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Autore: Banana_Mecha    14/07/2014    2 recensioni
"La signora Kim siede vicino alla vetrina, nella sua caffetteria.
La porta è stata chiusa dall'interno con una spessa catena allucchettata; eppure non è neanche il tramonto.
Dentro le luci sono accese, e diffondono un caldo bagliore arancione, ma adesso che questo locale è vuoto… Prima che scatti il coprifuoco c'è ancora chi si azzarda a venire a trovarla. Sono molte meno di prima, certo, però vengono quasi ogni giorno.
Le passano ancora le lettere. Alcune addirittura portano del cibo.
Le si avvicinano e le sussurrano: «Yesung sta bene?»
Gli occhi della signora Kim si riempiono di lacrime. Non lo so, vorrebbe rispondere, mi manca mio figlio e non so niente di lui da mesi. Però non dice niente. Annuisce, e cerca di sorridere."
Settembre 2013. E' bastata una notte, e nessuno poteva sospettare che sarebbe accaduto così. Il Nord ha attaccato il Sud e la capitale è in ginocchio. La musica viene bandita dalla legge.
Gli artisti vengono costretti a rifugiarsi e a combattere contro i traumi di una guerra crudele e la paura di essere trovati. Non saranno soli però. Presto nel sottosuolo di Seoul nascerà la ribellione.
SJ, SNSD, B1A4, B.A.P.
Genere: Generale, Guerra, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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WARNING! Sono tornata dopo un'assenza di più di 10 mesi. Chiedo scusa, ma ero in Giappone a spassarmela (più o meno). Sono tornata, più agguerrita che mai e decisa non solo a finire questa fanfiction lunga chilometrica, ma a scriverne altre e migliorarmi al punto da poter finalmente pubblicare un romanzo, che è il mio sogno dall'età di 7 anni... xD Sono rimasta commossa dal fatto che molte persone si siano appassionate a questa storia anche durante la mia pausa e che mi abbiano sostenuto con delle parole bellissime. Giuro che non dirò mai più che quello che scrivo fa schifo, e che mi impegnerò a migliorare! Parola di Banana!
Quanto al nuovo capitolo, scritto in fretta e furia, nei prossimi giorni lo ricontrollerò in quanto non avendo parlato altro che giapponese per 10 mesi, il mio italiano si è un po' arrugginito. Come sempre sono aperta a correzioni!
Dal momento che penso molti di voi non rileggano la storia da agosto, e riassumerla tutta mi costerebbe almeno 10 pagine di word, mi limito a rinfrescarvi la memoria sulla fine dell'ultimo capitolo.
Hyoyeon esce fuori dal nascondiglio sotteraneo durante il coprifuoco ma viene sorpresa da una camionetta piena di soldati, scappa e viene però rapita da un baldo giovine nordcoreano e trascinata dietro un portone.
Buona lettura! 
E... vi voglio bene :)))

Banana




«Se prometti che non urli ti lascio andare… promettilo».

 La manica della giacca che il rapitore le preme contro la bocca è fatta di un materiale ruvido, ma profuma di una fragranza nostalgica, che le aveva vagamente ricordato un vecchio ammorbidente che usava la mamma quando lei era piccola.
Hyoyeon sente la testa che inizia a girare. Non ha più neanche la forza di scalciare e dibattersi, desidera solo poter tornare a respirare di nuovo.
Tenta per l’ultima, disperata, patetica volta di divincolarsi, poi suo malgrado annuisce piano con il capo.
Le mani che le tappano la bocca si rilassano, le braccia che la stringono si distendono e in pochi istanti torna a posare i piedi sul pavimento e l’ossigeno riprende a fluirle nei polmoni. E’ freddo, brucia quasi.
Le mani dietro di lei arrivano prontamente a sorreggerla stringendole appena le spalle, prima che l’improvviso giramento di testa la faccia cadere a terra.
Hyoyeon può constatare che, nonostante tutto, il suo rapitore è una persona gentile.
Ha ancora il cuore in gola per la corsa, lo spavento, la paura di essere presa dai soldati e il panico del venire rapita da uno sconosciuto. Pensa di non aver mai avuto così tanta paura in vita sua, tanto da non riuscire a muovere le gambe.
I pensieri che sta cercando farneticamente di mettere in ordine sono coperti dal frastuono del sangue che pulsa nelle orecchie.
Deve velocemente architettare un piano…
E’ buio pesto, ma giurerebbe di essere in un sottoscala. Il suo respiro affannato echeggia sulle pareti, il che le fa intuire che non ci siano pezzi da mobilio. Non saprebbe dire in che direzione sia la porta, però, e non deve dimenticare il giovane alle sue spalle...
