu tendi a cercare conferma nel tuo interlocutore ogni volta che esprimi il benché minimo parere; ciò mi fa comprendere che non credi poi tanto in te stessa. Sei completamente sicura soltanto quando citi un autore, in questo caso Spinoza.  
 
Francesca guardò altrove.
 
Cos’era? Una seduta dallo psicologo?
 
Be’, a lei non serviva. Avrebbe dovuto mettere via il suo taccuino: dovevano scrivere un copione!
 
E poi dov’era la sua vincita?
Non aveva vinto, lei?

Lui voleva scrivere un volumetto dal titolo La coscienza di Francesca?
Non gli bastava leggere il capolavoro di Svevo? No? Voleva contribuire anche lui a quel genere di romanzo? 

Francesca si sentì ancora più male, poiché sconfitta per la seconda o terza volta: non riusciva neanche più a tenerne il conto. 

Si sentì una stupida, e in pochi istanti tentò di elaborare una scusa abbastanza plausibile alla sua incertezza.
 
-Proprio perché si tratta della mia opinione, non posso essere certa della sua veridicità.
 
Il professore sghignazzò, sospirò e la osservò per un bel pezzo.
Poggiò il suo mento sulla mano grande e forte e studiò quel peperino dagli occhi così belli e così scuri che gli sostava di fronte.
 
Francesca, indignata, spaesata e completamente in imbarazzo cercò di concentrare la sua attenzione sulle riviste di caccia che il bidello teneva lì appositamente per i momenti di noia.
 
-Rita Neri se l’è presa?-, domandò il professore cambiando argomento.
 
Deo gratias!
 
Lei gliene fu grata, tuttavia non riuscì a riottenere la calma che aveva accumulato nel precedente frangente di tempo.
 
Fece mente locale: Rita Neri non aveva ottenuto la parte di Giulietta, che invece spettò a Gaia Fallani.
 
Se la prese?
 
Nah.
 
Scaraventò per terra un banco. Lanciò contro il muro un borsellino. E minacciò di morte la Fallani.
 
No, in sostanza non se la prese per niente.
 
-Un po’. Soltanto un pochino-, mentì Francesca assottigliando gli occhi, tentando ovvero di comprendere se il prof potesse captare la bugia o meno.
 
-A Gaia serve quella parte. Un po’ di dizione le farebbe più che bene: penso abbia problemi con l’italiano.
 
-Problemi è un eufemismo-, si fece scappare Francesca, che subito dopo si tappò la bocca con una mano.
 
Il prof ridacchiò un po’ e poi mosse la testa, contrariato:-Molinari, insomma, sii rispettosa.
 
-Mi scusi.
 
-Se ti avessi incontrata in altri frangenti, saresti stata una mia acerrima nemica-, questa volta fu lui a farsi sfuggire qualcosa.
 
-Mi scusi?-, bofonchiò lei, spaesata.
 
-Niente, Molinari. Dico solo che sei un tipetto abbastanza difficile.
 
Lei? Un tipetto?
 
Lei era una sua alunna, non un cavolo di tipetto!
 
Non rispose alla provocazione e riportò lo sguardo sulle renne psichedeliche, il che era meglio.
 
-Oh, a proposito-, fece lui indicando le renne,-mi sono vestito così oggi per…come dire? Annientare ogni possibile commento a sfondo sessuale sul sottoscritto. È la prima volta che insegno, Molinari, e non vorrei che mi andasse male per un bel faccino.
 
Lei gli sorrise, nonostante il professore avesse peccato di vanità.
 
Dopotutto aveva ragione: quelle oche giulive non potevano, né dovevano intralciargli la carriera.
 
-Per questo ti osservavo questa mattina-, disse il prof Fanti, rivelandole l’arcano,-stavo aspettando la tua approvazione. Sei o non sei stata tu a consigliarmi con quella vocina bisbetica e irritante di cambiare il guardaroba?
 
-Io non le ho parlato di vestiti-, Francesca gli rispose con il tono più offeso che conosceva.
Stava forse superando il limite.
 
