Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: Francine    21/07/2014    2 recensioni
«Una sorta di super soldato?», chiese un giovane, dai capelli biondi e dall'accento sguaiato, con una cravatta da vaccaio al collo. «Come nei fumetti?»
«Esatto, mister Griffith», intervenne Volonskij, «solo che, questa volta, potreste ottenere dei dati concreti, invece che pagine disegnate per bambini delle elementari.»

Prima Pubblicazione: Settembre 2004
Genere: Avventura, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
19.

 
«Hai visto Shun?»
Susumu era rimasto sulla soglia, sporgendosi nel camerino poco oltre il busto.
«No», gli rispose il riflesso di Shiro, che lo fissava allarmato dalla specchiera. Era chino sul ripiano, insolitamente sgombro dei cosmetici e dei pennelli di Haruko, la loro truccatrice di fiducia, e si era apparecchiato un paio di piste aiutandosi con la carta di credito. Le mani erano corse a coprire ciò che stava facendo, il fiato stretto nel petto. «Mi hai fatto prendere un colpo. Vuoi favorire?»
Susumu fece cenno di no con una mano. «Non l’hai visto?», ripeté.
«No», rispose l’altro. Seccato. «Non l’ho visto. E nemmeno mi interessa. Adesso posso tirare il fiato per cinque minuti?»
«Andiamo in scena tra meno di un’ora», ripeté Susumu. Entrò nel camerino e si chiuse la porta alle spalle.
«Ma no? Non mi dire…»
«Shun è sparito. Tu non sai dove diamine si sia cacciato quell’idiota?!»
Shiro alzò gli occhi al soffitto e sospirò. Non molli, eh?, pensò tamburellando le dita sul ripiano della specchiera.
«Kanetsuki?», chiese, conscio di quale sarebbe stata la risposta.
«Kanetsuki è nel panico. Totale.»
«Scemo io a chiedere… Senti», disse Shiro, mantenendo a fatica la calma. «Senti. Possiamo andare in scena anche io e te. Non è un problema…»
«Non è un problema?!» Susumu lo guardò come se fosse impazzito. «Non è un problema? Certo che è un problema! Un enorme problema.»
«Non se ci organizziamo. Non se ci prepariamo.»
«E che vuoi organizzare? Che vuoi dire? Era qui. Ha fatto le prove con noi. S’è seduto a questa specchiera, su questa sedia, prima di tutti noi. Poi è andato al cesso e puff, sparito. Che ti vuoi inventare? Eh?»
Shiro si staccò a malincuore dalle due piste belle e pronte. «Stammi bene a sentire. Può essere che quell’imbecille salti fuori prima di entrare in scena, all’ultimo secondo, come al solito. Può essere che sia da qualche parte con quel medico russo, lì. Quel… quel come si chiama…»
«Volonskij?»
«Lui», disse schioccando le dita. «Può essere che sia passato a dargli le sue medicine.»
«E se non fosse così?»
«Se non fosse così dobbiamo prepararci qualcosa da dire alla stampa. Una balla. Niente di troppo dettagliato. Qualcosa di vago, da sistemare in seguito. A bocce ferme.»
«Tipo che gli è preso il cagotto?» Shiro annuì. «Stai scherzando, vero?»
«NO. Sono serissimo», e lo sguardo deciso confermò a Susumu che quella che stava dicendo era la verità.
Susumu strinse la mascella. «Ok, sentiamo. Qual è il tuo piano?»
«Dire che Shun non s’è sentito bene.»
«Tutto qui? Non è un po’ vago?»
«Te l’ho detto. Dobbiamo stare sul vago. Quando racconti una balla, meno dettagli fornisci e meglio è.»
«Vero. Ma quelli di là», ribatté indicando col pollice la parete alla sua destra, «hanno visto Shun alle prove. E hanno visto che stava bene. Per quanto possa stare bene uno come lui. Ci massacreranno. Ci faranno a pezzi. Ci chiederanno…»
«Oh, a questo penserà Kanetsuki», lo interruppe Shiro.
«Kanetsuki? Quel Kanetsuki?»
«Tu ne conosci altri?»
«No. Ma vorrei tanto», commentò Susumu mettendosi le mani sui fianchi. Shiro notò che lo smalto nero gli donava, ma si tenne quel commento per sé. «Quindi? Io e te mettiamo in piedi una balla e ordiniamo a Kane di spiattellarla ai presentatori. E poi?»
«Poi andiamo in scena. C’è ancora tempo per cambiare la scaletta. Basterà cambiare le domande al volo. Certo, ci chiederanno che cosa abbia avuto Shun per fargli disertare la trasmissione. Ma se superiamo questo scoglio…»
«Ok, ok», l’interruppe Susumu. «Ma se Shun salta fuori a metà trasmissione?»
«Non salterà fuori. O Kanetsuki stavolta è licenziato», disse Shiro.
«E se appare con noi in trasmissione, meglio», concluse Susumu. Tirò un sospiro. «Adesso me la dai una mano a cercare quell’idiota, oppure no?»
Shiro sbuffò. «E va bene. Ma facciamo un giro veloce. Uno solo.» Gli fece cenno di raggiungerlo e indicò le strisce bianche sulla consolle. «Prima, però, tiriamoci un po’ su. Ne avremo bisogno.»
 
