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Autore: Marlene Ludovikovna    22/07/2014    5 recensioni
È il 1936 quando il giornalista inglese Thomas Bartley, durante un viaggio in Marocco, s'infatua della giovane Kitty Pfenning, una sognante ragazza austriaca sempre immersa nelle sue letture, in viaggio con i genitori.
Quando Kitty deve ripartire per l'Austria i due iniziano a scriversi condividendo tutto e continuando le loro vite. Thomas diventa un giornalista piuttosto acclamato mentre nel frattempo Kitty cresce e, con l'avvento del nazismo, è sempre più decisa a scappare per l'Inghilterra e a raggiungere Thomas.
Un legame intenso, insofferente, sincero e un po' egoistico unisce Kitty e Thomas, decisi a ritrovarsi e ad amarsi senza ritegno.
- La vide e si sentì pieno d'una gioia stridente; essa nacque spontanea dentro di lui, nel momento in cui potè risentire il corpo Kitty tra le sue braccia: ora poteva davvero sentire che era vera. Poteva toccarla, stringerla a sé e sentire il profumo dei suoi capelli.
Non erano più a Tangeri, erano a Londra. Il profumo speziato era sostituito da quello umido della stazione. Tantissimi avvenimenti si erano successi per arrivare alla loro unione e ora erano lì ed erano insieme.
“Chi tu non abbandoni, né tempesta né pioggia lo faranno tremare...” Sussurrò Kitty. -
Genere: Angst, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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  Parte prima

 


Capitolo terzo.

 

Helene Pfenning volle due guardie francesi ad accompagnare lei e la figlia per il souk.

Kitty stava sempre un passo in avanti alla combriccola, persa nella città, nelle sue vie, nei suoi sapori. Sapeva dov'era, ma era persa. Perché era lì e al tempo stesso era ovunque: era quello il modo in cui le piaceva viaggiare. Le piaceva sentirsi nel mondo.

Le bancarelle del souk erano un alternarsi di scarpe colorate, borse, incensi...

Quel mercato era il cuore della città e quando ti fermavi un secondo in silenzio, tra il chiasso e gli schiamazzi, quasi lo sentivi pulsare.

Le vie di mercati e venditori erano coperte e quando entravi ti sembrava di essere giunta in un altro affascinante mondo ombreggiato.

La cosa che colpì Kitty del Marocco era che le città non sembravano insediamenti. Sembravano direttamente connessi con la terra che abitavano.

In Europa l'uomo si era imposto, con i suoi grandi palazzi memori di gloria di re e regine, mentre lì no.

Kitty era condotta da una tenue melodia attraverso le vie ombreggiate, piene di commercianti pronti a tutto pur di vendere qualcosa.

L'odore di cuoio lavorato le riempiva le narici e, passando all'angolo tra una strada e l'altra, c'erano dei lavoratori di tessuti che lavoravano in strada con un movimento che connetteva mani e piedi, aiutandosi con entrambi nell'avvolgimento di quegli strani telai.

La ragazzina si chiedeva come dovesse essere vivere così, alla giornata. Se guadagni mangi se no sei costretto ad addormentarti con i crampi della fame che ti divorano lo stomaco, come a vendicarsi.

E il corpo quasi ti diventava un estraneo, il parassita della tua anima, un pigro gatto che non ti dà nulla in cambio, ma resta seduto nel tuo salotto e reclama di essere nutrito, se in cambio non vuoi essere graffiato.

Così il corpo si reclamava prigione pretenziosa, estraneo malevolo.

Kitty era contenta di essere quello che era. Di avere soldi, di poter mangiare fino a scoppiare. Di ordinare macarons dalla Francia spendendo dieci marchi e questo non sarebbe mai importato a nessuno perché aveva tantissimi soldi.

Pensandoci preferiva stare protetta nella stretta rassicurante della borghesia che, come un velo di pizzo, si stringeva sempre di più attorno a lei, soffocandola.

Kitty Pfenning era bella.

Era bella nel modo puro e capriccioso in cui poteva essere bella una ricca sedicenne. Era il tipo di persona che più la guardavi e più ogni singola parte di lei diventava ancora più interessante e inebriante ne era la scoperta.

Era il tipo di persona di cui l'immagine persisteva nella mente del vedente anche dopo aver distolto lo sguardo e dei gesti, dei piccoli minimi gesti, restava un eco.

La sua aria sognante, persa. Le sue scarpette rosse, i suoi calzini bianchi.

Era una bellezza fatta di bellissimi dettagli e un meraviglioso insieme e così si affermava, senza saperlo, una piccola Venere.

Dopo aver fatto qualche compera nel souk, Kitty e sua madre si fermarono in un caffè interno, non sul lungo mare.

Kitty poté continuare a leggere Poirot a Styles Court la cui autrice già da tempo adorava.

Il primo libro di Agatha Christie che aveva letto era Fermate il boia e anche lì i suoi ben delineati personaggi le erano entrati dentro, così come adorava letteralmente Poirot.

La persona che più aveva amato, però, era Sherlock Holmes.

Amava le sue deduzioni, ne amava il suo modo saccente e il fatto che la sua superiorità fosse giustificata perché lui era superiore. Kitty si era sempre chiesta come sarebbe stato un romanzo narrato da Holmes.

Probabilmente sarebbe stato tutto molto oggettivo e certe menti complesse devono essere introdotte da una persona che ne è esterna e che al tempo stesso le conosce bene.

