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Autore: Ljn    20/07/2014    2 recensioni
"C’era una volta, tanto, tanto tempo fa, un principe molto amato dalla sua gente per il suo cuore grande e l’animo gentile.
Il principe amava i suoi sudditi con la stessa intensità in cui era amato, ma aveva un amore particolare per una persona. Una persona molto speciale, che il principe aveva cara e custodiva vicino al proprio cuore esattamente come ella faceva segretamente con lui …"
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Buona domenica ^^
Per carità non svenite! E' solo che ho promesso un altro capitolo a Ryanforever, quindi sono qui ad adempiere al contratto.
E a chi non capisce dove voglio andare a parare con questa mia ultima follia, mi sento solo di dire "PPPPPPENNNNNNEEEEEEEhhh" (tradotto: Bene ^.^/ ) per una volta nessuno comprende! °risata demoniaca°
A tutti i due gatti che leggono, compreso il mio, auguro buona lettura
Baci!

__. Capitolo Quarto .__

La casa, all’altro capo del villaggio rurale ma tutto sommato molto grazioso che attraversammo completamente, era una bellissima, enorme casa giapponese, all’interno di un intero distretto di abitazioni antiche che avrebbe fatto la felicità di ogni storico dell’architettura. E probabilmente anche di una buona parte di storici e basta.

Il tutto, però, pareva un incrocio tra un diorama e una casa – estesa a quartiere - degli orrori, così tetro e solitario e silenzioso e tetro e morto e buio e TETRO e cimiteriale … Ho già detto che era tetro? Beh. Sembrava uscito come il suo proprietario da un film dell’orrore.

- Com’è che l’erba non è nera? Per principio i film dell’orrore dovrebbero essere in bianco e nero. – non che si vedesse comunque molto, il verde brillante dell’erba, dato che ormai la sera era avanzata e il buio autunnale aveva incupito ancora di più il distretto. Però io ero irritata, sudata e stanca. Le scarpe da “lontano dalla civiltà” mi facevano male. E iniziavo a pentirmi di non aver dormito in macchina.

Il vampiro non si degnò neppure di guardarmi male, ovviamente. Si limitò ad entrare e togliersi le scarpe. Poi, mentre io mi toglievo le mie, si impossessò della mia valigia e iniziò a percorrere a passo spedito il corridoio verso l’interno della casa.

- Ehi! Aspettami!

Lui era già scomparso dentro una stanza.

Sbuffai, e mi ripromisi di farmi pagare tre volte l’onorario dal maledetto uomo che mi aveva messa in quella situazione. Sistemai le mie scarpe vicino a quelle del padrone di casa, prendendo nota distrattamente dell’assenza di qualsiasi indicazione ci fosse qualcuno, oltre a noi, che abitava QUELLA particolare casa degli orrori, e superai diversi ambienti chiusi da fusuma prima di arrivare all’unico aperto.

Dentro la stanza il mio grazioso ospite non c’era. Ma la valigia che aveva rifiutato di portare per la maggior parte della strada, sì. Come pure un futon pulito.

Mi chiusi il pannello alle spalle, mi massaggiai il collo stanco, e mollai la borsa accanto al mio bagaglio, sul tatami prezioso che ricopriva il pavimento. Non ne avevo mai visto di così bello.

- Chissà se in questo residuato storico esiste l’acqua corrente? – avevo voglia di una doccia. Di una cena in un ristorante a cinque stelle, di un bastardo che mi coccolasse e di un letto dove giocare con lui e poi dormire fino al pomeriggio successivo. Non credevo però che i miei desideri sarebbero stati soddisfatti, a meno che non chiudessi un occhio sull’identità del bastardo che mi ero immaginata. E che costui fosse disponibile a coccolarmi.

Avevo la sensazione che avrebbe sentito più propensione al mio omicidio, però.

- Esci sull’engawa e segui il sentiero del giardino. Troverai il bagno grande.

