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Autore: Mia    06/01/2005    6 recensioni
Episodi riguardanti i miei personaggi preferiti: i Malandrini. Sono delle piccole storie dedicate a loro: voi leggete e poi ditemi che cosa ne pensate.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: I Malandrini
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La trasformazione

 

Nota:

IMPORTANTE: La storia che state per leggere è particolare.

Infatti, ho deciso di narrarla sia in terza persona singolare sia in prima.

Il motivo è semplice: ognuno di noi, per immedesimarsi in una storia, ha bisogno che essa sia narrata in modo diverso, ed io in questo modo offro entrambe le possibilità.

Voi scegliete una delle due oppure leggetele tutte e due (almeno io vi consiglierei di leggerle tutte e due, poiché sensibilmente diverse).

In ogni caso adesso posso solo augurarvi buona lettura.

 

Era il quinto anno a Hogwarts.

Avevo quindici anni allora.

Da quando ero arrivato in quella scuola, una volta al mese, dovevo allontanarmi dal castello per trasformarmi.

Il mio primo anno fu terribile.

Mi chiusi in me stesso fin dall’inizio: avevo paura che, se avessi trovato degli amici, essi mi avrebbero abbandonato, una volta che avessero scoperto chi ero veramente.

Nessun genitore avrebbe mai voluto che suo figlio entrasse a contatto con un lupo mannaro…

Ma le cose andarono contro ogni mia aspettativa: trovai tre amici, tre grandi amici.

Sirius Black, Peter Minus e James Potter.

Fin dal primo giorno di scuola essi si dimostrarono amichevoli nei miei confronti e già il secondo anno eravamo diventati inseparabili.

Nonostante questo però, non dissi mai loro che ero un lupo mannaro: la paura dell’abbandono era ancora troppo grande.

Però questo mio nascondere la cosa non servì a nulla, poiché lo scoprirono da soli verso la fine del primo anno.

Malgrado questo, non mi abbandonarono.

Penso che non sarò loro mai abbastanza grato per questa dimostrazione di amicizia.

Ad ogni modo, quell’anno James, Sirius e Peter erano riusciti in un’impresa che aveva reso le mie trasformazioni molto più sopportabili: erano diventati Animaghi.

Erano cioè in grado di trasformarsi in un animale a loro piacimento.

Da alcuni mesi, quando io mi trasformavo, loro mi seguivano e si trasformavano a loro volta.

Naturalmente tutto questo era avvenuto alle spalle di Silente.

Lui non ne sapeva niente e nessuno di noi aveva intenzione di farglielo sapere.

Eravamo giovani e spensierati: perché sprecare una situazione che avrebbe potuto aprirci così tante possibilità?

Così avevamo continuato con le nostre uscite, fino a quella sera.

Sì, quella sera ero solo.

Ero stato io a chieder loro di non venire con me e poi, in ogni caso, essi non sarebbero potuti venire ugualmente, quella volta.

Madama Chips mi stava accompagnando fino al Platano Picchiatore.

Si guardò attorno con circospezione e poi mi fece cenno di seguirla.

Io, al contrario di lei, mi mossi lentamente.

Sapevo che a quell’ora nessuno studente si trovava nella Sala d’Ingresso e perciò nessuno avrebbe potuto vedermi.

Era primavera: l’anno scolastico era circa a metà.

L’erba attorno a Hogwarts era bagnata di rugiada: riuscivo a sentirne l’odore intenso e rilassante.

-Sbrigati Lupin!- m’incalzò Madama Chips, con un filo di voce, ricominciando a guardarsi attorno con nervosismo.

Io scrollai le spalle e la raggiunsi, sempre però con calma.

La luna non era ancora sorta, ed il sole non era ancora tramontato del tutto.

Arrivammo davanti al Platano Picchiatore.

Era un albero imponente con potenti rami in grado di muoversi come braccia umane, ed io posso assicurare che essere colpiti da uno di essi fa molto male.

Il nodo sul tronco fu premuto, i rami si arrestarono ed io entrai nel tunnel.