 
«Fate un po’ quello che vi pare.»
Genki faticava a credere che lei l’avesse detto per davvero. Mentre correva sotto la pioggia battente con Ban al suo fianco, che assomigliava ad un fantasma, l’Orsa ammetteva con se stesso di essere spiazzato. Incredulo. E anche un tantino incazzato. Che non gliene importasse nulla di loro l’aveva sempre sospettato, perché un Santo d’Oro è e resta sempre un Santo d’Oro. Borioso, altezzoso e spocchioso. Con o senza gli occhioni da cerbiatto e le ciglia sfarfallanti. Ma un conto è pensare una cosa; un altro è ammetterla. Perché quando si pensa anche qualcosa di orribile, fintantoché resta nella mente non è così brutto. È un qualcosa che se ne resta ai margini, nelle zone d’ombra della coscienza, come un grosso ragno peloso che s’è barricato nella tua cantina. Tu sai che lui c’è, ma fino a quando non lo vedi immagini solamente quanto possa essere brutto, sgraziato ed orribile. Ma è quando si dà fiato ad un pensiero che questo assume contorni più netti. E più viscidi. E si comprende la reale portata di quell’idea che se ne è rimasta ai margini della coscienza a crescere senza ritegno. Senza che uno se ne accorgesse.
Genki faticava a credere che lei avesse avuto il coraggio di ammettere che, in fin dei conti, di loro le importava quanto una macchia su di un vestito. Anzi, forse la macchia sul vestito le avrebbe causato una maggiore partecipazione. Una maggiore empatia.
Certo che ce ne vuole di coraggio…
Quando le aveva chiesto di ripetere ciò che avesse detto, lei aveva posato lo sguardo su entrambi, andando dall’uno all’altro e viceversa.
«Fate. Quello. Che. Vi. Pare», aveva ripetuto, scandendo bene le parole. «Shun è vostro fratello. Non vi biasimerei se vorreste correre in suo aiuto…»
«Qui non stiamo parlando di…»
«Invece sì.» Genki era stato fulminato da quello sguardo verde scuro. «Qual è il problema, Orsa?»
Silenzio.
«Ho chiesto di dirmi quale sia il problema, Orsa. Non hai capito le mie parole?»
«Ho capito.» Lei aveva parlato in Lingua Sacra, il greco che si parlava al Santuario. Il greco ufficiale dei Santi d’Oro. La katharevousa. E lui si era adeguato. «Abbiamo due fronti. Il primo è quello al grattacielo F. Il secondo, all’ospedale della Fondazione.»
«Errore», l’aveva interrotto lei. «Il primo è all’ospedale. Il secondo, al grattacielo. Credo che Athena sia più importante di Shun. O sbaglio?»
Genki aveva stretto i pugni. «No. È corretto.»
«A Minato abbiamo cinque Santi di Bronzo e tre d’Argento. Più altri due di Bronzo in supporto. All’ospedale, due Santi d’Oro. Secondo te, dove dovresti essere, Genki dell’Orsa? All’ospedale o al grattacielo?»
Era tornata a fissare i propri schinieri sporchi di fango.
«Fate quello che volete. Andate dove lo ritenete più opportuno. Io resto qui. A tenere il fortino.»
«Resti qui?» Al diavolo tutto, il greco, la katharevousa e quegli occhioni da cerbiatta. «Athena è in pericolo e tu resti qui?»
«Sì», aveva ripetuto lei. «Perché questo è un ordine di Athena. E ora, se volete andare, andate.»
Era scivolata in un mutismo inespugnabile. Lui e Ban si erano scambiati uno sguardo indeciso, poi erano usciti, dalla stanza e dalla villa, lasciandola da sola.
«Certo che ce ne vuole di coraggio», disse Genki saltando da un palo della luce ad un altro.
Ban aveva un’espressione indecifrabile. Annuì, e Genki non seppe il perché. Decise che non gliene importava. Decise che avrebbe protetto e salvato Athena. E che avrebbe dimostrato ancora una volta a quegli spocchiosi Santi d’Oro che all’interno dell’esercito di Athena erano i Santi di Bronzo a costituire l’ago della bilancia.
 

