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Autore: SweetMelany    13/07/2014    1 recensioni
Le strade erano deserte e nessuno avrebbe potuto fare la spia al mio mentore. Eccezion fatta per un giovane. Anche lui mattiniero, si stava dirigendo nella direzione opposta alla mia. Non dovevo agitarmi per così poco. In fondo, proprio come lui, stavo passeggiando e non poteva sapere, e soprattutto dimostrare, quello che ero andata a fare, a quell'ora del mattino. Aveva viso e corpo coperti da un mantello blu oceano. Si notava perfettamente che non era un abitante della cittadella dal materiale di cui era composta la sua cappa: seta. Una stoffa che un semplice abitante non si sarebbe procurato facilmente, o almeno non senza essersi giocato un occhio della testa, quindi doveva far parte della corte. Aveva le spalle larghe, di certo era stato addestrato come tutti gli appartenenti alla sua classe sociale. Mentre camminava teneva il capo chino: un comportamento anomalo, tenendo in considerazione la sua probabile discendenza. Quando gli passai vicino sentii chiaramente un forte profumo di cenere e di muschio fresco.
Un odore del genere poteva provenire solamente da…
Appena quel pensiero mi sfiorò la mente, il giovane si voltò a guardarmi, trafiggendomi con i suoi bellissimi occhi turchesi.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Galvano | Coppie: Gwen/Artù
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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DUE
 
 
 
 
 
Quando mi ritrovai all’interno dell’armeria, mi accorsi immediatamente che tutto era esattamente come l’avevo lasciato l’ultima volta. Senza perdere altro tempo, afferrai una spada e iniziai a esercitarmi.
Mi allenai ininterrottamente per il resto della notte. Certamente sarebbe stato di maggiore aiuto se avessi avuto qualcuno che mi addestrasse, preferibilmente una persona competente. Usai ogni tipo di arma, partendo da pugnali e spade e terminando con balestre e lance. Quello era il luogo nel quale le guardie si rifornivano, dove nel caso fosse indetto un torneo i partecipanti prendevano le attrezzature. E a me piaceva pensare che una volta anche i Cavalieri della Tavola Rotonda avevano toccato quell’acciaio, quelle else. E che si erano trovati nello stesso luogo dove ero stanziata in quel momento.
Quando uscii dalle scuderie, stava albeggiando.
Le case erano rivestite di un colore, solitamente anomale, aranciato e rossastro; sui loro tetti venivano proiettate le ombre degli alberi della foresta di Dwair e le guardie si erano quasi sicuramente già avviate verso la Città Alta, dirette al castello, il che voleva dire non c’era nessuno a presidiare l’inferriata. Sperai con tutta me stessa che quella notte Galvano non si fosse alzato prima del solito, interrompendo il suo sonno di solito profondo e incontaminato dagli incubi.
Ma ne era comunque valsa la pena. Il rischio era sempre alto, ma per me rinunciarvi era chiedere troppo. Era l’unico passatempo che mi distoglieva la mente dal mio lavoro e dal mio tutore e l’unica ragione per cui ogni giorno andavo avanti, il motivo per il quale sorridevo anche quando riempivo i cuscini di piume.
Al contrario dell’andata, potevo tornare con calma verso casa. Passeggiai tranquillamente per le strade della Città Alta, con un sorriso idiota stampato in volto: mi sentivo finalmente realizzata dopo una settimana di torture.
I lunghi ricci molleggiavano alle mie spalle, contro la schiena; il mio viso era baciato dal sole che piano piano saliva a sorpassare il colle. Accelerai il passo: dovevo sbrigarmi.
Mi accorsi solo in quell’istante che in fondo alla via principale vi era un giovane. Anche lui camminava alla svelta e a quanto pareva era mattiniero. Si stava avviando nella direzione opposta alla mia, ma non dovevo agitarmi per così poco. In fondo non stavo facendo niente di male e lui non poteva sapere quello che ero andata a fare o dove mi trovavo pochi minuti prima.