-No. Ma si tratta di risultare meno piacente. Fa molto piacere; è ovvio che io non è che disdegni, Molinari, sono pur sempre un uomo abbastanza vanitoso. Fa tanto piacere, ma c'è anche imbarazzo, riservatezza. Senza tralasciare la professionalità.

Francesca lo osservò.
Che i commenti arditi gli provocassero piacere, lei l'aveva ben intuito dai suoi sorrisi melliflui. 
Che fosse vanitoso, l'aveva afferrato dal suo abbigliamento non molto consono ad un insegnante e dalle arie baldanzose che si dava ogni volta che entrava in classe, quando portava una mano tra i capelli; e tale normale movimento aveva poi dato vita ad un singolare ghiribizzo di civettare tra le sue compagne di classe.
 
Però che fosse riservato questo no, proprio no.
Marco Fanti le pareva tutto, davvero tutto. Ma riservato, questo mai. 

E comunque se fosse stato riservato e vanitoso allo stesso tempo, quell'uomo sarebbe stato la reincarnazione dell'incoerenza. 

Era un po' come se le avesse detto che lui era magro ma anche grasso.
O che era alto e basso. 
Etero ed omosessuale.

A lei le parve soltanto scemo e più scemo.
Ergo, una grandissima testa di canfora.
 
Neanche il fatto che si potesse concedere a Gigi D’Alessio di cantare pubblicamente, l’amareggiò così tanto.
 
Cioè, una testa di canfora le insegnava letteratura italiana.
Una delle sue materie preferite!
Come avrebbe potuto sopportare una tale situazione? Si trattava di pura blasfemia! 

Francesca sogghignò, non sapendo cosa fare.
Tra il ridere e il piangere, optò per un risolino nervoso e dal tono basso.
 
Il professore interpretò male il suo gesto, e subito ci tenne ad aggiungere: -Comunque non metterò mai più queste renne: studentesse invaghite o no, andrebbero abolite in centoquaranta paesi del mondo. Robe del genere sono accettabili solo in Cina o Giappone.
 
-Io le trovo simpatiche-, disse lei alzando le spalle e guardandolo di sottecchi.
  
-Cosa?- domandò lui non capendo.
 
-Le renne, dico, non sono così male. Sono abbastanza simpatiche.
 
-Sono tremende: le ho scelte proprio per questo!-, esclamò esterrefatto il professore, alquanto disgustato.
 
Poi, aggiunse in un sussurro:-Che strani gusti, Molinari…
 
 
 
 
 
 
 
La pioggia batteva violenta sui fragili vetri della camera intanto che Francesca portava l’indice su di un verso oraziano. Sfogliò mogia il vocabolario, completamente assente, mentre il termine che cercava si ostinava a non venir fuori. In realtà aveva erroneamente saltato la pagina che stava cercando.
 
Demitto auricola, ut uniquae mentis asellus/cum gravius dorso subiit onus.
 
Quella frase lì, a dir la verità, l’aveva compresa a primo acchito; si ostinava semplicemente a non tradurla, come un asellus, per l’appunto.
 
A lei quell’asinello piaceva davvero tanto; questo semplicemente perché l’animale si era arreso al “gravius onus” e lei vedeva, in quella che poteva sembrare una sconfitta, un sacro atto di umiltà.
 
Stimava l’umiltà, tuttavia non risiedeva nel condominio dei suoi pregi. Purtroppo.
 
-Mi piacerebbe lasciarla così-, sussurrò al Campagnini nella penombra della stanza, dando suono ai suoi più reconditi pensieri.
 
Tradusse un’altra manciata di frasi, ma dopo un po’ si annoiò e abbandonò la satira oraziana alla polvere.
 
Si stese sul letto e accese la TV. Davano uno di quei film in bianco e nero, come piacevano a lei.
 
Appena vide il volto di Luigi Tenco, il mondo si fermò: lei lo adorava.
 
Fu così che Francesca Molinari passò il suo pomeriggio guardando un vecchio film, finché il campanello di casa non trillò.
 
-Fra, scendi: è Caterina!-, urlò sua madre dal pianoterra.
 