-Lupin, mi raccomando non…-

-Fermarti fino a che non sarai alla fine del tunnel e sbarra le porte: non possiamo correre il rischio che tu morda qualcuno.- completai io con voce atona e piatta.

-Lo so bene, non c’è bisogno di ripetermelo ogni volta.- quando pronunciai questa frase, in aggiunta alla prima, la mia voce s’incrinò contro la mia volontà, assumendo un tono leggermente spazientito.

Madama Chips s’irrigidì:- Non c’è neppure bisogno che tu mi risponda così, signor Lupin. Io ti dico queste cose per un motivo e lo sai che il preside la pensa allo stesso modo…-

-Lo so, ho capito!- questa volta non cercai di reprimere la mia irritazione.

-Remus John Lupin! Mi sembra che tu non stia prendendo questa cosa con la giusta serietà, o mi sbaglio?-

Avrei voluto ribattere, ma cominciavo a sentirmi stanco e debole, perciò decisi di troncarla lì.

-Mi perdoni Madama. Lei ha ragione. Non accadrà più.-

-Così va meglio. Adesso va’, presto, il sole sta tramontando!-

Io le voltai le spalle e cominciai a risalire il tunnel.

Quella sera ero particolarmente nervoso, e questo mio stato d’animo si era riversato involontariamente su Madama Chips.

Il motivo di questa mia inquietudine era una cosa accaduta un mese prima.

Infatti, durante una delle mie uscite con James, Sirius e Peter, avevo rischiato di mordere una persona.

Inizialmente ci avevo riso sopra assieme agli altri, ma quel giorno avevo bisogno di rifletterci su.

Ma quando?

Tra poco mi sarei trasformato ed allora avrei perso ogni mio istinto umano e perciò quando ci avrei pensato?

Forse la verità era che non avevo sensi di colpa…?

Che il mio unico problema fosse quello di non aver la morte di nessuno sulla coscienza…?

Che sia stato quello il motivo per cui decisi di trasformarmi da solo quella notte e di non uscire dalla Stamberga Strillante?

Prima di poter trovare una risposta a quelle domande, giunsi alla fine del tunnel e mi ritrovai all’interno di quella casa che gli abitanti di Hogsmeade chiamavano Stamberga Strillante.

Essi credevano che le urla che provenivano da essa di notte fossero causate dagli spettri, ma in realtà esse erano opera mia.

Quelle grida appartenevano a me quando mi trasformavo in un lupo mannaro.

Arrivai in una camera da letto.

Era particolarmente polverosa e nell’aria c’era un grande odore di muffa.

Mi lasciai cadere sul letto a baldacchino.

Un tempo esso avrebbe dovuto essere rosso, ma ora la polvere gli aveva attribuito delle strane sfumature grigiastre.

Quando il mio corpo venne a contatto con la superficie del letto, una gran nuvola di polvere si sollevò.

Non vi badai, ma cominciai a sbottonarmi la camicia.

Apparteneva all’uniforme della scuola e non potevo permettermi di romperla.

Una volta finita questa operazione, la lasciai cadere su di una sedia vuota accanto al letto, una delle poche ancora intatte.

Fortunatamente non era inverno: da quelle terribili fessure nel legno, durante le stagioni fredde, entravano spifferi gelati che rendevano ancor più terribile la mia agonia.

Mi levai i pantaloni: anche quelli appartenevano all’uniforme scolastica.

Ma perché non avevo avuto il tempo di togliermela…?

Un sorriso apparve sulle mie labbra.

Ora ricordavo.

Io, James, Peter e Sirius avevamo trascorso tutta la serata in punizione.

Sì, in punizione.

C’era, infatti, venuta la brillante idea di aggiungere uno scarafaggio alla pozione di Severus Piton, il quale era al nostro stesso tavolo.

Una vola provata quella pozione, Piton era stato assalito da un disturbo piuttosto fastidioso alla pancia…se non mi sbaglio aveva trascorso tutta quella giornata in bagno, suscitando un irrefrenabile ed incontrollabile eccesso di risate in tutti noi, ma particolarmente in Sirius.

Comunque, questo scherzo ci costò una punizione.