Aveva viso e corpo coperti da un mantello blu oceano e si capiva immediatamente che non era originario di quelle parti di Camelot dal materiale di cui era composta la sua cappa: seta, una stoffa ce un semplice abitante non si sarebbe procurato facilmente. A meno che non fosse rubata…
In quel momento rammentai che una volta mi era capitata tra le mani una mantella pregiata come quella, da lavare a secco come mansione quotidiana.
Sì, ma… No, non poteva essere.
Il ragazzo aveva spalle larghe e petto robusto. Di certo era stato addestrato come tutti gli appartenenti alla sua possibile classe sociale. Era risaputo che la maggior parte dei figli maschi dei lord dimostrava il proprio valore combattendo per il regno e lui non doveva far eccezione.
Mentre camminava teneva il capo chino: un comportamento anomalo, se si teneva in considerazione la sua probabile discendenza. Ma in fondo, chi ero io per giudicare?
Quando gli passai vicino sentii chiaramente un forte odore di cenere e muschio fresco. Un profumo del genere poteva provenire solamente da…
Appena quel pensiero mi sfiorò la mente, il ragazzo si voltò a osservarmi. Venni sopraffatta dallo stupore non appena i suoi occhi, di un meraviglioso turchese come i cieli azzurri di primavera, incontrarono i miei, di un banale castano ramato.
I capelli biondi delineavano il viso marcato, colorato appena dalle guance rosee e dalle labbra carnose. Mi fermai al centro della strada, mentre lui continuò a camminare imperterrito, come se quello scambio tra noi non fosse mai accaduto. E forse era proprio così.
Lasciai andare l’aria che tenevo nei polmoni e che non mi ero resa conto di trattenere. All’improvviso mi resi conto che il cuore aveva preso a battermi all’impazzata e mi misi una mano al petto. Sussultava come non aveva mai fatto prima, come se avessi corso per tutta Albion senza riprendere fiato. Chiusi la mano a pugno e abbassai gli occhi, fino a serrarli. Respirai col naso fino a quando non mi fui calmata. Il mio comportamento era indecifrabile. Tutto il mio corpo aveva reagito contro il mio consenso.
Lentamente ripresi il tragitto; il cuore aveva riassunto un battito regolare. Avrei voluto ignorare quell’avvenimento, proprio come sembrava avesse fatto il giovane sconosciuto, e andare avanti, ma mi era praticamente impossibile. Quegli occhi… No, non sarei riuscita a dimenticarmene facilmen-te. Però, ripensando a come a lui non avesse fatto alcun effetto, a come non aveva fatto una piega di fronte a me, mi fece venire una stretta al cuore.
No… era assurdo. Avevo accumulato parecchie ore d’insonnia, era senz’altro questa la ragione della confusione che mi aleggiava in testa. Sì, non c’era altra spiegazione.
Doveva trattarsi di questo. Doveva essere così.
 
 
Quando rientrai, il primo rumore che avvertii fu il russare di Galvano. Il peso che mi opprimeva il petto scomparve: l’avevo scampata un’altra volta.
Non avrebbe avuto senso stendermi se il fine era dormire pochi minuti prima di dovermi rialzare. Decisi quindi di cambiarmi i vestiti e già che c’ero di darmi una lavata veloce. Non volevo presentarmi ad Agnes e al mio mentore in quelle condizioni, ma soprattutto non volevo rischiare di avere addosso il profumo del ragazzo incontrato poco fa.
Una volta uscita dal recipiente contenente l’acqua, ormai sporca, indossai una maglia di flanella bianca e un gilè di pelle beige sopra. Infilai le gambe in un paio di pantaloni di cuoio e i misi i miei stivaletti da lavoro. Mi acconciai i capelli ribelli nella solita crocchia e mi preparai per uscire. Andai a svuotare la tanica e la riposai nella posizione in cui si trovava prima di essere usata. Lancia un’ultima occhiata alla stanza di Galvano e stavo per girarmi nella direzione della porta, quando mi ritrovai davanti un volto conosciuto.
Sein se ne stava con le braccia incrociate sul petto e mi osservava con uno sguardo corrucciato. Mi domandai che avessi fatto di male, quando iniziò a parlare.