Strillai alla voce improvvisa che si era intromessa nelle mie considerazioni, e mi girai nella direzione del suono – nonostante tutto – gradevole che aveva prodotto.

Lui mi stava guardando con condiscendenza.

- La cucina è in fondo al corridoio, sulla destra. Io mangio a mezzogiorno e alle diciannove e trenta. Solo. Perciò se proprio devi, mangia in altri orari.

Poi, mentre io boccheggiavo sconvolta dal suo rude comportamento, girò i tacchi e se ne andò.

Gli corsi dietro e, mentre lui si allontanava lungo il corridoio che mi aveva indicato, gli sibilai contro quello che pensavo di lui.

Davanti all’ultimo fusuma sulla sinistra, lui si fermò, si voltò verso il pannello scorrevole, vi mise una mano sopra e replicò senza guardarmi. – Puoi sempre tornare a dormire in macchina, se non trovi di tuo gradimento la mia ospitalità. Comunque, prima che questa storia finisca ti pentirai di essermi venuta dietro. – poi si girò di un quarto verso di me, e fece uno dei più spaventosi e gelidi sorrisi che mi fosse capitato di vedere. – Benvenuta a Konoha, Sakura.

Mi lasciò così. A bocca aperta, in una casa sconosciuta. Da sola con me stessa.

- Beh … se non altro ho trovato la maledetta città. – mi consolai. Poi ricordai la parte fondamentale del mio attuale problema: - E lui non è un vampiro assassino.

Al massimo poteva spacciarsi per vampiro sensitivo, dato che conosceva il mio nome.

Ma i sensitivi – vampiri o meno - che avevano una vista acuta e sbirciavano sulle targhette delle valigie i nomi degli spettatori a cui leggere il futuro, erano notoriamente NON assassini. Al massimo truffatori, ed in fondo, non era un crimine così grave essere dei buoni osservatori.

Quindi mi misi a tacere gli ultimi dubbi che mi rimanevano e disfai la valigia, preparai il futon e poi occhieggiai l’orologio sul telefono, l’unica funzione ancora utile della scatoletta silenziosa a parte la sveglia. Sempre che non volessi deliziarmi con i giochi dell’aggeggio per passare il tempo, ovvio.

L’ora in cui lo stronzo mi aveva detto di non disturbarlo era passata da un pezzo, perciò mi ritenni in diritto di utilizzare la cucina, e mi ci diressi. Facendo assurgere la sorpresa iniziale dovuta al suo arredamento moderno a vera e propria incredulità, quando trovai ad aspettarmi sul tavolo apparecchiato una generosa porzione di cibo, pronto per essere consumato.

E siccome la mia politica è sempre stata di non sputare su di un pasto offerto senza secondi fini da bastardi potenzialmente criminali, mormorai un ringraziamento e mangiai.

Quindi rimuginai sugli ultimi eventi. Forse il soggiorno non sarebbe stato poi così tragico.

Era tutto ottimo.

Anzi.

Se il telefono avesse ritrovato la connessione alla civiltà, sarebbe potuta passare come vacanza alle terme, chiosai appagata una volta scoperto la stanza da bagno più meravigliosa che avessi mai visto in vita mia.

Mentre mi beavo del calore accogliente del futon, benvenuto dopo l’aria frizzante di inizio autunno, mi ripromisi - col cuore più leggero di quanto non avessi piacere di ammettere a me stessa da quando la macchina mi aveva mollata - di inaugurarlo come prima cosa la mattina successiva.

 

Non avendo ricevuto “istruzioni” per la colazione, il mattino dopo mi feci l’agognato bagno, caldo e rilassante, che sciolse buona parte della mia frustrazione passata, e poi andai in cucina dove avevo già individuato la disposizione delle cose che mi sarebbero servite per il primo pasto della giornata.