In sostanza, è impossibile scappare.
 «Non voglio farti del male… Se adesso io accendo la luce e tu scappi fuori, quei soldati ti prenderanno e né io né tu vogliamo che accada, giusto?», bisbiglia il ragazzo dietro di lei. Ora che ci fa caso, la parlata è inconfondibilmente del Nord. Il sangue le si gela nelle vene; ecco, è fatta, pensa sentendo qualcosa dentro disintegrarsi, polverizzarsi, scorrere via come cenere. E’ così che ci si sente quando non si può più scegliere tra vivere o morire, dovevo immaginarmelo…, deduce mentalmente con rassegnazione.
«Tu sei uno di loro», mormora Hyoyeon con un fil di voce, pronta ad abbandonarsi a qualsiasi destino. Il desiderio di vedere, di scappare, di correre via, tutto è sparito nel giro di pochi istanti. Per un attimo ha valutato l’opzione B). L’opzione di smettere di affannarsi, di non apprestarsi a vivere come un topo nelle fogne della città, di smettere di soffrire la solitudine, i sensi di colpa. Ha considerato l’opzione di scivolare via dal dolore. Se adesso lui la uccidesse, davvero le dispiacerebbe?
Ripensa a quando si è sbucciata le ginocchia, rovistando fra le macerie del palazzo dei suoi, quella notte. Ripensa al nero della polvere sulle guance, all’umiliazione dello strisciare fra i cumuli di cemento piangendo.
Ripensa a Hyukjae. Hyukjae che non la ama, e i muscoli si distendono, il sangue torna a scorrere.
Calma piatta.
La tempesta è finita. Finita per sempre forse.
«Prima che “uno di loro”, io sono l’uomo che ti ha appena salvato la vita»,il giovane rapitore dietro di lei le risponde, interrompendo bruscamente il filo dei suoi pensieri.
«Questo è tutto da vedere», ribatte Hyoyeon, riacquistando parte del suo solito modo di fare spudorato. Vuole SICURAMENTE farle del male. Potrebbe anche solo aver rimandato il momento della sua cattura per poterne prima abusare sessualmente.
«D’accordo, allora rimarremo in piedi tutta la notte al buio e al freddo perché qui qualcuno non vuole fidarsi di “uno di loro”», il ragazzo, che parla in modo duro per natura, pronuncia l’ultima parola quasi con disprezzo.
Hyoyeon per la prima volta legge in quella parlata qualcosa di… umano. Si rende conto che, e magari si sbaglia, potrebbe quasi averlo ferito. E se avesse davvero avuto delle buone intenzioni? Se non tutti i nostri invasori fossero dei barbari?
E se davvero ora stesse rischiando la sua vita per me?
Hyoyeon si morde il labbro inferiore, sentendosi a disagio. Non vuole sperarci ma… l’opzione A) è ancora in gioco?!
Torna a sentire una stretta d’ansia alla bocca dello stomaco. Perché realizza in un istante di non sapere neanche in cosa consista veramente, l’opzione A). Ecco. E’ un salto nel vuoto, e la paralizza dalla paura.
 Ma lei è maledettamente orgogliosa per cedere e aprire bocca. E’ troppo stanca e provata per riuscire a prendersi la responsabilità delle conseguenze dell’una o l’altra scelta.  Lascerà che sia lui a decidere per lei.
Rimangono lì in piedi per dieci, forse venti minuti.
Passa il tempo.
Passa così tanto tempo che quasi tutta la paura svanisce di nuovo, rimpiazzata da una grande noia priva di pensieri. Lui potrebbe averle fatto qualsiasi cosa; l’avrebbe potuta riafferrare e portare da qualche parte contro la sua volontà. Avrebbe potuto tramortirla e trascinarla via di peso. Chiamare qualche soldato.
Ma invece no.
Scorrono i minuti, e chissà, forse anche le ore, eppure lui la sta aspettando pazientemente in un punto poco distante dietro di lei.
Forse è vero che non ha cattive intenzioni.
Ma Hyoyeon è ostinata, ostinata e testarda. Se ha deciso che non si umilierà oltre, non lo farà.
Aspetta ancora e ancora.
Fa freddo, e ha sonno. Le gambe le fanno male. Si chiede se il poverino lì dietro non stia anche peggio di lei.
Le mani e i piedi sono talmente infreddoliti da non muoversi neanche più.
Pensa che comunque andrà, è solo colpa di Hyukjae.
E’ solo colpa di quello stupido scemo, che non deve neppure pensarci, tanto gli viene naturale farla soffrire.