- Si può sapere dov’è? – chiese accennando un tono scocciato. A che si riferiva? Sarà stata colpa del sonno, ma proprio non ci arrivavo. Notando la mia faccia confusa si spiegò meglio.
- La chiave! Che fine ha fatto la chiave che dovevi consegnarmi prima dell’alba? – aggiunse allarmato, vedendo che la mia espressione si stava via via tramutando in pure orrore.
Oh no! Mi ricordai dell’oggetto che fino a poco fa per me non significava nulla. La mia bocca si dilatò, formando una “O”; lo sguardo vago nel tentativo di fare mente locale. Possibile che l’avessi lasciata nell’armeria? Ma sì, doveva essere andata in quel modo. Era improbabile che l’avessi persa per strada. O meglio, non volevo pensarci nell’eventualità che fosse accaduto proprio quello che temevo.
- Ti prego non dirmi che l’hai persa… - adesso il suo tono di voce era disperato e non potevo dargli torto. Non c’era bisogno che rispondessi. Dalla mia espressione si capiva chiaramente il mio sbigottimento. Sein si passò le dita tra i capelli mori, agitato e in cerca di una soluzione. Avrei voluto fermarmi anch’io a riflettere per cercare un rimedio, ma la mia era un’indole più impulsiva. Non lo degnai di una risposta e mi avviai velocemente fuori dalla porta, diretta ancora una volta alla Città Alta. Corsi più veloce che potevo, sperando che nessuno avesse trovato l’arnese. Nel caso fossi stata scoperta, la pena comprendeva diverse frustate e una notte nelle prigioni. Se la chiave era rimasta all’interno, allora la porta doveva essere rimasta aperta in tutto questo tempo e la paura che qualcuno fosse entrato e avesse trafugato qualche cimelio mi raggelò.
La mia supposizione si rivelò esatta, ma non avevo il privilegio di esserne sollevata. Dovevo prima assicurarmi che le armi fossero ognuna nel suo corrispettivo posto e trovare l’oggetto perduto.
Iniziai a frugare la stanza da cima a fondo, ma della chiave non c’era traccia. Dopo dieci minuti di ricerche ero sfinita: tutta l’agitazione sommata alla ricerca e al fatto che quella notte non avevo chiuso occhio mi aveva sfiancato. Mi chinai a gattoni sulle assi di legno che ricoprivano il pavimento, nel caso fosse caduta da qualche parte: niente da fare. Ero spacciata… e Sein con me, altrimenti come avrei potuto giustificare il fatto di trovarmi lì dentro senza aver forzato la serratura. E come avrebbe fatto il mio amico a dimostrarsi innocente una volta che non avesse presentato l’oggetto al suo signore? No, dovevo concentrarmi e impegnarmi per ricordare. Tentai di evocare una qualche memoria, mi visualizzai davanti agli occhi l’immagine della chiave e in quell’attimo un mare di emozioni mi pervase, soprattutto le sensazioni che avevo provato quando mi trovavo nell’armeria, mentre brandivo le spade e facevo i miei esercizi. Quella era l’unica cosa che contasse nella mia vita e non poteva essermi tolta, maledizione!
Dovetti sedermi per l’improvviso mancamento. Avvicinai le ginocchia al petto e, prima che potessi poggiare le mani di fianco alla vita, il palmo di una di esse sfiorò qualcosa di freddo e metallico. Non appena voltai lo sguardo rimasi senza fiato. Come avevo fatto a non accorgermi di averla avuta tutto il tempo sotto gli occhi? Comunque fosse, l’afferrai e mi alzai alla svelta, anche se la brusca azione mi fece venire un capogiro alla testa. Stavo per ricadere quando udii dei passi provenire dall’esterno: le guardie dovevano essere tornate dalla loro missione in anticipo. Diedi una svelta occhiata agli armamenti, anche se non mi sembrava ci fosse stato alcun furto o spostamento.