Noi eravamo gli unici ad essere puniti sempre in gruppo.

Ogni volta che uno di noi combinava qualche cosa era, secondo i professori, colpa di tutti e quattro.

Il che spesso era vero, ma mi sono ritrovato a pulire vasi da notte e a lucidare le coppe nella Sala dei Trofei anche così tante volte ingiustamente, che ora ne ho perso il conto.

Ad ogni modo, dimentichi della luna piena, eravamo rimasti nello scantinato di pozioni per tutte le ore successive, aggiungendo composti di nostra produzione ai barattoli dall’aria macabra che occupavano gli scaffali della cantina.

Se non ricordo male, noi stessi restammo coinvolti nell’epidemia di non mi ricordo neanche più quale strana malattia, che colpì tutta la scuola una settimana dopo.

In ogni caso, Madama Chips aveva impiegato un bel po’di tempo a trovarmi per portarmi al Platano Picchiatore.

Quando ebbi finito di svestirmi, rimasi seduto su quel letto con addosso praticamente nulla.

Mi sentivo sempre più debole, il che significava che la luna stava salendo sempre di più e sempre più in alto nel cielo.

Presto mi sarei trasformato.

 

***

Attesi.

Attesi ancora, fino a che non vidi filtrare della luce da una fessura delle travi che servivano a sbarrare le finestre.

Era una luce argentea e fredda.

Un brivido mi scosse, arrampicandosi su per la mia schiena.

Tremai.

Mi alzai dal letto e mi misi al centro della stanza.

Presto tutto sarebbe incominciato.

Guardai la mia immagine riflessa nei resti di uno specchio appeso alla parete di fronte.

Ero pallidissimo e smunto.

Se non avessi saputo che quello che stavo osservando nello specchio ero io, avrei scambiato quell’immagine per un fantasma.

Fu in quel momento che un dolore lancinante mi pervase il braccio sinistro, facendomi piegare.

Strinsi il braccio con la mano destra e lo premetti con forza in un inutile tentativo istintivo di alleviare il dolore.

Quello era il segno dell’inizio della mia trasformazione.

Il punto in cui ero stato morso, ogni volta, era il primo ad animarsi, come risvegliato dal solitario raggio di luna che filtrava dalle fessure della finestra.

Il mio braccio sinistro cominciò a ricoprirsi di un folto pelame color biondo scuro.

Il dolore stava diventando insopportabile.

Strinsi i denti per non urlare.

Gradualmente anche il resto del mio corpo si stava ricoprendo di pelliccia.

Ognuno di quei peli sottili aveva, sulla mia pelle, l’effetto di una lama acuminata che la lacerasse dall’interno fino ad uscirne dalla parte opposta in un minuscolo rivolo di sangue solido e morbido di colore biondo scuro.

Infine non riuscii più a trattenermi: urlai, ma non sentii nella mia voce più nulla di umano.

Il mio grido assomigliava molto più ad un latrato o ad un ululato che non ad un urlo.

Le mie mani ed i miei piedi stavano perdendo il loro antropomorfismo, assomigliando sempre di più a zampe.

Lentamente e dolorosamente la mia spina dorsale stava mutando forma assieme alle mie ossa.

La posizione eretta mi risultava difficile da mantenere.

Con lentezza mi accovacciai, in modo da attutire il dolore alla schiena dovuto a quella posizione eretta: innaturale per un animale come il lupo.

Oltre alla spina dorsale e a tutte le mie vertebre, anche le ossa del cranio mutarono aspetto.

Cominciarono ad allungarsi tormentosamente.

Il loro mutare non mi permetteva neppure di sfogare tutto il mio strazio con un urlo.

Solo quando esse finirono la loro crudele crescita, io potei gridare, ma dalle mie fauci, poiché solo così si potevano definire ora, non uscì altro che un terrificante ululato.

La cosa più umiliante e dolorosa veniva per ultima.

All’altezza dell’osso sacro mi sentii crescere una coda.

Era lunga e folta, dello stesso colore del resto della mia pelliccia, ma proprio queste sue caratteristiche ne rendevano insopportabile la crescita.