O no.
 
Caterina, detta da Matilde “Lady Oscar”, per la sua indomabile chioma biondo cenere, era una sua amica di vecchia data, che Francesca conobbe alle scuole medie. Era stata bocciata in seconda media, e questo dice di lei molte cose, e divenne compagna di banco della Molinari perché vi era una (unica) cosa che le accumunava:l’odio immane per le bimbeminkia della loro classe, che si baciavano sulle labbra e che scattavano foto con l’allora famosissimo “musetto a paperella”.
 
Caterina era la più pervertita delle pervertite. Una di quelle che durante una serata non faceva altro che alludere a doppi sensi che riusciva a trovare anche se si stesse parlando del tempo o della suola delle scarpe.
 
Quella ragazzetta era perennemente in calore.
 
Francesca scese di malavoglia dal letto, scese di malavoglia la rampa di scale e con un sorrisone falsissimo, che si impresse sempre di malavoglia sulle labbra, si affacciò alla porta.
 
-Se non ti schiodo io da quel letto, chi lo fa? Dai muoviti, che ti porto a una festa.
 
La odiò con tutto il suo cuore e con tutto l’arsenale di sangue che aveva tra le gambe.
 
 
 
 
 
Tra le piaghe d’Egitto, vi era quella in cui Mosè trasformò il fiume Nilo in un fiume di sangue.
 
Evidentemente Mosè sbagliò recapito per la piaga, perché al mondo c’era un solo e unico fiume di sangue: quello che apparteneva a Francesca Molinari.
 
Francesca Molinari, in discoteca, con un vestitino striminzito, i tacchi alti e tanta voglia di morire.
 
Eppure a quella scassa maroni di Caterina non riusciva a dir di no: si sarebbe messa a rinfacciarle un sacco di pseudo favori e cose varie.
 
Meglio quel delirio e non l’enumerazione stile elenco della spesa di Caterina.
 
Perché tanto alla fine l’avrebbe seguita comunque per asfissia.
 
E poi nel locale poteva bere. Bere un sacco di cocktail e dimenticarsi di avere al fianco una specie di promettente Cicciolina che le parlava delle sue nuove conquiste.
 
Gli uomini di Caterina erano più o meno sempre gli stessi, dello stesso stampo: agricoltori cozzali che passavano il lunedì a farsi le lampade, il martedì a farsi la ceretta, il mercoledì a depilarsi le palle –sì, le palle-, il giovedì a trincare birra e a far la gara dei rutti, il venerdì ad appostarsi davanti al camion delle braciole o della porchetta e il sabato e la domenica nei locali e poi tra le gambe delle varie Caterina, ossia le uniche che se li filavano.
 
Quand’era con Caterina, Francesca si sentiva catapultata nello show televisivo “Il mio grosso grasso matrimonio gipsy”.
 
Lei, che era tanto da prima alla Scala di Milano.
 
E poi Francesca aveva gusti enormemente diversi.
 
Miliardi di peli in più. Miliardi di neuroni in più. E almeno una laurea in più.
 
Tutto qui.
 
Chiedeva poco, la ragazza.
 
Standard molto bassi; sì, sì.
 
Quella sera Caterina ne aveva abbordato uno senza un canino e con uno spiccato amore per le ruspe.
 
-Allora, Francesca, come hai detto che si chiama il medico del cazzo?-, domandò il cugino scemo del conte Dracula, senza la benché minima finezza.
 
-Urologo-, rispose lei spazientita. Era la terza volta che lo ripeteva.
 
-Urologo!- ripeté lui, per poi ridere fragorosamente con Caterina.
 
Poracci. Si divertivano con poco.
 
Mentre l’uomo senza canino continuava a ridere, Caterina si avvicinò quatta, quatta a Francesca per riferirle nell’orecchio:-Questa sera ci sarà Giulio Bolognesi. Lo voglio far crepare di gelosia, perché me lo voglio troppo fare.
 
Francesca ridacchiò, augurò buona fortuna all’amica e si alzò per andare un attimo in bagno per cambiare…be’, si è capito a fare cosa.
 