Supponevo ci dovesse essere una cameriera, da qualche parte, che puliva e suppliva alla cafoneria del proprietario della casa, ma non l’avevo ancora incrociata. Speravo non se la sarebbe presa con me, se mi permettevo di toccare la sua cucina in sua assenza.

Non avendo trovato il caffè, mi preparai una bella caraffa di tè per iniziare la giornata, accompagnata da dei piccoli deliziosi pancake* che avevo imparato a cucinare in America. Gli anni al seguito dei miei genitori, tra svariate capitali occidentali, mi avevano fatto prendere l’abitudine ad una colazione non tradizionale. Non mi dispiaceva la colazione giapponese, questo era ovvio, soprattutto quando era un certo idiota a cucinarmela dopo una appagante nottata di sforzi piacevoli, ma visto che potevo scegliere e la cucina era ben fornita, optai con gioia  per l’abitudine domenicale. Con la leggera variazione del tè anziché del caffè.

Chiariamoci. Io vivo di caffeina. Ma il tè della casa era un miracolo per le papille. Giuro. E per questo, valeva la pena di sacrificare la caffeina per la teina, una volta tanto.

Tanto che tirai fuori la mia borraccia da campeggio – che mi portavo sempre dietro quando visitavo luoghi semi selvaggi dove trovare una buona acqua minerale era una scommessa contro l’epatite* – e la riempii della bevanda degli Dei che avevo appena scoperto di adorare.

Dopo di che, pronta per le ricerche e senza essere stata seccata dalla presenza esteticamente appagante ma fisicamente irritante dell’aspirante vampiro, che per forza di cose doveva essere chiuso nella sua bara a quell’ora del giorno, uscii alla scoperta della città divora anime. Famosa e famigerata all’esterno, al punto che nessuno sapeva dove fosse.

Mi domandai se nella mia ricerca, non avessi valicato senza accorgermene una montagna, cambiando regione. Forse era per questo che i villici che me ne avevo incontrato ne avevano così timore. Magari in passato era una terra nemica, quella che ora stavo calpestando. Avrei dovuto fare delle ricerche storiche, una volta riguadagnata la connessione ad internet.

Decisi per prima cosa di esplorare i dintorni e socializzare, per inquadrare il posto prima di indagare sulla sua storia. Sempre meglio avere una buona ambientazione, prima di partire con i dettagli più noiosi. Anche in una fredda relazione di ricerca.

 

Scoprii, in quel primo giorno, una città … originale.

Piuttosto frequentata, nonostante la mia difficoltà a trovarla attraverso i satelliti e il web. Con un vivace mercato molto frequentato, e architetture dallo strano miscuglio di tradizionale ed eccentrico. Abitata da persone socievoli e curiose, ma non in modo invadente. Con ampi spazi verdi che contavano anche diversi campi di allenamento per chissà quale disciplina marziale, credo, dati gli attrezzi di legno che vi erano collocati. Dotata di diversi edifici pubblici tra i quali spiccavano l’ospedale e la biblioteca, e un piccolo palazzo che pareva più nuovo del resto della città e che fungeva da Municipio.

Insomma … una bella città. Accogliente. Pacifica. Piacevole.

In una parola: turistica. Per niente spaventosa, sinistra o maledetta.

Sbuffai gettando la borsa sul tavolo della cucina e crollando poco dopo sulla sedia lì vicino.

Così non andava.

Una città maledetta doveva essere cupa e avvolta nella nebbia. Doveva avere piante morte, e ragnatele ovunque.

Cittadini come zombie che dovevano guardare gli stranieri con aria truce, bestemmiando maledizioni e lanciando anatemi.

Non … quella cosa ridente e soleggiata!

Il cui unico difetto era che per qualche strana congiunzione cosmica là gli apparecchi elettronici non parevano disposti a funzionare a causa di una qualche potente corrente elettromagnetica appena oltre le porte, che uccideva letteralmente tutto quello che vi si avvicinava con qualcosa di più intenso della capacità di una scossa elettrostatica causata da del poliestere strofinato.

