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Autore: giascali    21/07/2014    5 recensioni
I cristiani credono che, dopo la morte, a seconda del nostro comportamento, andiamo o all' Inferno (che, quando diciamo "va all' inferno!", sia una specie di predizione?) o in Paradiso. Gli Indù, invece, pensano che ci reincarniamo. Gli antichi greci avevano una visione più complicata, ma anche molto più interessante (o quanto meno per me). Gli ebrei, invece, non credono nella vita dopo la morte. Ma tutte queste teorie si sono rivelate false ed Ellison Hyde, sedicenne ragazza inglese, grande amante dei libri e incapace di vivere nell' ordine, sta per scoprirlo. E così, tra amici che fanno sedute spiritiche, il fantasma del nonno della tua migliore amica e molto altro, Nellie troverà un mondo che sembra uscito dall' immaginazione di Tim Burton e scoprirà che, dopotutto, non è l'unica con una vita complicata, sopratutto se si parla di un estroverso ragazzo che non ricorda niente della sua vita...
Genere: Dark, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 6
La Città dei Morti
 
 
 
Decisi quasi subito che quel Peter mi piaceva, al contrario della ragazza, Bree.
Era incredibile quanto potesse essere acida una persona. E per cosa poi? Ancora non capivo. Cercando di ignorarla, raccontai del tentativo non del tutto fallito di evocare Abraham e di come, ripetendo la formula, mi fossi ritrovata qui.
Alla fine del mio racconto, la faccia di Bree aveva perso quell’espressione insopportabile di superiorità, per assumerne una indifferente che però era pur sempre un passo avanti.
Peter si era seduto sulla mia lapide, ancora non capivo dove fossimo e perché avessi una lapide, e Percy per terra. Strappava soprapensiero i fili d’erba, per poi ridurli a pezzettini. Bree si scostò ancora una volta una ciocca di capelli biondo platino e, quando notò che la stavo guardando, mi lanciò un’occhiataccia con i suoi occhi verdi.
-Che storia assurda. – sentenziò.
Spalancai la bocca. – Stai forse insinuando che non è vera? – strinsi forte i pugni. La ragazza sollevò un sopraciglio ma non mi rispose. Incrociò le braccia al petto e avrei giurato di vedere una cicatrice, sul suo polso sinistro.
-Bree può pensare quello che vuole, io ci credo. – intervenne Percy. Si rimise in piedi e si passò una mano tra i capelli. – Per inventarti qualcosa dovresti essere una sorta di genio. – aggiunse poi.
Sollevai un sopraciglio. – Intendi che non lo sono, forse? –
Percy arrossì e con la coda dell’occhio vidi Bree fare un verso indignato. – Certo che hai sempre la risposta pronta. – borbottò il ragazzo, facendomi riportare la mia attenzione su di lui.
Peter si limitò a ridacchiare e mi si strinse il cuore. Era un ragazzino così carino, con i suoi riccioli dello stesso colore del cioccolato e quel sorriso dolcissimo. Come era potuto morire così presto?
-Per capirci qualcosa potremmo portarti dal Consiglio. – ragionò a voce alta, una volta che ebbe finito di ridere.
-Il Consiglio? – ripetei con diffidenza.
Percy annuì. – Buon’idea. – si misero a camminare, presto seguiti da Bree, lasciandomi lì, in piedi sulla mia tomba con una gran confusione e di certo un’espressione stupida in volto.
-Il Consiglio? – domandai ancora, seccata del fatto che non mi avessero spiegato niente.
Percy si voltò e mi dedicò un sorriso. – Cosa ci fai lì? Vieni! –
Dopo un attimo di esitazione, sospirai e mi decisi a seguirli. – Cos’è il Consiglio? – domandai quando li raggiunsi.