Volonskij stava infilando carte su carte all’interno di una ventiquattrore. Non badava a lui. Era troppo preso da quell’operazione, troppo assorto nei suoi pensieri per accorgersi che c’era qualcuno che lo stava spiando – lo stava osservando – dalla soglia del suo ufficio. Le sue mani si muovevano veloci e rapide e nervose, tra i fogli che svolazzavano a destra e a manca, e che l’uomo non si dava pena di controllare. Non se ne accorgeva. Il respiro era pesante, affannoso, concitato. Come di chi ha poco tempo e troppe cose da salvare e sa che non riuscirà a salvare, a proteggere tutto, e allora cerca di portare via quanto può. E qualcosa di più. Come uno sfollato che raccoglie dentro ad un lenzuolo tutte le sue cose più preziose. O quelle più utili, ché quando non hai un tetto sulla testa diventano più preziose dell’oro e dei gioielli. Così agiva Volonskij, come uno sfollato che debba evacuare di gran carriera, con la differenza che il suo lenzuolo era una ventiquattrore firmata Hermès.
Ikki poteva vedere il sudore imperlare la fronte dell’uomo che l’aveva rapito già dalla soglia della stanza. Non ebbe pietà di lui. Attese che l’uomo si accorgesse della sua presenza, per non colpirlo alle spalle. Perché se Ikki l’avesse fatto, l’uomo non gli sarebbe sfuggito di certo; ma sarebbe stata un’azione da vigliacchi. Che l’avrebbe reso simile a lui. E questo Ikki non poteva sopportarlo. E poi, voleva delle risposte. Qualcosa, anche una scusa farfugliata, che desse conto e ragione di sé all’enorme perché che gli martellava nella testa da troppo tempo per restarsene inascoltato.
Perché mio fratello?
Voleva risposte e le avrebbe avute. Anche a costo di estorcergliele con le tenaglie.
Staccò una delle piume di bronzo della sua coda e la lanciò contro la valigia. Come avvertimento.
Volonskij sobbalzò. «Chi è là?», gridò. Con una vocetta stridula che generò un moto di disgusto nella mente di Ikki.
Non sei neppure degno di essere chiamato uomo, pensò la Fenice avvicinandosi.
«Buonasera, dottore.»
La voce era il ruggito basso della fiera che avvisa il rivale delle proprie intenzioni. Azzannare alla gola. E non lasciarlo andare fino a quando non vedrà la pupilla farsi vitrea e non sentirà l’alito vitale uscire dalla sua bocca, una volta per tutte.
Volonskij lo guardò stupefatto. «Tu…», disse. Un sussurro appena, ma Ikki lo percepì come se l’avesse gridato al suo orecchio tramite un megafono. «Come…»
«Dov’è?», disse – ordinò. Fissando negli occhi Volonskij.
«Chi?», domandò il dottore.
«Andromeda Shun. Mio fratello.»
Il sorriso di Volonskij divenne quello di una faina. «Non è qui.»
Ikki si avvicinò. «Non ho voglia di giocare, ciarlatano! Dov’è mio fratello?»
Volonskij rise e per un attimo, uno soltanto, Ikki pensò fosse impazzito. Normale non lo è mai stato, si disse, ma Volonskij si ricompose. Si sistemò la giacca sulle spalle – il camice giaceva abbandonato a terra come fosse stato uno straccio da spolvero buono per il fuoco – e lo fissò.
«Sta aspettando la sua medicina», disse, portando le mani dietro la valigetta.
«Niente scherzi!», ruggì Ikki.
Volonskij sorrise e gli mostrò una siringa di vetro, piena di un liquido trasparente.
«È la medicina di tuo fratello», disse. «La sua dose quotidiana. Per non impazzire, capisci? Devo andare a dargliela, capisci? Altrimenti il dolore sarà insopportabile. E tu non vuoi che tuo fratello soffra, non è vero?»
«Bastardo…»
Ikki teneva gli occhi fissi su di lui e su quella siringa che brillava sinistra tra le sue dita. Aveva un ago enorme. Gigantesco. E Ikki si chiese in quale vena avrebbe mai potuto infilare una cosa simile, quando vide l’ago e la siringa andargli incontro.
Idiota, pensò afferrandola con due dita. Il vetro era freddo e viscido ed Ikki si accorse che all’interno c’era, con tutta probabilità, della soluzione fisiologica. Quando spostò lo sguardo nuovamente su Volonskij, si accorse che l’uomo non aveva perso tempo e s’era armato. Ora stringeva tra le dita tremanti una Walther P38, con le peggiori intenzioni possibili. Come scaricare tutti i proiettili contenuti nel caricatore addosso a lui.
Volonskij sorrise e fece fuoco.
E Ikki rispose.
 