E’ colpa di quell’idiota se oggi morirà. Fa niente, tanto era già morta dentro. A casa nessuno soffrirà la sua mancanza, perché sono morti tutti.
E se non morirà… c’è l’opzione A). Un’opzione il cui pensiero le fa male. Perché, pensa con stizza, perché non voglio vivere? Io, che amavo la vita…
In quell’istante le vengono in mente, come delle vecchie diapositive, i tempi in cui lavorava giorno e notte per il suo sogno. Quell’epoca in cui era una bambina acerba e semplice, ma in cui brillava di una luce fortissima. Le manca, quella Hyoyeon che amava vivere la vita giorno per giorno, non importava quanto dura fosse, quanto si stancasse a perfezionare i soliti passi difficili…
Quella Hyoyeon che concludendo una giornata difficile andava a letto pensando che tanto domani sarebbe andata meglio, che gioiva se il manager le concedeva uno strappo alla dieta, che mordeva la vita come una torta alla frutta, che ha un sapore diverso ma sempre dolce ad ogni morso.
Senza renderne conto inizia a singhiozzare piano. Uno di quei pianti trattenuti a forza, che fanno male al torace e ti fanno sussultare le spalle.
«Sicura di non volere neanche una tazza di tè caldo?», domanda ad un tratto lui. La voce è completamente ferma, di chi non sente né il freddo né la stanchezza. Hyoyeon si era quasi dimenticata della sua presenza.
«No», rispondelei, anche se un tremolio nella voce la tradisce.
«Neanche una coperta?»
«Neanche una coperta», ripete lei.
 «Stai piangendo». Non è una domanda.  Hyoyeon non è tenuta a rispondere; si copre il volto con le mani tentando di soffocare i singhiozzi.
Odia piangere davanti a qualcuno, è una cosa che non sopporta.
Un interruttore scatta, e la luce si accende con un ronzio un po’ assonnato. Hyoyeon riesce a intravedere fra le dita che non si era sbagliata riguardo al sottoscala; il pavimento è di marmo bianco e lucido.
«Se vuoi puoi andartene, il portone è a sinistra», dice il ragazzo.
Hyoyeon non riesce a muoversi.
Non sa se vuole andarsene.
Fuori è così buio che forse non ritroverebbe neppure la strada per il rifugio, e c’è sempre il pericolo delle camionette che girano per le strade. E poi, fuori da quel portone, l’abissale incognita dell’opzione A) la inghiottirebbe di nuovo.
«Allora che fai, non vai?», le domanda il ragazzo in tono sarcastico. Hyoyeon, suo malgrado, scuote la testa. Non ha il coraggio di scoprirsi il volto, rosso per la vergogna.
Sente il rumore di passi leggeri che pian piano iniziano a salire i gradini e si allontanano sempre di più.
«Questo tè lo prendi o no?... Prima di salire spegni la luce», la voce del ragazzo rimbomba da un punto in alto, sopra la sua testa.
Hyoyeon si asciuga le lacrime, poi con gli occhi gonfi e arrossati cerca l’interruttore della corrente e lo preme. Il sottoscala ripiomba nell’oscurità.
Con le mani gelide afferra il corrimano e lentamente inizia a salire le scale, un gradino dietro l’altro, seguendo il suono dei passi del giovane.
Non l’ho ancora visto bene in faccia, pensa con un misto di ansia e curiosità.
Non fa in tempo a finire di formulare il pensiero che lui si ferma su un pianerottolo e lei lo imita di conseguenza, barcollando appena. Si sente tintinnare un mazzo di chiavi, e Hyoyeon si domanda come sia possibile che lui le distingua al buio.
Si sente il suono di un lucchetto che scatta e poi un lieve tepore misto al profumo di cibo si diffonde nell’aria.
«Benvenuta in casa mia… metto a bollire l’acqua per il tè», il ragazzo accende la luce dell’ingresso, e poi si gira verso di lei.
Finalmente Hyoyeon può guardarlo in volto.
«Che aspetti a entrare? Forza, prima che si disperda tutto il calore», la esorta lui sfilandosi un paio di stivali neri da soldato, per poi sparire dietro una porta a destra.
Suo malgrado, con titubanza, Hyoyeon entra e si chiude la porta alle spalle.
 
Il tè odora di fieno. Hyoyeon lo beve malgrado tutto, sperando che possa riscaldarla un po’.
Guarda le spalle larghe del ragazzo mentre lava delle pentole con una spugna ridotta a brandelli.
E’ un soldato. Si è sfilato la giacca della divisa poco prima, gettandola malamente sul bracciolo di una poltroncina dalla tappezzeria a fiori un po’ sbiadita. La casa emana lo stesso odore che Hyoyeon ha potuto annusare prima dalla giacca di lui (che venga forse da pochi indumenti stesi malamente su un filo appeso sopra l’acquaio della cucina?) misto al profumo del riso appena cotto.