Per questo, i commerci avevano carattere pressoché interno. E i pochi che provenivano dall’esterno erano forniti di navette fornite dalla città. Arcaiche, ma più sicure dei veicoli che montavano motori che avrebbero potuto spirare per sempre in qualsiasi momento. Ed esisteva una centrale elettrica che forniva energia a tutta la città.

Ero stata fortunata che il mio computer fosse spento e che il cellulare non fosse bruciato. Erano di una buona marca, molto resistente, complimenti! Mi disse, pure, un tizio con dei cespugli al posto delle sopracciglia e un amore per il colore verde che doveva assolutamente andare contro ogni legge terrestre, prima di accecarmi con il sorriso più spaventosamente brillante che avessi mai subito.

Come facevo a sapere tutto questo … beh, quello di cui parlavo prima?

Perché i cittadini della città maledetta, e i mercanti che vi facevano affari, erano più che disponibili a soddisfare la curiosità della prima estranea che poneva loro domande a raffica sui particolari della loro vita da reclusi.

“Città maledetta?” scoppiavano tutti a ridere. E poi mi invitavano a visitare gli angolini più segreti del loro villaggio, esortandomi “naturalmente” a non perdere il bellissimo giardino dell’Hokage, perché si diceva – e qui strizzavano tutti un occhio con fare malizioso – che raccontando una storia ai suoi fiori, si trovava il vero amore. Altro che giardino succhia cervelli, o anime che fossero.

Doveva essere comunque l’attrazione turistica del villaggio, perché me l’aveva suggerita ogni persona cui avevo chiesto spiegazioni sull’isolamento della loro città.

Non potevo neppure dar loro torto.

Nonostante la città fosse vitale, e i suoi cittadini non avessero particolari problemi economici grazie agli investimenti fruttuosi che il Municipio aveva fatto e di cui tutti beneficiavano, gli stranieri che vi arrivavano non dovevano essere poi molti e un po’ di turismo non dispiaceva a nessuno. Soprattutto a coloro che si vedevano per motivi non dipendenti dalla propria volontà tagliati fuori dal mondo per la maggior parte del tempo.

- Non te ne sei ancora andata?

Sobbalzai alla voce inaspettata del vampiro, lanciando un gridolino poco dignitoso.

Mi girai di scatto verso di lui, fermo sulla porta della cucina che mi fissava con la solita aria seccata. - Vuoi farmi morire d’infarto?!

- Ci riuscirei? – chiese disinteressato lui.

Lo incenerii. – Molto divertente. – replicai acida, osservandolo mentre entrava e apriva lo sportello del frigorifero tirando fuori una caraffa di tè freddo. Lo fissai, affascinata nonostante tutto dai suoi movimenti. Contenevano una eleganza quasi … antica, che faceva assomigliare il più banale gesto da lui compiuto ad una sorta di danza rituale.

Battei le palpebre risvegliandomi dal mio sogno ad occhi aperti, solo quando mi resi conto che aveva preso e riempito due bicchieri, e che me ne stava porgendo uno.

Inarcai con ostentazione un sopracciglio, palesando la mia incredulità dinnanzi alla sua inaspettata gentilezza, e lo accettai.

- Cos’è … un tentativo di avvelenamento, o uno di corruzione? – chiesi sarcastica, non sforzandomi neppure di fingere di sperare di poter avere una replica da parte sua.

Per tutta risposta, lui aspettò fino a che non ebbi portato alla bocca il bicchiere colmo – sapevo che non mi avrebbe avvelenato con la stessa sicurezza che mi aveva portato a fidarmi di quell’estraneo la prima volta -, per sollecitare la mia risposta alla sua prima domanda.