-Un gruppo di persone morte. Li eleggiamo ogni cinque anni. –
Mi fermai all’improvviso, la fronte aggrottata. – Voi… votate? –
-Certo. Come potremmo altrimenti decidere chi ci rappresenta? – mi rispose come se fosse ovvio Bree, guardandomi gelidamente. Ignorai il suo sguardo e mi rivolsi a Peter e Percy, con un grugnito poco elegante. – Possono votare anche i bambini? – chiesi. Diedi un’occhiata a Peter. Doveva avere al massimo tredici anni. O almeno li dimostrava, siccome era morto e non sapevo da quanto.
-Solo quelli scelti dal Consiglio. Quelli che si dimostrano abbastanza maturi. Io sono uno di loro. – aggiunse con una punta d’orgoglio il ragazzino cosicché non potei fare a meno di sorridere. Si, mi piaceva sempre di più. – Ma il minimo d’età è di quattordici anni, quindi… non è una gran cosa, il mio caso. – disse facendo spallucce.
Mi chiesi se si potesse adottare un tredicenne morto. Se così fosse stato, avrei fatto carte false per convincere mia madre.
-Perché mi portate da loro? – domandai.
-Potrebbero sapere perché, nonostante tu sia viva, possa venire qui. Non volevi saperlo? – mi stuzzicò Percy. Questa volta fu il mio turno per arrossire ma per l’indignazione. Annuii, stringendo le labbra, e non gli risposi, preferendo guardarmi attorno.
Oramai, eravamo davanti ad un cancello di ferro nero. Si congiungeva con delle mura abbastanza basse, di circa un metro e cinquanta, di pietra grigia. Vi era appeso un cartello, che riuscii a leggere solo quando ci fui davanti. Diceva: “Cimitero dei vivi”.
-“Cimitero dei vivi”? – lessi ad alta voce.
-È dove ci troviamo. Nel Cimitero dei vivi! – Percy finì la sua spiegazione allargando le braccia con fare teatrale e gettando la testa all’indietro.
-Tan tan taaaaaaaaaaaan! – canticchiò Peter, rendendo la scena ancor più ridicola ma facendomi scoppiare a ridere.
-E cosa dovrebbe essere un “Cimitero dei vivi”? – domandai, una volta che riuscii a parlare senza ridere.
-È una sorta di promemoria. Tutti coloro che vivono a Broseley hanno una lapide. Una volta che muori a Broseley, la tua lapide scompare ed appare la tua casa. Ognuno ha una casa, qui. - Peter ne indicò una. Era piccola, di pietra grigia, con sfumature brune, anche il tetto era fatto di pietra ma queste erano totalmente grigie. La porta era di legno scuro, probabilmente di quercia. Ad ogni lato, aveva due finestrelle, graziose con le intelaiature brune. Dalle finestre si vedeva l’interno della casa, sembrava accogliente. – Quella è la mia. -  la casa era circondata da un piccolo giardino con l’erba verde (ovviamente c’era pure l’immancabile sfumatura grigia) e ben curata. C’era persino una cassetta delle lettere, lucida e dipinta di bianco.
-Che carina. – commentai con un sorriso. Peter mi rivolse un sorriso compiaciuto. Ne indicò un’altra. Era in stile coloniale, bianca e decisamente più grossa di quella di Peter. Nel giardino della casa, c’erano numerose aiuole. In queste vi erano coltivate amarilli , bucaneve e qualche cardo silvestre  che sembravano essere messi a forza, lì. Cercai di ricordarmi che significato avessero quei fiori, una volta avevo letto un libro a riguardo, era di mia nonna, andava matta per quel genere di cose, ma mi venne in mente solo che l’amaryllus significava fierezza ed eleganza, probabilmente anche qualcos’altro. Ad ogni modo, la casa sembrava isolata, si erigeva tra le altre e se ne differenziava così tanto da apparire sola. Mi chiesi se anche il suo proprietario fosse così.
-Quella è di Bree. – spiegò Peter, al ché mi voltai verso la diretta interessata, che non mi degnò nemmeno di uno sguardo e si voltò dall’altra parte. Mi domandai subito se non stesse nascondendo qualcosa. Mi ripromisi di fare delle ricerche.