Hyoyeon si ricorda di quando da piccola andava a casa della nonna, e quando tornava a casa indossando uno dei maglioncini che lei puntualmente le confezionava si ritrovava addosso quello stesso odore.
La nonna era morta di un tumore quando Hyoyeon aveva 8 anni, e da allora questa è la prima volta che si è ricordata di quell’odore.
Un orologio di plastica bianco di forma esagonale appeso sopra la porta della piccola cucina segna le nove di sera. La lancetta dei secondi è quasi rumorosa, constata Hyoyeon sentendosi sempre più a disagio.
Nessuno dei due apre bocca.
Forse aspetta che cominci io, pensa Hyoyeon guardandosi disperatamente intorno cercando una via di fuga.
Il suo sguardo si posa su un taccuino sgualcito di colore verde bottiglia appoggiato sul tavolo sotto una fruttiera con poche mele un po’ ammaccate. Qualcuno ha scritto sulla copertina di cartoncino ruvido la frase “le mie poesie” con un pennarello nero.
Mentre il giovane soldato non la guarda, presa da un’irrefrenabile curiosità (assolutamente da me, pensa Hyoyeon con sarcasmo) fa scivolare il taccuino fin sulle sue ginocchia e ne apre una pagina a caso.
«Stamattina all’alba
gli dei hanno visto la mia miseria
e mi hanno sussurrato di aprire gli occhi
», sussurra recitando i versi scritti a mano sulle righe del quadernetto.
Il soldato si gira appena verso di lei, per poi tornare alle sue faccende.
«Non ti hanno insegnato che non si prendono le cose altrui senza chiedere il permesso?», le domanda. Non sembra particolarmente infastidito, per cui Hyoyeon suppone di poter continuare a leggere.
«Mi hanno condotto fuori dal mio letto,
lontano  dai miei pensieri.
Ho posato i piedi nudi sulla terra umida
e ho guardato il Sole farsi largo tra le vette dei monti
e tingere le risaie d’arancione,
trasformare la valle in una distesa di luce.
E gli dei mi hanno sussurrato
che da oggi non ero più nella miseria,
ma nell’abbraccio caldo del Sole.
Stamattina all’alba
ho pianto la fine della mia solitudine
», Hyoyeon conclude la poesia ma non alza lo sguardo dal taccuino. Non sa dire cosa le abbia suscitato quella poesia. Non sa dire neppure se le è piaciuta o meno.
Il ragazzo nel frattempo posa la spugnetta e chiude il rubinetto. Non si gira verso di lei quando le parla.
«Che coincidenza… », mormora, per poi voltarsi e sorriderle. Sorriderle raggiante.
Hyoyeon ha notato fin da prima che, a dispetto della parlata così dura, ha un viso gentile.
Anzi, ha un bel viso, oserebbe dire. Un ovale liscio, con gli zigomi leggermente pronunciati, un naso dritto e due occhi sottili e lunghi. Quando sorride sembra un ragazzino.
«Che c’è, ho qualcosa in faccia?», domanda scherzosamente. Hyoyeon realizza di averlo osservato troppo.
«Niente di particolare. Stavo solo pensando che hai un bel viso», risponde Hyoyeon, quasi con innocenza. Al contrario di quanto molti possono pensare di lei, è molto onesta nel dire ciò che pensa.
«Grazie. Sei sorpresa che “uno di loro” abbia un bel viso e ti stia offrendo una tazza di tè dopo averti salvata da una camionetta piena di soldati?», domanda lui senza perdere il suo tono giocoso.
Hyoyeon arrossisce violentemente e guarda altrove, portandosi la tazza alla bocca.
«Sinceramente sono più sorpresa che “uno di loro” non solo abbia un bel viso, mi stia offrendo del tè e FORSE  mi abbia salvata da una camionetta piena di soldati, ma sappia anche scrivere poesie», bofonchia Hyoyeon una volta posata la tazza vuota sul tavolinetto di plastica a cui i due sono seduti. Lui afferra la teiera e la riempie di nuovo.
«Puntualizziamo intanto una cosa; puoi smettere di dubitare della mia buonafede. Diciamo che ho sempre odiato il coprifuoco; la notte mi piace, mi aiuta a pensare. E’ proprio una cosa stupida impedire alle persone di uscire a vedere le stelle, mi dico. Per cui mi sono sentito in dovere di salvare una povera ragazza innocente uscita a farsi una passeggiata al chiaro di luna», risponde incrociando le braccia sul tavolo e sorridendole ingenuamente.