Io deglutii rischiando di soffocare, mi ricomposi fulminandolo con un’occhiataccia che ebbe lo stesso effetto che aveva sul mio amante bastardo, e risposi roca: - Ho girato per un sacco di tempo per trovare questa città. Ora non me ne andrò fino a che non avrò saputo tutto quello che c’è da sapere sulla sua maledizione. Per il momento ho trovato solo la conferma che è tutta una montatura pubblicitaria.

Quindi sorrisi mielosa. – Puoi pure rassegnarti e iniziare a pensare di dirmi il tuo nome, perché dovrai sopportare la mia presenza ancora per qualche tempo, mio caro vampiro.

Lui mi fissò con un’espressione insondabile, che conteneva però qualcosa. Qualcosa che sul momento non riuscii a capire.

Non mi sfuggì che lui non avesse reagito come gli altri, ma lo liquidai col fatto che se già sei un vampiro, poco ti importa di tenere il turismo del luogo dove abiti vivo e fiorente. Anche la mia pianta carnivora non era mai entusiasta di far avvicinare le sue vittime, prima di masticarle e sputarne le ossa, in fondo. Era più una cosa … naturale. Gli idioti fioccavano, a questo mondo. E parevano essere attratti come api dal polline da bastardi con poco interesse per il genere umano e la sua preservazione.

- Fa’ come ti pare. Ma poi non venire a piangere da me se ti pentirai di essere rimasta.

Socchiusi gli occhi, valutando la sua risposta. Pareva quasi che volesse davvero mettermi in guardia. La sera prima, avevo creduto lo facesse per spaventarmi, ma ora … non capivo come ragionava quel maledetto vampiro.

- Sai … sei l’unica persona che ho incrociato fino ad ora a volere che me ne vada. Tutti gli altri sono più che felici di condividere la loro bella cittadina con una ricercatrice. Pare tu sia l’unico a credere davvero nella maledizione che si vocifera abbia colpito la vostra amata città. – sorrisi soddisfatta delle mie conclusioni. Dargli del codardo era la vendetta perfetta per quello che mi aveva fatto passare.

Lui mi colse un’altra volta di sorpresa, perché le labbra gli si piegarono in un ghigno amaro.

- Oh, ma io non voglio che tu te ne vada. Trovo semplicemente corretto che tu rimanga essendo consapevole del fatto che potresti non poter più farlo. Per quanto mi riguarda, puoi rimanere in questa città maledetta fino a morirne.

Ok. Lo ammetto. Mi si seccò la bocca.

Il suo tono indifferente e i suoi occhi gelidi facevano il loro effetto. Tanto che li paragonai agli occhi vuoti che il mio bastardo vampiro faceva quando qualcosa che gli stava davvero a cuore era minacciata, trovandoli manchevoli solo perché i suoi non contenevano quella determinazione spaventosa e agghiacciante che diceva al mondo “Non guarderò in faccia a nessuno per ottenere quel che voglio”. Quella per cui ero grata ai Kami-sama di non essere sua nemica, per la cronaca.

Invece, i suoi occhi avevano una sorta di bruciante furia, che ardeva nel loro profondo.

Spaventosa. Inquietante.

Ma non quanto quella artica affermazione priva di esitazione che possedevano quelli del mio, di vampiro, perché c’era qualcosa … qualcosa di così estremamente misterioso, da renderla quasi ...

Poggiai il gomito sul tavolo, e il mento sul dorso della mano, studiandolo con quella che sperai una faccia indifferente e annoiata.

- Ok. Allora che ne diresti di esaudire l’ultimo desiderio di questa povera ragazza che sta per essere risucchiata nella maledizione della tua amata città?

Lui mi fissò a lungo, e io quasi gongolai di soddisfazione per non avergli dato la risposta che si aspettava.

- Non ho alcun desiderio di soddisfare tuoi desideri. Di nessun genere. Vuoi chiamarmi in qualche modo? Mi pare di averti già detto il nome con cui farlo. E tu, d’altra parte, ne hai pure trovato un secondo. Non hai bisogno di saperne un altro.