Uscii veloce dalla porta, sperando di non essere scorta, e la chiusi a chiave. Quando mi voltai verso la strada, vidi Sein che cercava di non farsi notare ai lati dello sterrato. Mi fece segno di avvicinarmi e io gli andai incontro senza lasciar trasparire alcuna emozione: le guardie mi stavano osservando circospette, anche se probabilmente il motivo era il mio abbigliamento poco consono al mio sesso. Sein mi venne incontro a metà strada, ma io non mi fermai e pensai che neanche lui ne avesse l’intenzione. Quando ci trovammo l’uno di fianco all’altra gli passai la chiave, più cauta che potei e vidi con la coda dell’occhio il suo viso rilassarsi di colpo. Non era bravo come speravo a nascondere ciò che provava e sperai che i soldati fossero stanchi come me per non accorgersene. Mi diressi nella direzione opposto al cancello. Avevo un urgente bisogno di riordinare le idee. Che mi servisse da lezione: d’ora in poi non avrei più trascurato le ore di sonno.
Nel frattempo le vie avevano cominciato ad animarsi. Varcando la soglia di casa mi stupii di non trovare Galvano ad attendermi, bensì Agnes.
- Si può sapere dov’eri finita? – mi accolse lei. Aveva un cipiglio piuttosto irato, ma capii subito che la sua era più una domanda retorica e che era almeno in parte felice di vedermi.
- Che succede? – domandai preoccupata. Dopo tutto quello che mi era capitato non potevo non esserlo.
- Le guardie sono rientrate prima del previsto – rispose.
Già. – L’ho notato… -.
- Abbiamo un mucchio di lavoro da sbrigare. Jaclyn è ormai al lavoro da tempo. Sei pronta? -.
- Ehm, a questo proposito… - iniziai, ma m’interruppi non appena incrociai gli occhi ambrati di Agnes. Non potevo deluderla dopo tutto quello che aveva passato per aiutarmi. E se come affermava c’era davvero così tanto da fare non mi sarei potuta tirare indietro nemmeno volendo.
- Non fa niente… - mormorai infine.
Agnes mi guardò sospetta.
- Sì, sono pronta – ripetei più decisa.
Un sorriso fiero le increspò le labbra.
 
 
Seguii Agnes fino all’entrata della reggia. Erano state poche le volte in cui vi ero stata, dato che le altro volte io e le altre lavoravamo ai piani delle cucine o delle scuderie. La faccenda doveva essere più seria di quanto pensassi, probabilmente il cambiamento di programma aveva stravolto tutta la settimana, il che significava che avevamo un mucchio di lavoro arretrato di cui occuparci. E, come se non bastasse, non ero nemmeno nel pieno delle mie forze. Infatti combinai un disastro dietro l’altro: inciampai diverse volte nelle taniche d’acqua posate sul pavimento; mi caddero di mano le coperte e le tende che dovevano occupare le stanze reali e che erano appena state lavate e stirate. Come previsto, tutti i presenti mi lanciarono sguardi accusatori e severi, mentre Agnes si limitò a espirare. Un sospiro carico di rammarico. Jaclyn fu la sola che si avvicinò per darmi una mano. - Forza, ti aiuto a dare una sistemata. Basta spazzolarle un po’ e il gioco è fatto, non è successo nulla di grave o irrimediabile – mi rassicurò lei, ma nonostante quelle belle parole, non potei non udire commenti come Incapace o Incompetente. Oggi non era decisamente la mia giornata.
- Dovrete andare al piano di sotto allora. Qui hai già combinato abbastanza guai… - informarono le altre. Io e la mia amica ci dirigemmo così alle imponenti scale di marmo che conducevano ai piani inferiori.
Una volta scese e rimesso in ordine i drappi, risalimmo la scalinata con i panni tra le braccia. Questa volta cercai di prestare più attenzione ai passi che compivo, anche se per poco le mie intenzioni furono mandate al diavolo da Jaclyn, la quale si era bloccata all’improvviso in mezzo a un corridoio e per poco non le andavo a sbattere contro. Avevo la vista coperta a causa della massa di coltre e tendaggi, quindi riuscii appena a scorgere la mia amica piegarsi in un leggero inchino, anche lei intralciata dai tessuti. Io ebbi almeno il buon senso di imitarla, anche se non avevo la più pallida idea di chi avesse appena attraversato l’arcata. Almeno quell’azione mi era venuta egregiamente, pensai sollevata.