-Qual è la tua? – mi rivolsi a Percy che era rimasto in disparte. Stava guardando avanti, spensierato ma, alla mia domanda, assunse un’espressione confusa e frustrata.
-Non ne ho una, io vivo nel palazzo del Consiglio. –  spiegò lentamente, come se facesse fatica a dire quelle parole
Aggrottai la fronte. – E perché? – fece spallucce.
- Non lo so. Non credo che sia una specie di punizione, perché qui anche coloro che non hanno fatto niente di buono nella vita hanno una casa. E poi, se anche fosse, non me lo ricorderei. – si strinse nelle spalle, tentando di evitare il mio sguardo curioso. Probabilmente lo metteva a disagio parlare di quella sua piccola bizzarria ma non mi arresi.
-Intendi che non ti ricordi la tua vita? - Percy annuì e non potei fare a meno di provar un gran dispiacere per lui.
Gli posai una mano sul braccio. – Proprio niente? –
Scosse la testa. – Solo il mio nome. –
-Solo? –
Annuì ma poi sul suo volto comparve un sorriso minuscolo e malandrino. – Però il mio nome è abbastanza lungo. –
Sollevai gli occhi al cielo, cercando di nascondere il sorriso che non ero riuscita a trattenere. Dopotutto non era male, quel Percy. – Rammento anche qualcos’altro, però molto confuso. -
-Vogliamo muoverci? Oppure ti sei già dimenticata della tua “missione”? – ci riprese Bree, guardandomi in modo truce. Le scoccai un’occhiataccia. Come risposta, incrociò le braccia al petto e si voltò, ignorandomi bellamente.
Percy annuì e le circondò le spalle con un braccio. La superava di pochi centimetri, notai. Bree incrociò il suo sguardo e si lasciò sfuggire un sorriso. Il ragazzo le disse qualcosa a bassa voce e Bree fece un cenno col capo, per poi ridacchiare.
Quando si voltò e vide che li stavo osservando, mi guardò trionfante. Distolsi velocemente gli occhi.
-Dai, andiamo. – ci spronò Peter che era rimasto a guardare la scena. Annuii e lo seguii, con Percy e Bree alle mie spalle.
Attraversammo un ampio viale, ai cui lati stavano affacciate le case dei morti. Ognuna era costruita con stili e colori diversi. Nessuna sembrava accordarsi con quella vicina e avrei scommesso che, viste dall’alto, sarebbero parse un’enorme coperta patchwork. Ogni tanto scorsi delle strade, più strette rispetto a quella che stavamo percorrendo, intersecare la via. Ed ogni volta vidi altre case. Mi chiesi quante persone fossero morte a Broseley, la mia città.
-Quindi ognuno ha la propria casa. – mormorai.
Peter annuì. – Appare una volta che muori. Ed è sempre costruita secondo i tuoi gusti. –
-Ma potresti anche condividere una casa con qualcun altro? –
Il ragazzino strinse le labbra, assumendo un’ adorabile espressione concentrata. – Intendi come coppia? –
Scossi la testa. – Non solo, anche come famiglia. –
Ci pensò su ancora un po’, per poi rispondere: - Non succede molto spesso ma, se non ricordo male, i Grayson hanno una casa. Vivono insieme. La signora Grayson non ha una casa per conto suo e neanche il signor Grayson. Ma forse è anche perché sono morti insieme. –
-Sai come? – domandai.
-Un incidente d’auto. Credo sia piuttosto doloroso, anche se non ne ho mai visto uno. – sul suo volto apparve un’espressione corrucciata.
-Non è un bello spettacolo. Una volta ne ho avuto uno con mio padre. – mormorai, ricordandomi dei vetri dei finetrini rotti e di mio padre che lottava contro l’airbag, facendo intanto una risatina isterica.
-E sei sopravvissuta? – chiese con stupore.