Hyoyeon apre la bocca. La tenerezza di quel sorriso le ha tolto per un attimo il fiato.
«Punto secondo, non è che sappia scrivere poesie. E’ solo il mio modo…» aggiunge sbadigliando.
«Il tuo modo per cosa?», domanda Hyoyeon confusa.
«Il mio modo per sopravvivere, ovvio. Ognuno deve trovarsene uno, altrimenti puoi non morire fuori, ma dentro… beh, lo sai come funziona un regime», bofonchia lui sbadigliando di nuovo. E’ stanco, evidentemente.
Hyoyeon abbozza un sorriso triste. Ha iniziato a provare simpatia per quel giovane.
«C’è chi di nascosto canta, chi dipinge, e chi scrive poesie su quant’è bello il mondo», prosegue il soldato lanciando un’occhiata alle stelle fuori dalla finestra.
«A me il mondo non piace. Voi l’avete ridotto a un cumulo di macerie e ossa», replica Hyoyeon. Il soldato la guarda negli occhi abbozzando un sorriso malinconico.
«Mi dispiace», bisbiglia alzando le spalle, «Mi dispiace molto. Se ti dicessi che mi ripugna guardare le mie stesse mani ora non ci crederesti forse. Ma io non volevo uccidere nessuno; amo la vita, io. Perdona almeno me, che oggi ti ho salvata…».
Hyoyeon annuisce, mordendosi il labbro inferiore.
«Come si chiama l’uomo che devo perdonare?».
«Eejun».
«Eejun, io ti perdono. Ti perdono a nome dei miei genitori, che sono morti. Ti perdono a nome di Sehyung, che ora è in coma. Che tutti gli spiriti delle persone che hai ucciso vedano quanto il tuo cuore è puro e il tuo animo buono, ti perdonino e smettano di tormentare le tue notti», bisbiglia Hyoyeon. Chiude il taccuino e lo riposa sul tavolo, vicino alla fruttiera.
«Grazie», mormora il soldato Eejun, abbozzando un sorriso malinconico.
«Prima hai parlato di una coincidenza», gli ricorda Hyoyeon, sperando di spezzare la situazione un po’ imbarazzante appena creatasi.
«Giusto. Stavo pensando che quella è stata la prima delle mie poesie felici. Prima ci sono solo pagine piene di tristezza e angoscia. Mi sono detto che forse è un segno del destino; che da oggi anche le  tue pagine tristi e piene d’angoscia siano giunte alla fine?», le sorride lui scrollando le spalle.
Hyoyeon rimane a fissarlo a bocca aperta, incredula, mentre lui esce dalla cucina.
«Vado a prenderti una coperta… puoi dormire sul sofà», le dice da qualche parte della casa.
 Il tepore nel cuore di Hyoyeon torna pian piano a freddarsi. Per un attimo le è sembrato che la semplicità di Eejun avesse potuto vedere in lei quello che nessuno aveva mai capito fino in fondo.
Allora c’è davvero una fine alla solitudine?, si domanda mentre si rannicchia sul divano, sotto una spessa coperta di lana.
Prima di dormire rimane un po’ a guardare il cielo stellato fuori dalla finestra. I versi della poesia le riaffiorano alla mente per qualche istante e pensa; chissà se gli dei stanno tenendo nascosto un tesoro anche per me?...
Con un sospiro stanco si copre fin sopra la testa, ringrazia di essere ancora viva e si addormenta.
 


Heechul apre lentamente gli occhi.
E’ solo. La luce è spenta.
Si porta una mano alla fronte, colto da una fitta più lieve del solito.
Che strano, pensa, devo avere la febbre molto bassa.
In bocca sente un sapore strano, che non sa di medicina. Sembra quasi… quasi il retrogusto dolciastro del riso.
Con un enorme sforzo si issa a sedere sul letto e cerca di mettere a fuoco la sua stanza, nel buio; la catena con cui è avvolta la sua caviglia tintinna appena.
Anche oggi c’è la luna piena; ora che si è abituato al buio, nota che la luce filtra fra le sbarre della finestra illuminando debolmente le sagome degli oggetti.
Per terra la sua ciotola da cani giace al contrario, i resti della sua cena sparsi per terra; si ricorda di averla rovesciata senza quasi averla mangiata.
E’ stato proprio la fame a fargli aprire gli occhi, ora.
Getta uno sguardo alla porta; è chiusa, come sempre.
Ora ricorda; la Dottoressa ha smesso di drogarlo per qualche giorno per evitare che i veleni del virus reagissero e si… come aveva detto? Ah, ecco. Che si ritrovasse del minestrone al posto del cervello.