Quando il giovane – si trattava di un ragazzo notai – ci diede la schiena, capii davanti a chi ci eravamo appena piegate. Era appena passato il principe. Camelot attualmente era governata da Re Abner, la quale discendenza era composta da Alden, unico erede al trono esistente. Con grande rammarico da parte del sovrano e del popolo sua moglie, la regina Elderea, morì anni or sono, anche se Alden non era stato il suo unico figlio. Arth, l’ultima progenie dei Pendragon, era il primo pargolo della regina, anche se non aveva alcun diritto al trono appartenendo a un’altra dinastia, ovvero quella del monarca che aveva governato in precedenza.
- Gwenny, hai visto chi è appena passato? Non è da tutti incontrare il principe Alden, dovresti sentirti onorata! – sussurrò Jaclyn una volta che il giovane si fu volatilizzato. Mi trattenni dall’inarcare un sopracciglio davanti all’espressione estasiata della mia amica. Ovviamente avevamo una diversa concezione della parola onore. Lo ritenni un insulto alla sua intelligenza che anche solo si fosse sentita in quella maniera, quando il principino non ci aveva neanche degnate di un saluto. I Cavalieri non sarebbero mai rimasti impassibili…
- Anche se dicono che Arth sia di una bellezza indescrivibile – uggiolò di nuovo lei, riportandomi alla realtà dalle mie fantasie. Sapevo che con “dicono” intendeva le serve che lavoravano al castello. Io rimasi indifferente a quel commento malizioso, non ero interessata ai pettegolezzi, figuriamoci ai ragazzi! Mi definivo una persona alternativa e diversa con tutta me stessa, e ne andavo fiera.
Jaclyn, con la mente ancora fra le nuvole, aveva iniziato a incamminarsi verso la fine del corridoio, dove ci attendeva Agnes. Lei si accorse immediatamente del comportamento bizzarro della mia compare non appena varcò la soglia. E non fu la sola.
- Che ti è successo, Jac? – domandarono. Era il soprannome che usavano le altre domestiche, anche se personalmente preferivo il nome completo.
Lei si limitò a sospirare, il che non fece che aumentare la voglia di sapere delle presenti. Jaclyn, dopo una serie infinita di suppliche, non resistette a lungo e rivelò tutto quanto alle sue ammiratrici. Questo causò altrettanto dissapore tra le ragazze che si struggevano in segreto per il principe quanto ammirazione da parte di coloro che lavoravano a palazzo. Ma perché quella giornata non si decideva a finire?
La mattina avevamo riordinato le stanze delle guardie che abitavano a castello e ci fummo occupate dei lavori giornalieri in cucina, mentre il pomeriggio avevamo lucidato le armature dei soldati e strigliato i cavalli.
Quando infine arrivò il crepuscolo ero esausta. 
La mente cominciò ad annebbiarsi mentre mi dirigevo verso casa, dove nessuno mi avrebbe giudicato o guardato storto, dove potevo essere semplicemente me stessa.
 
 
Quando mi fui sdraiata a letto non ci volle molto perché caddi in un sonno pacifico e ricco di sogni. Non avevo nemmeno avuto la forza di cenare e Galvano fortunatamente non aveva fatto domande, intuendo quanto fossi stanca.
La mattina seguente feci un abbondante colazione ed ero felice di aver ritrovato la mia solita vitalità. Mi avviai serena alla Città Alta con l’intenzione di vedere Agnes e di scusarmi per il mio comportamento di ieri. In più dovevamo fare il prospetto della settimana seguente, dato che era lei che distribuiva sempre i compiti e affidava i ruoli da ricoprire alla servitù, sotto l’autorizzazione del sovrano e secondo le necessità che venivano richieste.