Annuii con non poca titubanza. – Sì e anche mio padre. – aggiunsi. – Perché? Non tutti gli incidenti sono letali. –
-Oh. Pensavo di si. Sai, non ho mai visto un’ automobile. –
Strabuzzai gli occhi. – Cosa? Mai? Ma quando… - non conclusi la domanda.
-Sono morto? – finì per me con un sorriso.
Feci un cenno d’assenso. Peter si strinse nelle spalle. – È stato più o meno duecento anni fa. –
Vedendo la mia espressione, Peter scoppiò a ridere, attirando l’attenzione di Percy e Bree.
-Come mai ridi? – gli domandò.
-Per niente. – tergiversai io, incrociai le braccia al petto e, quando notai che anche Bree aveva la mia stessa posa, le feci cadere ai miei fianchi. – Continuiamo? –
Presto il viale che stavamo percorrendo ci condusse ad una sorta di centro della città. Le strade ora erano fabbricate con dei mattoncini squadrati e bruni. Ai lati della strada c’erano dei lampioni di ferro nero, sembravano essere usciti da un film di Tim Burton. Anche gli edifici parevano cambiati, innanzitutto era evidente che non fossero più case, avrei scommesso che si trattasse di negozi.
Un’insegna confermava la mia teoria, diceva “Libreria della Luna”.
Era un edificio piccolo, con gli infissi di legno scuro. Vicino alla porta, c’era un’ampia vetrina che mostrava qualcuno dei libri più recenti e dietro questi un commesso, un uomo basso e sulla sessantina. Aveva degli occhiali rotondi e spessi.
Un altro edificio si distingueva dagli altri. Innanzitutto perché era molto più alto e grande degli altri. Era di marmo grigio ed una scalinata piuttosto lunga portava all’ingresso. Sarà stato alto circa tre o quattro piani e sull’edificio vidi una cupola. Le finestre iniziavano ad apparire dal secondo piano in poi, così non potetti vedere precisamente cosa c’era all’interno ma scorsi alcune figure in movimento. Si affacciava su una piazza al cui c’entro stava una fontana. In mezzo alla vasca, spiccava una statua che raffigurava tre donne. Una era vecchia, una era adulta e l’ultima un’adolescente. La riconobbi, era la dea Ecate. Aggrottai la fronte e seguii gli altri lungo la scalinata.
Arrivati in cima, ci ritrovammo di fronte ad un grande portone di legno. Sembrava molto pesante ma Percy riuscì a spostarlo adoperando solo una mano. Lo tenne aperto, permettendoci di attraversare l’uscio e, quando gli passai accanto, mi rifilò un sorriso che ignorai, troppo occupata a mangiare con gli occhi la sala in cui ero appena entrata. Era grandissima, quadrata. Dei lampadari di cristallo grigio scuro pendevano dall’alto soffitto, simili ad una cascata scintillante. Ai lati del locale si affacciavano dei corridoi alle cui pareti vidi appesi dei quadri dipinti ad olio. Il pavimento era coperto da un elegante tappeto color oro scuro. Davanti al portone d’ingresso stava un’ulteriore scala, di qualche tono più chiara delle pareti grigie.
Nonostante fosse alquanto insolito, quell’abbinamento di colori sembrava funzionare, anzi mi piaceva molto. – Wow. – mi lasciai scappare, girando su me stessa per osservare meglio la stanza.
Percy sorrise divertito e si chinò, in modo da sussurrarmi all’orecchio: - Questa stanza fa sempre lo stesso effetto a tutti, e non hai ancora visto la biblioteca. –
A quella parola, sono certa che i miei occhi si illuminarono. In quel posto c’era pure una biblioteca? Cercai un possibile accesso con lo sguardo, per poi essere fermata dalla risatina di Percy. – Non è qui. Occupa l’ultimo piano, più o meno. – sollevai un sopraciglio alle sue parole ma non le commentai, nonostante mi incuriosissero non poco. Adesso avevo altro da scoprire.