Heechul non ricordava quanto essere cosciente potesse stancare. Il desiderio di ributtarsi a letto è forte, ma non può.
Lotta contro la sua volontà e scivola giù dal letto; la caviglia incatenata gli lancia una fitta lancinante e per poco non urla. Si morde un braccio e geme.
Striscia lentamente sotto i deboli raggi lunari e cerca di respirare a fondo.
Gli sfugge una risatina debole e nevrotica osservando le catene intorno alla sua caviglia maciullata. E’ diventato così magro che potrebbe infilare due dita fra quelle e la caviglia tumefatta.
 Chissà da quanto non gliele slaccia, pensa iniziando a spingerle via con la poca forza che gli è rimasta. Il dolore per un attimo gli annebbia la vista; stringe i denti e continua a spingere finchè il piede non gli scivola fuori.
Deve rimanere almeno due minuti a occhi chiusi prima che il dolore si affievolisca un po’. Quando li riapre, guarda il cielo fuori dalla finestra con le sbarre.
Striscia fino ad aggrapparsi al davanzale e si issa faticosamente in piedi. Con la mano ossuta e tremante tenta di far scorrere la finestra di lato; non ci riesce. Riprova con due mani, la apre.
Torna ad appoggiarsi al davanzale con il fiato corto, mentre una ventata gelida gli scompiglia i capelli lunghi.
Sente le lacrime pungergli gli occhi dalla commozione; sembra come se un’entità superiore che regola l’Universo (Heechul non crede propriamente in Dio) gli avesse appena dato l’opportunità rinascere.
Va bene, pensa Heechul. Ho capito, non sprecherò quest’occasione.
Le sbarre in realtà sono un po’ sporgenti rispetto alla finestra, come una piccola gabbia attaccata al muro. Heechul inizialmente aveva pensato che non sarebbe mai riuscito a passare  nella fessura di circa venti centimetri fra esse e il davanzale, ma adesso giurerebbe di poterci liberamente sgusciare attraverso, con un po’ d’impegno. Zoppica fino al letto e tira via il lenzuolo sgualcito.
Lo arrotola in diagonale, in modo che venga più lungo, e poi lo lega alle sbarre della finestra. Per assicurarsi che il nodo regga il suo peso (quale peso, poi? Trenta chili? Meglio essere prudenti comunque) stringe la presa il più possibile, il che lo lascia con il fiato corto. Guarda giù un’ultima volta, poi si arrampica sul davanzale e inizia a calarsi attraverso lo spazio fra la finestra e l’inferriata.
 
La Dottoressa stamattina se l’è presa più comoda del solito; il sabato sera lei e gli altri medici del laboratorio si attardano a bere alcool aggiornandosi sui progressi del regime e, quando non sono troppo stanchi, sui risultati delle loro ricerche.
Ieri la Dottoressa era particolarmente fiera; il nuovo virus che ha sviluppato, ha ucciso tutte le sue cavie tranne una. Certo, per avere un risultato efficacie al cento per cento, andava perfezionato e reso letale anche se somministrato in dosi minori, ma era piuttosto soddisfatta.
Tutti si erano complimentati, facendo battute su chi di loro alla fine avrebbe ucciso più Americani, o Russi.
Avevano riso, dopodiché si erano coricati per smaltire gli effetti dell’alcool.
Quando la Dottoressa si è svegliata stamattina, erano già le otto e mezza. Per tutto il tempo mentre mangiava e si vestiva, aveva pensato a Heechul, che oramai doveva essersi ripreso dai postumi del virus.
Il poterlo incontrare la mandava in fibrillazione, tanto che si era quasi dimenticata di mescolare la droga al riso, prima di uscire di casa.
Con una mano regge la ciotola nuova, con l’altra gira la chiave nella toppa e spalanca la porta.
Quello che vede la fa gridare di rabbia, un urlo raccapricciante, da animale. Lancia il riso contro la parete opposta con una forza tale che la porcellana va in frantumi che schizzano da tutte le parti. Gridando furiosamente, si scaglia contro il letto vuoto di Heechul e inizia a prendere materasso e cuscino a pugni, a morsi a unghiate. Rovescia il letto di ferro battuto con una sola, furiosa spinta e inizia a prenderlo a calci.
Delle mani la afferrano, lei si divincola, lotta, ma alla fine viene trattenuta braccia e piedi. Qualcuno le sta dicendo qualcosa, ma lei non sente, continua a gridare anche mentre viene trascinata fuori dalla stanza.
Poi tace di colpo; prima di chiudere gli occhi vede una siringa conficcata nella coscia; L’aveva lasciata sul tavolinetto fuori, e dev’esserci andata contro mentre tentava di divincolarsi.