«Ma questi…»
Fiona s’era fermata a metà rampa, inginocchiata sul corrimano. Poco più su di lei, Andrew abbassò il capo. E annuì.
«Colpi di pistola», sentenziò, lo sguardo azzurro fattosi duro.
«Dove credi fossero?», chiese Fiona.
«Due o tre piani più su.»
«Perfetto. Allora…»
«Vado io», le disse. «Tu prosegui col piano come stabilito. Intesi?»
Fiona avrebbe voluto ribattere. Avrebbe voluto rispondere ad Andrew che no, non sarebbe andato lui a vedere, che casomai ci sarebbero andati assieme, ma quello che Perseo le regalò fu uno sguardo così carico di determinazione che la Lucertola capitolò.
«Intesi», disse. E Andrew si voltò. «Aspetta!»
Spiccò un paio di salti e lo raggiunse.
Che c’è ancora?, le chiesero i suoi occhi, vedendo che si umettava il labbro inferiore. Andrew sapeva che quel gesto poteva significare due cose. La prima era un sentimento di ansia, pena, agitazione. La seconda, quella che Andrew più temeva, era un sintomo della testardaggine che affliggeva il cervellino di Fiona. Non ho finito, questo poteva significare quel gesto. Ma Andrew non sapeva che umettarsi il labbro inferiore e poi affondarvi con delicatezza i denti aveva anche un terzo significato. Fiona stava raccogliendo tutto il proprio coraggio. Strinse i pugni e si avvicinò a lui, i loro visi talmente vicini da respirare la stessa aria.
«Fai attenzione», gli disse, prima di colmare la distanza tra di loro e baciarlo. «In bocca al lupo», gli sussurrò Fiona, prima di saltare via, verso il pianerottolo. Aprì la porta e scivolò all’interno, lasciandolo lì, accovacciato sul mancorrente, a sentirsi un perfetto idiota.
 