Quando ritornò, l’uomo senza canino era sparito per magia. Al suo posto c’era proprio il tanto agognato Giulio Bolognesi, con i suoi capelli cerati e quei piccoli e aguzzi occhi azzurri, e al suo fianco, il suo migliore amico: Cristiano Mori.
 
Francesca voleva scappare, fuggire, venir sotterrata in quel preciso istante; sfortunatamente Caterina la chiamò con lo sguardo e le fece cenno di avvicinarsi in fretta.
 
Inerme, poiché era Caterina ad avere l’auto, Francesca ubbidì come un cagnolino ammaestrato.
 
Mai più.
Mai più con questa sboccatona!
 
-Sera!- salutò Francesca, tentando di inserirsi nel gruppo.
 
Il primo a voltarsi fu Cristiano e Francesca intuì all’istante il perché.
 
Caterina, per svignarsela con Giulio, allettò Cristiano promettendogli una sua bella amica che avrebbe potuto tenergli compagnia, mentre lei se la sarebbe spassata con il Bolognesi nel retro del locale.
 
Grandioso!
 
Tipico, più che altro.
 
Cristiano la studiò neanche avesse avuto i raggi x al posto degli occhi.
 
Caterina subito chiuse bottega e se la filò con Giulio, senza attendere il verdetto di Cristiano.
 
Lady Oscar non possedeva propriamente doti sibilline: poteva mai Cristiano Mori, biondo, palestrato, occhi azzurro ghiaccio, bocca a cuoricino e con tanta voglia di scopare, dare retta a una come Francesca Molinari, mora, perennemente imbronciata, con l’aria da “fatti li cazzi tua” e con tanta voglia, come si è già detto, di morire in quel preciso istante per la merdosa e improponibile piega che stava prendendo la serata?
 
-Ti disturba se ti lascio qui? Vorrei andare a ballare-, mise subito in chiaro le cose Cristiano.
 
Questo significava che Francesca non aveva passato il test. Tanto meglio.
 
-Fai pure-, rispose con sdegno, alzando un sopracciglio.
 
-Sei dispiaciuta?- domandò lui, accarezzandosi i ciuffi biondi che gli ricadevano sulla fronte.
 
Lei lo osservò indispettita. Come diavolo si permetteva di fare un’insinuazione del genere?
 
-Ne sono lieta, invece.
 
-Come sei noiosa: perché dici parole come “lieta?”
 
Il ragazzo rise del vocabolo adoperato da Francesca, mentre lei accavallò le gambe per darsi forza.
 
-Scusami, se non conosco il dizionario da ortofrutta delle tue solite “scopatine”.
 
-Mi stai davvero simpatica-, disse lui facendole l’occhiolino e puntandole divertito un indice contro il petto.
 
-Tanto peggio. Non avevi appena detto che sono noiosa?
 
Francesca roteò il busto e gli diede le spalle. Lei non voleva star simpatica a quel boscaiolo di Cristiano Mori: era un tale presuntuoso che quella sera, con la poca pazienza che si ritrovava, gli avrebbe mollato un ceffone nel giro di quindici minuti.
 
-Sembri uscita da un romanzo di scuola.
 
-Non esistono romanzi di scuola.
 
-E dove si studiano i romanzi?
 
Francesca fremette spazientita. Quello lì era davvero uno stupido pecoraro.
 
-Ci vuole la laurea per farsi dare un bacio da te?-, Cristiano cambiò argomento cercando di adoperare un tono suadente con le sue parole.
 
Francesca, schifata più che mai, tentò di allontanarsi il più possibile da quel ragazzo che avanzava con una lentezza spropositante; eppure lei se lo sentiva sempre più vicino.
 
-Esattamente.
 
-Sei troppo preziosa?-, domandò lui facendo aderire il suo petto alla spalla di lei.
 
Quel tocco fu la tipica goccia che fece traboccare il vaso.
 
Ma non nel senso che dopo quel contatto Francesca divenne spazientita più che mai, anzi.
 