Lo seguii lungo le scale, cercando di non fare caso alle occhiatacce che mi stava lanciando Bree. Sinceramente, ero tentata di girarmi e chiederle che problema avesse ma non pensavo che fosse il caso. In cima alle scale, prendemmo un corridoio a destra e lo percorremmo tutto, fino a ché non ci trovammo in un’altra stanza.
Era sempre quadrata e le sue pareti di pietra grigia, però non era stata arredata con lo stesso sfarzo della prima e si trovava in penombra.
Con la coda dell’occhio notai un piccolo uomo. Doveva avere sui cinquant’anni. Era piuttosto basso, forse qualche centimetro in meno del mio metro e sessanta, e in carne. Era seduto ad uno scrittoio, che mi fece venire subito in mente il libro Cuore, a testa china, e si guardava attorno con fare nervoso. Quando ci scorse, balzò giù dallo scrittoio e ci corse incontro, con espressione allarmata. – Arrow! Cosa ci fai, qui? Lo sai che i membri del Consiglio non vogliono essere disturbati… -
Percy gli fece cenno di smettere. – Credo che i membri potrebbero essere interessati su quello che ho da dire, Theodore. –
Theodore si accigliò per un momento, si sistemò gli occhiali rotondi e fece lo stesso coi capelli castani, tra cui vidi parecchie ciocche grigie, e scrutò con attenzione Percy che mi indicò con un cenno del capo. Al ché, l’uomo si voltò verso di me e mi guardò con attenzione. – Come ti chiami, figliola? –
Repressi a stento un grugnito, a sentire quel nomignolo. Anche se era morto, l’unico autorizzato a riferirsi così a me a quel modo rimaneva Abrahm. – Preferisco Ellison, signore. Il mio nome è Ellison Hyde. –
Al sentire il mio cognome, Theodore, che aveva alzato gli occhi al cielo al mio “preferisco Ellison”, sgranò gli occhi. – Hyde? –
Annuii con titubanza. Avrei voluto chiedergli il motivo di quella reazione, ma non me ne diede il tempo, perché corse subito all’altro lato della stanza a premere il pulsante di un citofono, che fino ad ora non avevo neanche notato, e mettersi a parlare con chi c’era dall’altra parte.
-Sì, fa Hyde di cognome. Come “potrebbe mentire”? Va bene, controllerò. – con un sospiro smise di premere il bottone e mi si avvicinò un’altra volta.
-Hai dei documenti con te, fi… signorina Hyde? –
Spalancai gli occhi a quella formalità ma annuii lo stesso e feci per prendere il portafoglio, fortunatamente l’avevo con me, sebbene non mi ricordassi neanche di averlo portato, decidendo che era meglio assecondarlo per capire meglio la situazione.
Percy, invece, sembrò non prenderla allo stesso modo. – Ma stiamo scherzando? Neanche fossimo all’aeroporto! – si bloccò di colpo e  guardò verso il basso, iniziando a borbottare qualcosa. Lo ripeté a voce più alta. – Come quando ho quasi rischiato di perdere il volo per Londra. Tutta colpa dei controlli. –
Non badai più di tanto al suo vaneggiamento, al contrario di Peter e Bree, che osservavano Percy con stupore, e mostrai il mio libretto scolastico, anche se non sapevo come ci fosse finito, lì, a Theodore, che sembrò soddisfatto anche se, usando le sue parole avrebbe preferito “una carta d’identità, che superficialità”.
L’uomo annuì e si diresse verso il portone, quando vi fu davanti, si girò verso di noi e ci fece cenno di avvicinarci.
Aprì la porta, di quercia, con delle borchie scure di metallo e alta tre metri, con un arco gotico, e tutti i membri della stanza si voltarono a guardarci.
La stanza era di forma circolare, in penombra come quella in cui stava Theodore e fatta dello stesso materiale, apparentemente. In alto a destra, nella parete che stava di fronte alla porta, vidi una piccola finestra. La stanza aveva soltanto un grande tavolo a forma d’arco. Vi erano tredici sedie, la settima spiccava tra queste, siccome era la più grande ed era una poltrona reclinabile nera, mentre le altre anonime e di legno, vuota, a differenza della maggior parte delle altre.