Il cielo sopra la Valle della Morte l’aveva accolta col suo viola melanzana, con un vortice screziato da nuvole nere e rosse sopra alla Collina. Era affollata come al solito, ma molto silenziosa. Quieta. Sempre fedele a se stessa e sempre fottutamente indifferente a ciò che le capitava attorno.
«Vado anche io», aveva detto a Tatsumi, omettendogli le sue reali intenzioni. L’uomo aveva annuito e lei era sparita, una bottiglia di cognac nascosta dietro la schiena. Laggiù, tra le anime dei morti che risalivano in file ordinate il pendio della Collina per lasciarsi cadere nel cratere, non l’avrebbe disturbata nessuno. Rimase per un po’ a fissare quelle file ordinate di anime, che come formiche stanche si dirigevano verso la cima del colle brullo.
Un formicaio, pensò. Forse un po’ lugubre, ma che importa?
Il piano era semplice. A prova d’errore. Relegarsi là sotto e regalarsi una sbronza colossale. Una di quelle in cui non sai più chi sei. Se sei tu che guardi la luna o se è la luna che guarda te. E che ti chiede, lo sguardo perplesso, cosa diamine tu stia facendo, prima di decidere che sono fatti tuoi e girarsi dall’altra parte, ad osservare altre notti, altri mondi, altri sogni.
Si sedette sulla prima roccia disponibile, un sasso piatto che qualcuno aveva affastellato assieme ad altri in un pinnacolo stabile. Forse il risentimento di qualche bambino morto prima dei suoi genitori? Possibile. Ma poiché il pinnacolo non arrivava sì e no a cinquanta centimetri, ne dedusse che figlio e genitori si erano ricongiunti presto. Per quel che valeva lo scorrere del tempo, laggiù.
La bottiglia di cognac era di quelle pregiate. Costose. Un liquore di primissima qualità, probabilmente di un’annata speciale, che le sarebbe costato un occhio della testa rifondere, ma pazienza. Certe cose vanno fatte per bene, giusto? Alzò lo sguardo sul cratere – sul formicaio – e le sembrò di essersene appena andata. E invece sono passati cinque anni, si disse. Eppure, le sembrava tutto così fottutamente vicino, come se avesse appena battuto le ciglia. Come se sentisse ancora le mani disperatamente vuote e spalancate.
Rivedeva ancora la scia di quella cometa dorata che era scesa giù, in picchiata rabbiosa, illuminando a giorno il cielo violaceo, rischiarando i turbini rosso sangue e stritolandole il cuore. Perché non aveva fatto in tempo. Non era riuscita ad allungare le dita quel poco che bastava per afferrare le scia della cometa e trascinarsela dietro. Oltre l’orlo del precipizio. Tra i vivi.
Ancora non lo sapeva che il suo corpo non c’era più, che era esploso nel cielo, diventando polvere di stelle e cosmo per salvare il Dragone e pagare i propri peccati, ma non aveva importanza. Quello che contava, allora, era fare un solo, singolo passo in più. Uno solo. E non era mai riuscita a perdonarsi di non averlo compiuto. Di non avercela fatta. Perché con quel fottuto, piccolo passo, con quei venticinque centimetri in più, avrebbe steso le dita un po’ più in là e l’avrebbe acciuffato. O sarebbe caduta con lui, nella Bocca dell’Ade.
E forse, sarebbe stato meglio così.
Perché allora avrebbe avuto un motivo serio per non essere riuscita a salvare anche suo fratello. Per aver lasciato che i suoi capelli le scorressero tra le dita come seta. Per averlo visto cadere e non essere riuscita ad urlare nemmeno il suo nome.
Perché non avrebbe inanellato tutta quella serie di casini immensi, che non riusciva a perdonarsi, nonostante tutto. Nonostante Capo Sounion. Nonostante l’Espiazione. Glielo aveva rimarcato anche lui, a pochi centimetri dal viso mentre un fulmine solcava minaccioso il cielo oltre la finestra, in un ringhio basso e minaccioso. Affondandole il coltello ancor più in profondità in una piaga che neppure lei sapeva più come chiamare. Athena. Étienne. Ruy.
«Sono la sua compagna…»
Sbatté le ciglia e si accorse che la vista le si era appannata. Il formicaio era sempre laggiù, all’orizzonte, e i filari di formiche continuavano la loro ineluttabile salita, con la stessa arrendevolezza con cui lo scoglio accoglie l’onda del mare, ma era tutto sfocato, un’indistinta chiazza di viola, grigio, nero e rosso sangue.
Dillo alla luna, cantava Vasco. Ma lei sapeva che anche se ci fosse stata la luna, laggiù, se ne sarebbe fregata. Di lei, dei morti, dei vivi e di tutto il resto. Sarebbe rimasta a splendere contro quel cielo di un colore assurdo, e amen.
La bottiglia rimase a terra, intonsa. Lei alzò il viso al cielo e pianse tutte le lacrime che aveva in corpo, sicura che non l’avrebbe sentita nessuno. E che, per una volta tanto, nessuno avrebbe interferito col suo dolore.
 