Terribili ululati di dolore squarciarono l’aria.

Dopo questo io non ricordo più nulla, ma Sirius, James e Peter mi riferirono in più occasioni una cosa che mi lascia ancora oggi sorpreso.

Essi mi dicevano: “Ogni volta che ti trasformi i tuoi occhi, mantengono un’espressione di dolore e sofferenza così umani che, se qualcuno potesse vedere solo quelli, mai ti potrebbe scambiare per un lupo mannaro”.

Che allora il lupo mannaro non perdesse del tutto il suo lato umano…?

Non sapei dire, ma è sicuro che i miei pensieri da lupo non avevano nulla di umano.

Finita la trasformazione, ogni pensiero proprio della natura umana svaniva dalla mia mente, lasciando posto alla fame e al desiderio di mordere.

Non potendo però uscire dalla Stamberga, cominciavo a mordere e graffiare me stesso.

Così sempre avevo fatto, fin dalla tenera età di cinque anni, e sempre avrei continuato a fare.

Quella sera, i miei sensi di colpa (sempre che ne avessi) svanirono, e la volta dopo, quando tutti e quattro uscimmo dalla Stamberga e ci recammo a Hogsmeade io rischiai di mordere un’altra persona.

Quando però questo mi fu riferito, ne risi assieme a James, Sirius e Peter.

Eravamo giovani e sciocchi ed ancora incoscienti.

Ad ogni modo queste erano le mie trasformazioni.

Terribili e dolorose all’inverosimile, ma da alcuni mesi a quella parte esse erano rese sopportabili dalla presenza dei miei amici.

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Era il quinto anno a Hogwarts.

Remus Lupin aveva quindici anni allora.

Da quando era arrivato in quella scuola, una volta al mese, doveva allontanarsi dal castello per trasformarsi.

Il suo primo anno fu terribile, se lo ricordava bene.

Si chiuse in me stesso fin dall’inizio: aveva paura che, se avesse trovato degli amici, essi lo avrebbero abbandonato, una volta che avessero scoperto chi era veramente Remus J. Lupin, quel ragazzino così dolce, studioso e gentile.

Nessun genitore avrebbe mai voluto che suo figlio entrasse a contatto con un lupo mannaro, poiché questo lui era.

Ma le cose andarono contro ogni sua aspettativa: trovò tre amici, tre grandi amici.

Sirius Black, Peter Minus e James Potter.

Fin dal primo giorno di scuola essi si dimostrarono amichevoli nei suoi confronti e già il secondo anno i quattro erano diventati inseparabili.

Nonostante questo però, Remus non disse mai loro che era un lupo mannaro: la paura dell’abbandono era ancora troppo grande.

Però questo suo nascondere la cosa non servì a nulla, poiché lo scoprirono da soli verso la fine del primo anno.

Malgrado questo, non lo abbandonarono.

Spesso egli pensa che non sarà loro mai abbastanza grato per questa dimostrazione di amicizia.

Ad ogni modo, quell’anno James, Sirius e Peter erano riusciti in un’impresa che aveva reso le trasformazioni di Remus molto più sopportabili: erano diventati Animaghi.

Erano cioè in grado di trasformarsi in un animale a loro piacimento.

Da alcuni mesi, quando egli si trasformava in un lupo mannaro, loro lo seguivano e si trasformavano a loro volta.

Naturalmente tutto questo era avvenuto alle spalle di Silente.

Lui non ne sapeva niente e nessuno dei ragazzi aveva intenzione di farglielo sapere.

Erano giovani e spensierati: perché sprecare una situazione che avrebbe potuto aprir loro così tante possibilità?

Così avevano continuato con le loro uscite, fino a quella sera.

Sì, quella sera Remus era solo.

Era stato lui stesso a chiedere ai suoi amici di non seguirlo e poi, in ogni caso, essi non sarebbero potuti venire ugualmente, quella volta.

Madama Chips stava accompagnando Remus fino al Platano Picchiatore.

La donna si guardò attorno con circospezione e poi fece cenno al ragazzo di seguirla.