Brutto vampiro narcisista e misogino.

 


Casa giapponese e termini usati per descriverla: vi rimando come al solito all’elenco di questo sito http://www.higan.com/italiano/biblioteca/casa_giapponese/casa_giapponese.asp?index_b= per una veloce comprensione. Poi ho trovato interessante anche quello che c’è scritto qui http://www.architetturaeviaggi.it/web_039.php e qui http://www.cultorweb.com/Arch_JPN/AJC.html e qui http://www.puntoj.it/vivere-in-giappone/casa-giapponese-gli-ambienti.html
Magari non serve quasi a nulla per la comprensione del testo, ma a me ha aperto mondi e possibilità affascinanti. Per questo, ho deciso di modificare leggermente la mia idea della casa di Sasuke. Ho cercato una planimetria della sua casa. Non l’ho trovata. Perciò mi sono informata sulle case giapponesi tradizionali e ho modificato questa idea sulla base di fievoli ricordi del manga, che mi raccontavano di ambienti anche occidentali. O almeno non strettamente tradizionali, ecco. Per questo, in altre storie, l’ho descritta svilupparsi appena oltre la porta d’entrata. Con salotto, cucina … insomma gli ambienti che si vedono anche nel manga ma di cui non ho trovato la collocazione precisa, e che per abitudine occidentale (e di casa non a forma di reggia) ho sempre pensato come uniti e prospicienti l’entrata. Descrizione, questa, che continuerò a rispettare, per la precisione (e per coerenza e praticità), nelle altre storie in corso. Ma qui, per motivi che capirete poi, ho preferito vederla leggermente più tradizionale e grande, quindi gli ambienti di rappresentanza e le stanze per gli ospiti le ho inserite prima della parte più intima e privata della casa, dove gli estranei (a quanto ho capito) non sono ammessi. E sì. Ho costruito almeno due bagni, per Sas’ke. Uno grande e tradizionale, con vasca e tutto, e uno più piccolo con la doccia, più occidentale. Perché? Perché potevo *u*
Per completare la mia pignoleria immotivata, infine, colgo qui l’occasione di dire: “Sì. So che la cucina e la sala da pranzo della casa di Sasuke non hanno tavolo e sedie occidentali. Ma l’ho riscoperto per caso dopo aver scritto le scene in cucina. E per una questione di pura e semplice abitudine non ho intenzione di cambiarle. Ogni volta dovrei ricordare che sono tavolini bassi e le azioni compiute in ginocchio sono diverse da quelle che si fanno seduti su una sedia. Mi complicherebbe la vita senza motivo. Mi spiace per coloro che sono più pignoli di me.”
*Epatite. Una malattia a caso tra le tante. E ho scelto questa solo perché l’idea di scrivere che Sakura aveva paura di prendere i vermi mi lasciava con la bocca asciutta … http://www.cjargne.it/acqdefin/acqdeffin_000007.html Gli anni in giro a fare campi scout come … mascotte, mi hanno resa vagamente paranoica. È da quando ero piccola perciò che sto bene attenta a quello che bevo. E Sakura è … una parte di me, in fondo ^^
*Pancake. http://it.wikipedia.org/wiki/Pancake Non perché abbia qualcosa in contrario alla colazione giapponese. Anche se personalmente non la farei mai. Io sono una caffeina-dipendente, e mi risolvo a mangiarci qualcosa insieme il mattino, solo se devo uscire. Ho scelto di fare di Sakura una traditrice del proprio popolo perché l’ho descritta come “figlia del Mondo”, più che altro - lo ammetto senza problemi - per evitarmi una immersione negli usi e costumi e nei modi di dire del Giappone moderno. Come potete vedere dalla pagina di Wikipedia, esistono diversi nomi per indicare i pancake. Io ho deciso di evitare di confondere ulteriormente le idee a voi e a me stessa, e usare la formula più comune.
   
 
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