Nei sette giorni seguenti avevo l’ardire di ripulire le stalle e mantenere i cavalli in salute e puliti. Ormai ero un’esperta e questo Agnes lo sapeva di certo. Pensai che il motivo della sua scelta fosse il fatto di trovarsi nella posizione di non poter sbagliare. Che centrasse il rientro anticipato delle guardie? Che il Re in questi giorni fosse più irascibile? Ma non mi soffermai a fare domande e ubbidii in silenzio.
I soldati ripartirono il martedì successivo e questa volta sperai che sarebbero rimasti fuori dal regno per un tempo maggiore. Non seppi se Sein mi avesse perdonato dal nostro ultimo incontro, non ebbi l’occasione di parlargli a quattr’occhi come desideravo.
Ma la risposta arrivò puntuale insieme a qualcos’altro che non avrei immaginato potesse accadere a me. Stavo tornando alla mia dimora dopo essere passata per il mercato a fare il setaccio di quello che era rimasto, quando il mio amico mi fermò prendendomi, o dovrei dire avvinghiandomi, per un braccio. Di sicuro la gentilezza non era il suo forte, senza contare che non mi piaceva essere toccata, soprattutto quando la persona in questione non aveva il mio consenso. Gli lanciai uno sguardo di fuoco, per fargli capire le mie intenzioni, ma lui m’ignorò e mi trascinò sotto un portico di legno che delimitava le strade e che non era illuminato granché. Ma forse era proprio questa l’intenzione di Sein, anche se non riuscii a trattenermi oltre.
- Si può sapere che cavolo ti è preso? – domandai adirata.
- Scusa tanto ma era necessario… ho bisogno di parlarti – rispose lui con aria grave. Intravidi un lieve accenno di imbarazzo velargli gli occhi. Faceva bene a sentirsi in colpa.
- Ho sentito delle voci… - iniziò. Teneva lo sguardo basso, altrimenti avrebbe notato la confusione che vi era nel mio.
- Ovvero? Non capisco… - cercai di incoraggiarlo.
- Ricordi Eldwyn? Lavorava per il principe Alden, era il suo servitore – continuò lui, pronunciando in modo anomalo l’ultima parola, come per metterla in risalto e allo stesso tempo fare in modo che ne avessi paura.
- Sì, certo -. Ma dove voleva arrivare?
- Ecco… se n’è tornato nelle terre di Briath per dare man forte alla sua famiglia -. Ero arrivata al limite, pronta a schiaffeggiarlo o prenderlo a pugni se non si fosse deciso a parlare, a finire il suo maledetto discorso.
- Non vedo come questo possa interessarmi – dissi con tono gelido, incrociando le braccia davanti al petto.
- Be’, come dire… -. Come dire? Perché non si decideva a sputare il rospo, una volta per tutte?
- Insomma Sein! Se devi riferirmi qualcosa fallo subito! Sai com’è, ho una cena da preparare – esplosi infine.
- Ho sentito Agnes riferire a Ser Garwin che saresti stata tu a sostituire Eldwyn! – dichiarò finalmente, paonazzo in volto.
Io rimasi immobile, ammutolita, come se quella notizia non mi riguardasse affatto.
- Ti giuro non stavo origliando… - cominciò a giustificarsi intanto, poi vedendo che non reagivo, che ero pietrificata dalla sua notizia aggiunse: - Senti, non ne sono certo. Forse si è trattato di un enorme malinteso -. Sorrise, cercando di risollevarmi il morale.
- Parlane con Agnes, magari insieme riuscirete a… -. Ma non lo stavo più a sentire. Continuavo a fissarlo anche se la mia mente era altrove. Essere un servitore all’interno della corte voleva dire trasferirsi all’interno del castello. Come avrebbe fatto Galvano, senza di me, a cavarsela? E come avrei fatto io senza i suoi consigli, i suoi insegnamenti, senza di lui? Mi ero così abituata a convivere con lui che all’idea di separarmene mi sentivo male. E soprattutto come avrei fatto con i miei esercizi? Il lavoro a palazzo richiedeva un impegno a tempo pieno, ventiquattr’ore su ventiquattro e non era una passeggiata raggiungere l’armeria senza essere fermati o visti. Per non dimenticare che non avrei più avuto occasione di vedere Sein, quindi come potevo in ogni caso procurarmi la chiave? Come poteva Agnes farmi questo? Era a conoscenza della situazione di Galvano, che non era autosufficiente, e non credo che avrebbero permesso a un anziano come lui di entrare tra quelle mura, un popolano.