«Skatà
Milo si alzò in piedi e si avvicinò a Hyoga. Certo che quella non era Shunrei. Ovvio. Logico. Ma per una volta, una sola, Milo avrebbe preferito che la logica se ne fosse andata a farsi una bella passeggiata altrove, magari in quella ridente e pittoresca località chiamata Fanculo. Invece la logica aveva messo su uno spettacolino niente male e stava per estrarre un altro coniglio dal cilindro. Due, per l’esattezza. Grossi come mammuth, tanto avevano deformato la stoffa del cappello colla loro mole. E lui non era sicuro di voler sapere che razza di bestie fossero.  
«Proteggi Athena», gridò al Capricorno, che era già volata nella stanza dove Athena stava vegliando Shunrei. Milo trattenne tra i denti una bestemmia. «Spiegati!», disse al Cigno, prendendolo per un polso.
Hyoga si divincolò. Aveva lo sguardo di ghiaccio, della stessa sfumatura preoccupata che solcava quello di Camus quando le cose non tornavano.
«Ho appena lasciato Shiryu al pronto soccorso. Strada facendo mi ha detto che quando è partito Shunrei non era incinta.»
«Non potrebbero averla rapita…»
«Il vecchio Maestro», disse Hyoga. Piazzando un macigno inamovibile su qualsiasi obiezione si potesse muovere a riguardo. «Tu credi davvero che lui avrebbe permesso che torcessero anche solo un capello a Shunrei?»
E allora quella ragazza chi diamine è?, si domandò Milo, voltandosi verso la porta dietro cui erano sparite sia Athena sia Jimena.
«Shiryu?»
«Malconcio.» In uno stato pietoso, pensò Hyoga, ma tacque. Per salvaguardare l’onore del suo compagno. «Malconcio, ma vivo. Gli stanno prestando le prime cure. Ci raggiungerà appena possibile.»
Milo inarcò un sopracciglio, una brutta copia dell’espressione che Camus mostrava ai suoi allievi quando proprio non capiva cosa passasse loro per la testa, e disse: «Facciamo che lo vai a prendere, e io entro lì dentro per capire cosa cazzo sta succedendo. D’accordo, tovarič?».
Hyoga annuì e tornò agli ascensori proprio mentre ne usciva l’equipe medica pronta ad accompagnare Shunrei in sala operatoria.
Perfetto, pensò lo Scorpione. Piove sempre sul bagnato.
 

Shunrei è qui con me.
La voce di Doko aveva quel suono di foglie spezzate tra le dita, di pagine ingiallite dal tempo e dall’usura, ma Saori riuscì lo stesso a sentirvi dentro la preoccupazione che gonfiava il vecchio cuore malato di Libra.
E allora questa ragazza chi è?, pensò Saori mentre Shunrei le stringeva le dita con una forza impressionante.
Il cosmo di Doko tradiva tutta la sua impotenza. Non era Shunrei, d’accordo, ma chiunque fosse quella ragazza in preda alle contrazioni del parto le assomigliava come una goccia d’acqua.
Una sua gemella?
Oppure… una sua copia?
Saori tremò nel formulare quel pensiero anche solo nella sua mente. Athena tacque, sdegnata.
Possibile che l’uomo fosse riuscito a ricreare la vita con tale precisione?
 
La tracotanza dell’uomo non ha limiti.

C’era risentimento nelle parole che le erano esplose nel petto. E sì, Saori si disse che Athena aveva ragione. Che quella che l’uomo chiamava scienza era solo un tentativo di scimmiottare il potere degli dei. Per sentirsi meno fragili, forse, e se fosse stata una ricerca per sconfiggere le malattie, Saori avrebbe anche potuto capire, comprendere pur se non avallare, il tentativo dell’uomo di giocare con la vita. Per capirla. Per comprenderla. Per giocare ad armi pari.
Ma quello che l’uomo aveva fatto a quella ragazza non era nulla di tutto questo. Era dolore. Puro e semplice. Senza una ragione, e per questo ancora più inutile e meschino.
«Shiryu!», gridò la ragazza in quel letto, la voce arrochita ed il respiro sempre più frequente e breve e affamato d’aria.
«Mia Signora, che facciamo?», gli chiese Jimena alle sue spalle.
Bella domanda, pensò Saori. Le infermiere sarebbero venute a prepararla per l’anestesia da un minuto all’altro. E se l’anestesia non avesse funzionato? O se avesse funzionato troppo bene?
Saori non riusciva a leggere l’anima della creatura che le si era aggrappata alle mani con tutta la disperazione che aveva in corpo. Il dolore era troppo. Poteva essere qualsiasi cosa.
Fuori il cielo era un mantello nero cupo, fumoso e carico di pioggia, che batteva contro i vetri con secchiate rabbiose. Saori cercò la luna, oltre quelle nubi. Cercò l’aiuto di sua sorella Artemide, per intercedere per quel parto difficile. Per farsi dire cosa fosse quella creatura stesa davanti a lei.
Ma la Cacciatrice non rispose. I suoi occhi d’argento erano rivolti altrove e non prestò attenzione al timoroso e flebile richiamo della sorella minore.
 