Come se fosse ritornata nel passato, quando quei contatti di pelle erano frequenti, Francesca si girò verso il ragazzo con il fiato sospeso. Lo osservò negli occhi azzurri, afferrò il sentore del dopobarba o forse quello di uno dei profumi più ricercati e usati, e pensò con sdegno per se stessa che quel ragazzo non era poi così tanto male, così tanto troglodita.
 
-Qualche problema?-, rispose lei alla domanda del ragazzo alzando un sopracciglio.
 
Lui si avvicinò sempre più, sempre più affamato.
 
-No, al contrario: mi piace quando tirate fuori le unghia.
 
Lei ridacchiò allontanandolo da sé, poiché si era fatto troppo vicino. Con le mani aperte sul petto di lui, affermò:-E tu sembri uscito da una banale commedia americana. O da un cine-panettone di De Sica. Quale preferisci?
 
Lui rifletté sulla domanda poiché comprese che, con una ragazza come lei, con la sua risposta si sarebbe giocato la serata.
 
-Commedia americana-, rispose sorridendo trionfante.
 
-Te ne vanti?
 
-Cine-panettone di De Sica-, si affrettò a correggere.
 
-Sei un maniaco sessuale?
 
-Insomma!-, esclamò addolorato,-qual è la risposta esatta?
 
-Sono entrambe errate-, sorrise sorniona.
 
Lui ridacchiò scuotendo la testa:-Lo sai che rischia di ammuffire se fai tanto la pudica?
 
Oh. conosceva un termine come “pudica” e lo aveva anche pronunciato correttamente!
 
10 punti in più a Cristiano Mori, che sebbene frequentasse il liceo classico, andava avanti a forza di raccomandazioni.
 
Per tal motivo Francesca fu tanto sorpresa nel sentirgli pronunziare la parola “pudica”.
 
Ma non lo rimase per molto: la sua mente fu, difatti, d’un tratto presa da tutt’altro argomento.
 
Forse Cristiano aveva ragione. Forse avrebbe allontanato tutti i maschi del pianeta se avesse sempre fatto così tanto la schizzinosa.
 
Perché un altro Gianluca, ovvero ciò che cercava lei, non lo avrebbe mai trovato.
 
Bisognava “accontentarsi”. Dare una possibilità anche a uno come Cristiano Mori, un ripetente bocciato per due volte, nonostante le raccomandazioni. Bisognava non essere più sprezzanti.
 
Lei lo osservò per una manciata di minuti, durante la quale rifletté abbastanza sulla questione.
 
Lui, intanto, le si era avvicinato e il naso di lei sfiorava ormai quello temperato di lui.
 
Cosa fare?
Prendere o lasciare.
 
Essere sempre insicura, anche delle proprie idee?
O per una volta rischiare tutto?
 
La bocca di lui sfiorò quella di lei. La mano di Cristiano era già sul fianco di Francesca. 
Il biondo schiuse le labbra, cosicché la sua lingua andò a sfiorare quelle della ragazza ancora serrate. Lei si portò una mano sui capelli bruni, in notevole imbarazzo e completamente nervosa: Cristiano si muoveva con lentezza, dando importanza ad ogni minimo secondo e occupando il tempo come se fosse prezioso; a lei stranamente piaceva come quell'ei fu troglodita si stava comportando, così peccò d'orgoglio e adagiò una mano sul petto scolpito del ragazzo. Lui interpretò il gesto di Francesca come un invito a continuare e sebbene lei non si degnasse di schiudere le labbra, lui continuò a giocare con la lingua sul corpo della Molinari: le sfiorò lentamente il collo, poi i lobi delle orecchie. 
Lei rimase immobile, senza poter pensare. Sentire le mani calde di quel ragazzo sul suo corpo le provocò una strana sensazione allo stomaco, e il suo moment de la lune non ricopriva alcun ruolo in quello scombussolamento. 