Sente delle voci rimbombare in sottofondo, come se le parlassero da una palla di cristallo: «Che roba è questa?»
«HD301G?»
«Sarà un tranquillante?»
No, pensa la Dottoressa poco prima di chiudere gli occhi definitivamente, non è un tranquillante. Era l’ultima dose del suo virus letale.


 
Soon Mi odia il campo di Jeol Mang.
Prima ragione; non è Seul.
Assomiglia molto al posto in cui viveva lei, su al Nord. Montagne, campagna, fiumi, e poi l’altopiano brullo su cui sorge il campo. Fa sempre freddo, piove in continuazione tanto che ha sempre i pantaloni perennemente  infangati, il cibo fa schifo, i letti sono scomodi, e, quel che è peggio, scendendo dal furgone, appena arrivata, ha sentito in pancia il subbuglio di chi sta rivivendo il proprio passato e ha la certezza che sarà anche il suo futuro.
Peccato, aveva pensato ancora una volta, peccato che anche Seul debba vivere tutto questo, un giorno o l’altro.
Seconda ragione; Jeol Mang puzza.
Puzza tremendamente. Non solo di fango, di cibo puzzolente, di cadaveri ammucchiati (sì, Soon Mi ha intravisto una sagoma di cadaveri ammassati l’uno sull’altro poco fuori dai cancelli a nord, ma fortunatamente erano stati richiusi subito prima che potesse scorgerne i particolari), neppure l’odore della spazzatura o i fumi delle fornaci in cui i prigionieri lavorano notte e giorno per costruire chissà quali armi.
No. A quegli odori prima o poi si fa l’abitudine.
L’odore peggiore, è l’odore delle lacrime. Soon Mi è lì da meno di due settimane, ma è ormai convinta che quella puzza siano lacrime non versate che stagnano negli occhi della gente.
Non è più acqua e sale, è acqua e paura, rabbia, disprezzo, solitudine, disperazione. E’ acqua e sentimenti.
Guardando i volti della gente, pensa che non devono essere vivi, o quantomeno, non umani. Ecco perché non piangono più. Hanno fatto scivolare tutti i loro sentimenti nelle lacrime che ora stanno lì a marcire, scavando loro gli occhi e le guance, seccandogli le braccia.
E’ come se nessuno vedesse dove cammina, nessuno ascoltasse ciò che sente. Gli sguardi scivolano via come sanguisughe che si nascondono sotto massi melmosi.
Che schifo, pensa Soon Mi, vorrei che morissero tutti pur di non vederli stare così.
Terza ragione; qui non c’è niente da fare. L’hanno chiamata da Seul perché servivano mani piccole nei magazzini per rovistare fra le apparecchiature elettroniche confiscate e separare i veri tipi di metalli.
Lei e Min Ji, insieme ad altre tre ragazze, passano le giornate in silenzio in una stanzina dei magazzini a smontare cellulari, ipod e televisori e a pesare sacchetti pieni di fili di rame, argento, oro e così via.
Non tutti ovviamente. La sera del primo giorno avevano deciso all’unanimità di nascondere quanti più ipod e telefoni possibili nelle loro sacche non appena le altre tre erano distratte, e così avevano fatto; adesso, sotto il materasso, ne avevano circa una ventina. La notte sgattaiolavano fuori in silenzio e passavano dieci, venti, a volte anche quaranta minuti cercando di far funzionare quegli aggeggi con cui avevano poca dimestichezza, ma che avevano visto spesso usare nella capitale, e ascoltavano musica che non conoscevano ancora. Se erano fortunate, trovavano che uno di quei dispositivi aveva canzoni dei Super Junior che loro non conoscevano.
In quei momenti ridacchiavano piano, e poi tacevano, ascoltando le canzoni con il fiato sospeso. A volte avevano pianto.
Quelli erano gli unici momenti a Jeol Mang in cui le due tornavano ad essere le amiche di sempre, unite dal loro segreto.
Poi tornavano a letto e quando riaprivano gli occhi tornavano ai magazzini. E per il resto della giornata continuavano a separare fili di rame, argento, oro e così via.

Anche oggi lei e Min Ji sono sedute sul pavimento freddo della stanzina del magazzino, con le altre tre ragazze. Armeggiano tutte con forbici e cesoie, strappano le parti di metallo e le gettano nei vari sacchi al centro della stanza.
«Il sacco del rame è pieno, va pesato», dice la più grande delle tre ragazze. Min Ji non la sente, troppo assorta da un bullone particolarmente difficile da svitare. Soon Mi si alza con un sospiro, «Vado io», prende il sacco del rame, se lo carica in spalla sbuffando per lo sforzo e poi si avvia fuori dalla stanza lentamente.