Locheia vuole un sacrificio di sangue per questa richiesta.
 
E Saori seppe che Athena aveva ragione. Non sarebbe successo nulla a quella ragazza e a suo figlio. Lei non l’avrebbe permesso. La Cacciatrice richiedeva un sacrificio ed un sacrificio avrebbe avuto.
«Deve partorire», disse a Jimena, rispondendo alla domanda che il Capricorno le aveva posto poco prima. «Dopo capiremo cosa sia successo. Dopo. Ma adesso c’è un bambino che deve nascere.»
«Non sarà… non sarà pericoloso?», insistette il Capricorno.
Saori si voltò.
«Pericoloso?», chiese.
«Non sappiamo con cosa abbiamo a che fare, Mia Signora. Potrebbe scatenarsi in sala parto. E allora…»
«Si sarebbe scatenato prima», disse Saori. «Lo starebbe facendo adesso, Jimena.»
E se accadesse? Jimena non ebbe il coraggio di proseguire oltre, e affidò al suo respiro quell’obiezione. Chinò il capo e attese.
Saori asciugò il sudore dalla fronte di Shunrei – della falsa Shunrei. Le contrazioni si facevano più rapide. Più dolorose. Non avrebbe retto a lungo. E si chiedeva quanto ci mettessero gli infermieri ad arrivare.
«Ho bisogno di Excalibur», disse. Jimena alzò la testa.
«Sono qui», e il braccio destro divenne come d’acciaio puro.
Saori le mostrò le vene del polso sinistro. Jimena la fissò come se non avesse capito. Stralunata. Indecisa. Incredula. Non mi state chiedendo di, vero?, gridavano i suoi occhi.
Saori annuì.
«Il mio sangue proteggerà entrambi», disse, imponendosi di non farsi commuovere dall’espressione attonita del Capricorno. «Ne basteranno poche gocce», insistette.
Jimena scosse il capo.
«No. Non… non posso», disse, in un sussurro flebile, il viso pallido e gli occhi allargati.
«Puoi», ed era stata la voce di Athena a parlare, stavolta. Rimbombò forte e chiara nel cuore di Jimena. Entrando in risonanza con il suo cosmo. Lassù, oltre quella coltre di nubi nerissime, le stelle ruggirono. Una danza di luce e fuoco e potere che entrò in risonanza con il braccio destro di Jimena. Deneb Algedi splendette fulgida contro il nero della notte e lei seppe che non era sola. Ci sarebbe stata Athena con lei. Ruy. Non poteva fare male ad Athena. Lei era il Capricorno. La sua spada. Excalibur.
Jimena chinò la testa. Saori le avvicinò il polso. Un rapidissimo movimento, la lama divina a sfiorare la pelle candidissima di Saori e a recidere appena le sue vene.
«Grazie», mormorò Saori. Poi avvicinò il suo polso a Shunrei – alla falsa Shunrei – e lasciò che un paio di gocce del suo sangue le cadessero sulle labbra.
«Vai a vedere come mai non arriva nessuno», disse a Jimena. La sentì sussultare alle sue spalle, ma il Capricorno schioccò i talloni ed uscì mormorando un «subito» poco convinto.
Rimasta sola, Saori cercò nella stanza qualcosa che potesse fare al caso suo. Qualcosa con cui bendare il polso. Era una ferita superficiale, sì, ma non voleva spargere altro sangue. Locheia si sarebbe fatta bastare quell’atto di fede.
Jimena tornò assieme all’infermiera.
«Adesso deve uscire.»
«Quella cos’è?», chiese Saori indicando con lo sguardo la siringa che la donna teneva tra le dita.
«Un antidolorifico», rispose l’infermiera avvicinandosi al letto. «La aiuterà a sopportare il dolore fintantoché l’anestesia non farà effetto. Lei, piuttosto. Cosa le è successo?»
«Mi ha graffiata», mentì Saori.
La donna non commentò. Infilò l’ago nella vena della paziente, vi scaricò il contenuto della siringa e lo estrasse. «Venga con me. Metteremo un po’ di disinfettante e un bel cerotto su quel graffio.»
 