Chiuse gli occhi  un attimo per poter riflettere.
Lei non aveva mai baciato uno sconosciuto, né tantomeno uno sconosciuto idolo delle ragazzine che avrebbe potuto fare di lei il suo nuovo giocattolo sessuale.
Francesca era in procinto di baciare un ragazzo dopo mesi.
Quel ragazzo era Cristiano Mori, ma le interessava davvero l'identità del suo baciatore?
Insomma, una bocca vale l'altra e lei era in età ormonale.
Poteva mai dire di no ad un'azione così adrenalinica?

Evidentemente sì.
Perche sgusciò dalla presa del ragazzo, si alzò e corse via verso l'uscita.

Odiava la perifrastica attiva. Tendeva più verso il periodo ipotetico dell’irrealtà.
 
Francesca era un gran testa di canfora.
 
 
 
 
 
 
Appena fuori dal locale, Francesca, finalmente, comprese in che stato e situazione si trovava.
 
Erano le 2.43.
 
E lei era sola, al freddo e al gelo come Gesù bambino la notte di Natale nella mangiatoia.
 
E nel suo “moment de la lune”, si tiene a precisare.
 
Si guardò in giro. Nessuna traccia di Caterina, né del bifolco che aveva abbordato.
 
Nella mano un bicchiere di birra ancora pieno, sul viso un’espressione da maschera aborigena e nel cuore tanta voglia di…morire? No, non più.
 
In quel momento voleva solo vomitare.
 
Avanzò verso i parcheggi marciando come un soldato in cerca della macchina di Caterina o, meglio ancora, della sua proprietaria che avrebbe potuto ricondurla a casa.
 
Il parcheggio era deserto. Completamente.
 
La Molinari era sul punto di piangere in cinese, quando udì una voce.
 
Un faro in mezzo alla tempesta.
 
Più che dei dialoghi, più che delle parole ben definite, percepì in lontananza una melodia.
 
Quella nenia non poteva esser confusa con la musica proveniente dalla discoteca.
 
Questo perché il primo suono sembrava appartenere ad un Nino D’Angelo che cantava durante un’ipotetica castrazione.
 
Cioè lo schifo.
 
Il secondo suono più che una melodia era un “tunz tunz” continuo.
 
Quindi la ragazza non ebbe dubbi.
In quel parcheggio c’era qualcuno.

Francesca sperò e pregò vivamente che quel qualcuno fosse Caterina.
Si avviò così verso lo pseudo Nino D’Angelo.
 
Quando fu abbastanza vicina al luogo del delitto dei suoi timpani, poté distinguere le parole della melodia.
 
-Ioooooooo che non vivooooo più di un’ora senza teeeeee…
 
Ora, lei aveva sentito cantare quella canzone soltanto da due persone.
 
Una era Pino Donaggio; e ciò le sembrò più che ovvio.
 
L’altra era lei sotto la doccia; ma lei in quel momento era in silenzio. E poi la Molinari cantava con un tono più stridulo.
E quella che le parve di udire era una voce baritonale. 
 
Caterina di certo non poteva essere: a stento conosceva canzoni zozze come “Gelato al cioccolato”; figurarsi se aveva memorizzato le parole di una canzone d’amore.
 
Quando l’amore per lei era farlo strano in un granaio.
 
Comunque Francesca aveva due possibilità.
 
Un bivio.
 
Avanzare e sperare di trovare una specie di Madre Teresa di Calcutta che, interrompendo il suo concertino, avrebbe acconsentito ad accompagnarla a casa.
 
O, tornarsene nel locale, riacciuffare Cristiano Mori e obbligarlo a darle uno strappo.
 
-Dal Mori? Che cadesse il cielo, io non ritorno del quel marpione!
 
Rispose ai suoi dubbi ad alta voce, con l’istintività più naturale e, facendosi coraggio, si affiancò all’auto.
 
Osservò l’interno della stessa attraverso il finestrino scuro, aiutandosi con la luce fioca del lampione, e riuscì a scorgere soltanto una chioma che si muoveva a tempo di musica.
 
L’individuo, concentrato, continuava a cantare non accorgendosi della presenza di Francesca, così lei decise di bussare.
 
Quel che poi Francesca vide fu uno spettacolo macabro. Degno di Hitchcock.
 

 

 
   
 
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