Lasciai cadere la cesta con all’interno i viveri e abbandonai il mio amico che nel frattempo aveva continuato a blaterare. Ero determinata a risolvere la faccenda e non l’avrei lasciata immutata. Non m’importava se Agnes avrebbe trovato quel comportamento inadeguato: bussai violentemente alla sua porta. Dall’interno trasparivano delle luci, il che significava che si trovava in casa e non poteva arrancare scuse non aprendomi. Si doveva considerare fortunata che non l’avessi semplicemente spalancata, senza annunciarmi. Galvano ne sarebbe andato fiero, pensai divertita.
Riuscii a udire delle parole provenire dalla dimora, poi la porta si spalancò. Agnes mi accolse con la solita facciata indifferente che non si scalfiva facilmente. Non lasciava trasparire niente, al contrario della mia. Adesso era il mio turno di dimostrarmi delusa.
- Entra – si limitò a dire. Di sicuro aveva intuito la ragione del nostro voluto incontro.
Varcai la soglia, sollevata che non dovetti dare spiegazioni. La tavola, notai, era apparecchiata e il fuoco scoppiettava all’interno del caminetto. Era una casa umile, almeno quanto la mia. Lei mi fece accomodare su una panca e si sedette di fronte a me, su una sedia posizionata in un angolo della stanza.
- Ti spiegherò tutto per bene, ma prima dimmi come l’hai saputo -.
Già pretendeva di fare lei le domande? Questo fece crescere la rabbia che si era insinuata dentro di me.
- Non intendo rispondere – dissi.
- Non sei nella posizione di rifiutarti – ribadì seria.
- Allora spiegami il perché, Agnes, ti prego – cercai di farla sembrare una supplica.
Lei distolse lo sguardo, un’azione che non le avevo mai visto fare. Incutevo davvero così tanto terrore?
- Perché io? – la incoraggiai. – Ci sarebbero state decine di ragazze pronte a prendere il posto di Eldwyn, perché proprio io? -.
A quel punto i suoi occhi tornarono a incrociarono i miei, come se qualcosa dentro di lei fosse scattata. – È vero. Ma il Re mi ha chiesto una persona competente, non un’adolescente con gli ormoni in subbuglio che riesce a malapena a parlare – rispose a tono.
- In questi ultimi tempi ti sei rivelata molto capace, Gwennyfer. E sono certa che migliorerai di giorno in giorno col passare del tempo – aggiunse.
- Ma anche Jaclyn si è rivelata eccellente nell’assolvere i suoi compiti – ribadii.
- Giusto, ma dimentichi che lei ha suo fratello di cui occuparsi -. Aveva una risposta pronta a ogni mia domanda, ma non era l’unica tra le due.
- E allora non pensi a me? Anch’io devo badare a Galvano! Senza di me non è autosufficiente… -. Il mio tono stava diventando via via più insolente.
- Infatti. Per questo, prima di prendere una decisione, gli ho chiesto cosa ne pensasse -.
Una lama sembrò trafiggermi il cuore. – E che cosa ha risposto? – chiesi, anche se sapevo già la conclusione.
- Ha detto che per lui non ci sono problemi e che sarebbe venuta una parente a prendersi cura della casa – disse tranquilla Agnes, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Era incredibile come tutti si fossero alleati di nascosto contro di me. Però, sapere che Galvano sarebbe stato bene anche senza di me, allietò la notizia del mio trasferimento ma allo stesso tempo lo rese doloroso. Possibile che in tutto questo tempo non si fosse minimamente affezionato a me? Ormai mi ero arresa all’idea e oppormi non avrebbe giovato a nessuno. Così mi rimase un ultimo quesito da porre ad Agnes.
- Quando si comincia? -.
   
 
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