Egli, al contrario della sua accompagnatrice, si mosse lentamente.

Sapeva che a quell’ora nessuno studente si trovava nella Sala d’Ingresso e perciò nessuno avrebbe potuto vederlo.

Era primavera e l’anno scolastico era circa a metà.

L’erba attorno a Hogwarts era bagnata di rugiada: tanto che Remus riusciva a sentirne l’odore intenso e rilassante.

-Sbrigati Lupin!- lo incalzò Madama Chips, con un filo di voce, ricominciando a guardarsi attorno con nervosismo.

Il giovane scrollò le spalle e la raggiunse, sempre però con molta calma.

La luna non era ancora sorta, ed il sole non era ancora tramontato del tutto.

Arrivarono davanti al Platano Picchiatore.

Era un albero imponente con potenti rami in grado di muoversi come braccia umane.

Molti studenti, fra cui lo stesso Remus, avevano sperimentato una delle frustate di quei rami sulla propria pelle e nessuno aveva più voluto farlo.

Il nodo sul tronco fu premuto, i rami si arrestarono ed il ragazzo entrò nel tunnel.

-Lupin, mi raccomando non…-

-Fermarti fino a che non sarai alla fine del tunnel e sbarra le porte: non possiamo correre il rischio che tu morda qualcuno.- completò lui con voce atona e piatta.

-Lo so bene, non c’è bisogno di ripetermelo ogni volta.- quando Remus pronunciò questa frase, in aggiunta alla prima, la sua voce si incrinò contro la sua volontà, assumendo un tono leggermente spazientito.

Madama Chips si irrigidì:- Non c’è neppure bisogno che tu mi risponda così, signor Lupin. Io ti dico queste cose per un motivo e lo sai che il preside la pensa allo stesso modo…-

-Lo so, ho capito!- questa volta il giovane non cercò di reprimere la sua irritazione.

-Remus John Lupin! Mi sembra che tu non stia prendendo questa cosa con la giusta serietà, o mi sbaglio?-

Egli avrebbe voluto ribattere, ma cominciava a sentirsi stanco e debole, perciò decise di troncarla lì.

-Mi perdoni Madama. Lei ha ragione. Non accadrà più.-

-Così va meglio. Adesso va’, presto, il sole sta tramontando!-

Egli le voltò le spalle e cominciò a risalire il tunnel.

Quella sera il ragazzo era particolarmente nervoso, e questo suo stato d’animo si era riversato involontariamente su Madama Chips.

Il motivo di questa sua inquietudine era una cosa accaduta un mese prima.

Infatti, durante una delle sue uscite con James, Sirius e Peter, aveva rischiato di mordere una persona.

Inizialmente ci aveva riso sopra assieme agli altri, ma quel giorno aveva bisogno di rifletterci su.

Ma quando lo avrebbe fatto?

Tra poco si sarebbe trasformato ed allora avrebbe perso ogni istinto umano e perciò quando ci avrebbe pensato?

Forse la verità, pensò, era che non aveva sensi di colpa?

Che il suo unico problema fosse quello di non aver la morte di nessuno sulla coscienza?

Che sia stato quello il motivo per cui decise di trasformarsi da solo quella notte e di non uscire dalla Stamberga Strillante?

Prima di poter trovare una risposta a quelle domande, giunse alla fine del tunnel e si ritrovò all’interno di quella casa che gli abitanti di Hogsmeade chiamavano Stamberga Strillante.

Essi credevano che le urla che provenivano da essa di notte fossero causate dagli spettri, ma in realtà esse erano opera di Remus.

Quelle grida appartenevano a lui quando si trasformava in un lupo mannaro.

Arrivò in una camera da letto.

Era particolarmente polverosa e nell’aria c’era un grande odore di muffa.

Si lasciò cadere sul letto a baldacchino.

Un tempo esso avrebbe dovuto essere rosso, ma ora la polvere gli aveva attribuito delle strane sfumature grigiastre.

Quando il suo corpo venne a contatto con la superficie del letto, una grande nuvola di polvere si sollevò.