«Seiya?»
Shaina era rimasta impietrita. Aveva aperto una porta dopo l’altra lungo tutti i corridoi che aveva attraversato fino a trovare Seiya. E a capire perché mai il suo cosmo si fosse spento all’improvviso. Come se qualcuno avesse soffiato sulla fiamma di una candela.
«Seiya?»
Shaina continuava a chiamarlo, nonostante sapesse che lui non le avrebbe risposto mai più. Perché oramai Seiya era lontano. Distante. Irraggiungibile. Si avvicinò a lui, steso su un lettino anonimo, senza nemmeno un lenzuolo steso sotto il suo corpo, e gli afferrò un polso. Piano. Con delicatezza. Come se stesse toccando qualcosa di purissimo e si fosse accorta di avere le mani incredibilmente sudice. O se lui fosse fatto di quella carta leggerissima con cui si realizzano quelle lanterne che d’estate si fanno volare su nel cielo, a rischiarare la notte di Luglio.
Seiya era freddo. Di un freddo metallico ed innaturale. Gli toccò la punta delle dita. Erano graffiate, come se le avesse usate per arrampicarsi su una parete rocciosa e affilata come un rasoio. Erano graffiate e fredde. Rigide.
Shaina trattenne il fiato. Fissò il bel viso di Seiya. Sembrava addormentato. E che stesse facendo un bellissimo sogno. Sembrava sereno. Lontano dalle noie e dalle preoccupazioni di questa vita. Tutto il dolore, tutta la rabbia, le battaglie, l’acciaio, il sangue Athena, tutto questo – tutto Seiya – non c’era più. Quello che aveva davanti era un bellissimo involucro. Seiya non c’era più. La sua anima s’era staccata dal corpo e se n’era andata via. Lontano. Perduta per sempre chissà dove, tra le pieghe del cielo e delle dimensioni. Oltre la luce rabbiosa delle stelle.
No! Non è possibile, pensò. Ma quando allungò le dita sul collo di Seiya, lì dove l’armatura lasciava scoperta la giugulare e dove tanto amava depositare piccoli baci a fiori di pelle, leggeri come il battito d’ali di una farfalla, Shaina si accorse che Seiya non c’era più.
 
 
Note:
Aggiornamento speciale di lunedì. Dai che siamo quasi alla fine! Portate pazianza ancora un po' e finalmente questa storia avrà un epilogo.

Non ce l'ho fatta a resistere al cliché del musicista che indulge in certi piaceri. Sono prevedibile, lo so. E anche un po' scontata, ma pazienza.

La katharevousa originale è una lingua in uso in Grecia dal 1832 al 1976. Dall'indipendenza dall'Impero Ottomano alla fine della Dittatura dei Colonnelli. Si tratta di una lingua ricreata partendo dal greco antico, liberando la lingua popolare (il dhimotiki) dalle influenze turche che nel corso degli anni si erano depositate nel greco - ed essendo una lingua viva, prende spunto dalle novità con cui entra in contatto, fregandosene se sono turche, arabe, italiane, cinesi o il cielo solo sa cosa.
La katharevousa non ha funzionato, quindi quella che si parla oggi, in Grecia, è una lingua che discende dalla koiné che si studia al liceo (e pure lì, ricostruita con molta fantasia) con tutto il corredo di novità che ha messo da parte nei secoli.
Nel mio headcanon la katharevousa è la lingua pura che si parlava al Santuario in Lost Canvas e che si parla al Santuario nelle occasioni ufficiali. Un po' come quando il Papa fa uscire una nuova enciclica - la scrive in latino, ma suppongo che se chieda a qualcuno di passargli il pane lo faccia in italiano. O in spagnolo.
Lo stesso dicasi per il Santuario. Milo dirà pure "Skatà!", e lo dirà nel suo dialetto cicladico®, ma suppongo che in occasioni formali si parli una lingua più... formale, appunto.

Locheia è uno degli attributi di Artemide, divinità che si invocava in soccorso delle partorienti. Nonostante fosse la dea vergine per eccellenza. Non chiedete, o ne esce una nota grossa quanto tutto il capitolo...
 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: Francine