Al centro dei magazzini, fra soldati e fantasmi indaffarati a portare carriole piene zeppe di roba, c’è una grande bilancia arrugginita su cui Soon Mi scarica il suo sacco, lo chiude e poi prende nota davanti del numero indicato dall’ago e scrive “RAME”.
Adesso deve trovare solo la persona responsabile del… eccolo!
Uno dei fantasmi sta trasportando una carriola piena di sacchi di metallo.
«Da questa parte” C’è un altro sacco!», gli grida. Il fantasma inverte la marcia e barcolla verso di lei.
Strano, pensa Soon Mi, che aria familiare. Lui si avvicina sempre di più.
Quando le arriva abbastanza vicino da poterlo vedere in faccia e tende le braccia per passare il pesante sacco dalla bilancia alla carriola, a Soon Mi prende un capogiro.
No, pensa. Mi sto sicuramente sbagliando.
Il fantasma passa oltre, senza fermarsi neanche davanti al suo sguardo incredulo. Soon mi si deve appoggiare al piatto della bilancia il cui ago schizza in avanti, poi subito indietro dal momento che le ginocchia le cedono e scivola giù carponi, mentre il riso acquoso della colazione le risale su per la gola. Si porta una mano alla bocca; è troppo tardi.
Il sangue le è sparito dalle vene freddandole mani e piedi nel giro di pochi istanti. Ha sentito lo stomaco chiudersi, come se l’orrore provato arrivata a Jeol Mang si fosse moltiplicato per dieci e le fosse caduto addosso dal quinto piano di un palazzo. Le ha schiacciato le ossa.
Qualcuno le corre incontro e la scuote, ma lei non ci vede più, non ci sente più.
Non è possibile, continua a ripetersi, incapace di respirare. Tende una mano verso il buio, vorrebbe supplicare a qualcuno di darle dell’ossigeno, poi un punto della testa le lancia una fitta, come se l’avessero colpita con una bastonata, chiude gli occhi e rilassa i muscoli.
 
Quando si sveglia è nell’infermeria del campo, su un letto duro e freddo con la vernice sbucciata. Fuori ha iniziato a piovere. E’ sola, segno evidente che Min Ji sta ancora lavorando.
Constata di essere ancora viva, e l’unica presenza nella stanza. Lo shock dev’essere stato tale da procurarle un mancamento, una perdita dei sensi. E’ contenta che Min Ji non fosse stata lì.
Sente di non stare ancora bene. L’uomo che ha visto prima è (o quel che resta) senza ombra di dubbio Leeteuk. Ricorda di aver guardato la sua foto migliaia di volte, di aver scritto il suo nome ovunque, di aver pensato che un po’ lo amava; non sapeva niente di lui, ma per lei rappresentava un’ideale irraggiungibile, un essere umano dotato di sentimenti meravigliosi. Aveva desiderato incontrarlo almeno una volta nei suoi sogni.
Scivola giù dalle coperte e si avvicina alla finestra, guardando le gocce d’acqua battere contro il vetro sporco.  Fuori tutto è avvolto da una lieve foschia.
Grazie cielo, di piangere al posto mio. Anch’io altrimenti diventerei uno di quei fantasmi puzzolenti, che non liberano il loro dolore.
Deve dirlo a Min Ji. Devono tirarlo fuori di lì. E poi deve anche metterci un taglio. Sente che se non lo farà lei per prima, non si ribellerà nessuno.
E’ stanca, deve far conoscere a tutti ciò che la dittatura gli ha rubato: la libertà non è un concetto astratto, è la capacità di scegliere di amare.
 


Hong corre lungo i tunnel delle rotaie. E’ notte fonda, tutti dovrebbero dormire. Solo lui, la mappa alla mano, illumina il percorso con una torcia e corre a perdifiato.
Ha bisogno di Bani, e sa di poterla trovare solamente la notte, quando non esce per andare a scuola.
Ha bisogno di lei, perché è l’unica che può uscire fuori dal rifugio durante il giorno.
Hanno poco tempo, le provviste stanno finendo, non possono più derubare i negozi la notte, è troppo rischioso.
Quando giunge alla stazione della metro in cui dovrebbe trovare Bani, diminuisce l’intensità della torcia e inizia a passarla sui volti degli addormentati. La trova.
Lei dorme, e ha il viso bellissimo di un angelo. Le si avvicina piano e le scuote una spalla.
Apre gli occhi, gli sorride.
Il cuore di Hong manca un battito, ma lui lo ignora.
«Andiamo fuori», le bisbiglia e poi le tende una mano.
  
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