Non vi badò, ma cominciò a sbottonarsi la camicia.

Apparteneva all’uniforme della scuola e non poteva permettersi di romperla.

Una volta finita questa operazione la lasciò cadere su di una sedia vuota accanto al letto, una delle poche ancora intatte.

Fortunatamente non era inverno: da quelle terribili fessure nel legno, durante le stagioni fredde, entravano spifferi gelati che rendevano ancor più terribile la sua agonia.

Si levò i pantaloni: anche quelli appartenevano all’uniforme scolastica.

Ma perché non aveva avuto il tempo di togliersela…?

Un sorriso apparve sulle labbra del ragazzo labbra quando se ne ricordò il motivo.

Lui, James, Peter e Sirius avevano trascorso tutta la serata in punizione.

Sì, in punizione.

Era, infatti, venuta loro la brillante idea di aggiungere uno scarafaggio alla pozione di Severus Piton, un loro compagno di classe della casa dei Serpeverde, il quale, quel giorno, era al loro stesso tavolo.

Una vola provata quella pozione, Piton era stato assalito da un disturbo piuttosto fastidioso alla pancia, il quale aveva fatto trascorrere a Piton tutta quella giornata in bagno, suscitando un irrefrenabile ed incontrollabile eccesso di risate in tutti e quattro i ragazzi, ma particolarmente in Sirius.

Comunque, questo scherzo costò loro una punizione.

Essi erano gli unici ad essere puniti sempre in gruppo.

Ogni volta che uno di loro combinava qualche cosa era, secondo i professori, colpa di tutti e quattro.

Il che spesso era vero, ma Remus, così come gli altri, si era ritrovato a pulire vasi da notte e a lucidare le coppe nella Sala dei Trofei così tante volte anche ingiustamente, che ora ne avevano perso il conto.

Ad ogni modo, dimentichi della luna piena, i quattro erano rimasti nello scantinato di pozioni per tutte le ore successive, aggiungendo composti di loro produzione ai barattoli dall’aria macabra che occupavano gli scaffali della cantina.

Le conseguenze di questo loro “divertente scherzo” le avevano sperimentate loro stessi restando coinvolti nell’epidemia di una particolare forma di diarrea, che colpì tutta la scuola una settimana dopo.

In ogni caso Madama Chips aveva impiegato un bel po’di tempo a trovare Remus per portarlo al Platano Picchiatore.

Quando il ragazzo ebbe finito di svestirsi, rimase seduto su quel letto con addosso praticamente nulla.

Si sentiva sempre più debole, il che significava che la luna stava salendo sempre di più e sempre più in alto nel cielo.

Presto si sarebbe trasformato.

 

***

Attese.

Attese ancora, fino a che non vide filtrare della luce da una fessura delle travi che servivano a sbarrare le finestre.

Era una luce argentea e fredda.

Un brivido lo scosse visibilmente, arrampicandosi su per la sua schiena.

Tremò.

Remus si alzò dal letto e si mise al centro della stanza.

Presto tutto sarebbe incominciato.

Guardò la sua immagine riflessa nei resti di uno specchio appeso alla parete di fronte.

Era pallidissimo e smunto.

Se non avesse saputo che quello che stava osservando nello specchio ero lui stesso, avrebbe potuto scambiare quell’immagine per un fantasma.

In quel momento qualche cosa suscitò in lui una strana reazione.

Si piegò di scatto, stringendo convulsamente il suo braccio sinistro.

Quello era il segno dell’inizio della sua trasformazione e lui lo sapeva fin troppo bene.

Il punto in cui era stato morso, ogni volta, era il primo ad animarsi, come risvegliato dal solitario raggio di luna che filtrava dalle fessure della finestra.

Il braccio sinistro del ragazzo cominciò a ricoprirsi di un pelo di color biondo scuro a vista d’occhio.

Si poteva notare il dolore sul bel volto del ragazzo.

Strinse i denti per non urlare.

Gradualmente anche il resto del suo corpo si stava ricoprendo di pelliccia.