Una donna, alta e spigolosa, con i capelli perfettamente acconciati, si alzò dal suo posto ed appoggiò le mani sul tavolo. – E voi che ci fate qui? Stiamo lavorando. – disse con voce nasale e fastidiosa. Dimostrava quarant’anni o giù di lì. Indossava una camicetta azzurra ed una gonna che le arrivava alle ginocchia.
-Ho detto io a Theodore di farli passare, Suzanne. – la informò un uomo, posandole una mano sulla spalla, che lei tolse con uno sbuffo.
-E perché, sentiamo. – ribatté Suzanne, incrociò le braccia al petto.
-Perché nutro una grande stima di Percy, e so che vuole dirci qualcosa di importante. Ed inoltre ho i miei validi motivi. – al ché rivolse la sua attenzione a me.
Spostai il peso da un piede all’altro. Non mi piaceva essere al centro dell’attenzione ma non volevo che quest’uomo mi considerasse una debole, così ricambiai lo sguardo. Aveva i capelli color cannella, che iniziavano ad essere radi all’attaccatura. Gli occhi nocciola erano ravvicinati ed infossati, la fronte spaziosa. La mascella non era molto pronunciata. La sua altezza era nella media, così come la corporatura. Indossava un completo elegante grigio, composto da una camicia banca, una cravatta di seta ed un gilet. Mi porse la mano, che strinsi dopo un secondo di esitazione. Era fredda, come quella di Percy, ma meno morbida. – E quale sarebbe il vostro nome, signorina Hyde? –
-Ellison. – risposi, chiedendomi perché avesse omesso il fatto che ci avesse permesso di entrare anche per il mio cognome, perché era per questo, ne ero certa.
-Io mi chiamo Oliver Meyer, decimo membro del Consiglio, piacere. –
Borbottai anch’io “un piacere”. – Il motivo per cui sono qui… -
-Ah, sì, certo. – ritornò al suo posto e fece cenno ai suoi colleghi di fare altrettanto. – Dicci pure, signorina Hyde. Siamo spiacenti ma non tutti i membri del Consiglio sono qui, avevano altri impegni. – si sedette e nella stanza piombò il silenzio.
Rispiegai così una seconda volta la mia storia, di come fossi arrivata qui, dopo aver cercato di riportarci un fantasma che avevo evocato la sera prima e che ero tornata per capire come fossi capace di arrivarci.
Alla fine del mio racconto, Oliver congiunse le mani a piramide ed assunse un’espressione pensierosa. Lanciò degli sguardi agli altri membri, che quel giorno erano otto, e si rivolse di nuovo a me. – Non sappiamo come tu sia capace di fare queste cose, Ellison Hyde, se tu ed i tuoi amici foste così gentili da… -
Ma non feci in tempo per sentire il resto della frase che mi sentii strattonare. Stavo ritornando indietro.

Note dell'autrice:
Okay, in questo capitolo si capiscono un po' più di cose della storia, ad esempio il motivo del titolo e come funziona il Cimitero dei Vivi. Che ne pensate? Qui sotto vi metto i link per andare a vedere il significato dei fiori del giardino di Bree, mi sono divertita a cercarli:
-Amaryllus: 
(http://www.giardinaggio.it/linguaggiodeifiori/singolifiori/amaryllis.asp)
- Bucaneve: (http://www.giardinaggio.it/linguaggiodeifiori/singolifiori/bucaneve.asp)
- Cardo selvatico: (http://www.giardinaggio.it/linguaggiodeifiori/singolifiori/cardo_silvestre.asp) .
Diciamo che spiegano un po' della sua storia ma senza fare spoiler ^-^
Un grazie a chi ha recensito lo scorso capitolo!

 
   
 
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