Ognuno di quei peli sottili sembrava avere, sulla pelle di Remus, un effetto molto doloroso, tanto da farlo tremare spasmodicamente, inoltre il suo volto si deformava in espressioni di tormento ed agonia.

Infine non riuscì più a trattenersi: urlò, ma non sentì nella propria voce nulla di umano.

Il suo grido assomigliava molto più ad un latrato o ad un ululato che non ad un urlo.

Le sue mani ed i suoi piedi stavano perdendo il loro antropomorfismo, assomigliando sempre di più a zampe.

Lentamente la spina dorsale di Remus stava mutando forma assieme alle sue ossa.

La sua spina dorsale si stava accorciando ed incurvando in una linea sinuosa.

Le scapole erano ricoperte di pelo, ma si poteva scorgere un loro movimento morbido che aveva anche qualche cosa di sensualmente mortale.

Infatti, ricordava il movimento delle scapole della leonessa prima di attaccare una gazzella.

Il collo si allungò leggermente ed aumentò anche di diametro.

Gli omeri delle sue braccia si accorciarono notevolmente, mentre il radio e l’ulna di ciascun braccio subivano il procedimento inverso.

Anche le ossa delle gambe subirono un’incurvatura piuttosto innaturale per una gamba umana: la coscia si accorciò ed aumentò di volume, mentre la tibia si assottigliò parecchio fino a che non ne furono visibili le rientranze attraverso la pelle.

Causa tutti questi mutamenti, la posizione eretta cominciava a risultare, a Remus, difficile da mantenere.

Con lentezza egli si accovacciò, in modo da attutire il dolore alla schiena dovuto a quella posizione eretta: innaturale per un animale come il lupo.

Oltre alla spina dorsale e a tutte le vertebre, anche le ossa del cranio mutarono aspetto.

Cominciarono ad allungarsi tormentosamente.

Il loro mutare non permetteva al ragazzo neppure di sfogare tutto il suo strazio con un urlo.

Solo quando esse finirono la loro crudele crescita, egli poté gridare, ma dalle sue fauci, poiché solo così si potevano definire ora, non uscì altro che un terrificante ululato.

La cosa più umiliante e dolorosa della trasformazione veniva per ultima.

All’altezza dell’osso sacro Remus si sentì crescere una coda.

Era lunga e folta, dello stesso colore del resto della sua pelliccia, ma proprio queste sue caratteristiche ne rendevano insopportabile la crescita.

Terribili ululati di dolore squarciarono l’aria.

Dopo questo Remus non ricorda più nulla, ma Sirius, James e Peter gli riferirono in più occasioni una cosa che lo lascia ancora oggi sorpreso.

Essi gli dicevano: “Ogni volta che ti trasformi i tuoi occhi, mantengono un’espressione di dolore e sofferenza così umani che, se qualcuno potesse vedere solo quelli, mai ti potrebbe scambiare per un lupo mannaro”.

Che allora il lupo mannaro non perdesse del tutto il suo lato umano…?

Non avrebbe saputo dirlo con certezza, ma è sicuro che i suoi pensieri da lupo non avevano nulla di umano.

Finita la trasformazione, ogni pensiero proprio della natura umana svaniva dalla mente del ragazzo, lasciando posto alla fame e al desiderio di mordere.

Non potendo però uscire dalla Stamberga, egli cominciava a mordere e graffiare sé stesso.

Così sempre aveva fatto, fin dalla tenera età di cinque anni, e sempre avrebbe continuato a fare.

Quella sera, i suoi sensi di colpa (sempre che ne avesse) svanirono, e la volta dopo, quando tutti e quattro gli amici uscirono dalla Stamberga e si recarono a Hogsmeade, Remus rischiò di mordere un’altra persona.

Quando però questo gli fu riferito, ne rise assieme a James, Sirius e Peter.

Essi erano giovani e sciocchi ed ancora incoscienti.

Ad ogni modo, queste erano le trasformazioni di Remus J. Lupin e di qualsiasi altro lupo mannaro.

Terribili e dolorose all’inverosimile, ma da alcuni mesi a quella parte esse erano sopportate dal ragazzo grazie alla presenza dei suoi amici.

  
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