Così nasce il personaggio di John Watson, con il nome e cognome tra i più banali tra gli inglesi, è una persona leggermente mediocre e nonostante questo la sua normalità suscita la simpatia del lettore.

Ciò che più Kitty adorava era però il rapporto tra John e Sherlock, un rapporto d'amicizia, di sostegno e in un certo senso di bisogno reciproco.

Kitty e Helene Pfenning passarono due ore nel caffè. La madre leggeva dei libri suoi e Kitty finì Poirot a Styles Court.

Il modo in cui era avvenuto l'omicidio era geniale. A Kitty Pfenning sarebbe piaciuto tantissimo applicarlo, in casa sua però le uniche persone su cui avrebbe potuto erano la madre e la servitù e non le odiava così tanto.

Il cianuro sarebbe arrivato a lei con la crema che metteva tutti i giorni uccidendola lentamente. Però Kitty amava sua madre, a modo suo.




 

Mentre Kitty Pfenning si godeva i suoi omicidi, Thomas Bartley aveva appena deciso di spostarsi dalla terrazza.

Chiese in prestito una bici alla reception, dicendo che l'avrebbe portata entro sera.

I tessuti di lino – beige i pantaloni, bianca la camicia – facevano traspirare l'aria, ma nonostante questo Tom la sentiva incredibilmente pesante, in ogni suo movimento. Si stava abituando, ma restava pur sempre la cosa più diversa all'Inghilterra che avesse mai visto.

Oltre alla bici chiese anche un percorso interessante da fare, lo aiutò un turista americano che si muoveva spesso in quella zona con la bici.

Lo ringraziò, uscì, salì sulla bici.

Man mano che si allontanava dalla città il mondo diventava sempre più arancione, più caldo, più deserticamente vivo.

Pedalava su una lunga strada, dove oltre a sé vide passare un uomo seduto su un carretto trainato da un asino e poi nessuno per tutta la sua uscita. 

Una lunga distesa di quel colore sabbioso e rossiccio.

Le sue gambe si muovevano fluide, dando la spinta sui pedali per un po', per poi fermarsi con i pedali a mezz'aria per riposarsi.

Sentiva il vento scompigliargli i capelli biondo cenere, sfiorargli la pelle.

Dinanzi a lui solamente il continuo di quella strada, l'arancione, la sabbia.

Alla sinistra di Tom il terreno finiva, per diventare un burrone, che finiva solamente con le onde marine che si abbattevano funeste sugli scogli.

Thomas sentiva l'energia sprizzargli dalle gambe che la riversavano prontamente nella spinta.

Era da molto tempo che non sentiva una felicità intensa come quella di allora.

Si sentiva parte di tutto, si sentiva una persona.

Sentiva l'oblio così vicino e quella solitudine non lo faceva sentire potete, ma desolato, e al tempo stesso così felice.

Era la felicità più bella, quella così intensa, e allo stesso tempo era così sofferente. Il cuore fu come avvolto in una corona di spine e una lieve fitta salì fino ad arrivare alla gola e alle lacrime.

Non erano vere lacrime: erano la premessa di esse, ricordando la loro esistenza con quell'impeto a solleticarti il naso, gli occhi.

La palpebra si annebbiò, con quel desiderio di essere travolto da tutto quello, e al tempo stesso la certezza che sarebbe dovuto ancora arrivare.

In quel momento Tom seppe che un giorno avrebbe pianto, ancora e ancora.

E quella, era la dolorosa felicità delle cose così belle.

Si fermò giunto alla fine della strada, seduto, a guardare l'orizzonte, il cappello che gli proteggeva la fronte.

Sopra di lui, perpetuo, quel cielo coprente.

Guardava avanti a sé con le ginocchia incrociate e in mano il suo taccuino.

Tentò di scrivere qualcosa, ma poi si accorse che non voleva trovare le parole adatte per descrivere tutto quello; certe cose meritano di restare un immagine priva di macchie d'inchiostro.

Tom si sdraiò su quella sabbia rossa, che gli ricordava quella dei campi da tennis, sporcandosi tutti i vestiti.

Restò fermo lì, con una mano a ripararsi dal sole.

Sentì le palpebre pizzicargli, le lacrime imploravano di poter uscire, contrasse il labbro, il mento si incurvò all'insù.

Restò un po' così, fermando il respiro.

Infine inspirò fortemente, per girarsi ponendo il peso sul fianco destro.

Sarebbe potuto restare lì per sempre a godere di quella adorabile sofferenza.

L'acqua scorreva sulla pelle di Tom, ormai tornato all'albergo.

Uscì con l'asciugamano intorno alla vita e si stese sul letto.

Poi si vestì e percorse la strada per andare in terrazza.

C'era un desiderio inconscio mentre si muoveva frettolosamente e saliva i gradini che portavano alla terrazza.

La luce tenue e calda del tramonto avvolgeva la splendida figura adolescenziale di Kitty Pfenning, dandole le sfumature rosa e arancioni, accarezzandone le curve accennate come se fossero i polpastrelli di un amante premuroso. 

Indossava un vestitino rosa con un nastrino bianco, che si concludeva con un bel fiocco, attorno alla vita. Adagiata sulla sdraio, il peso sulla spalla destra, dondolava la caviglia appoggiata sopra l'altra mentre scriveva su un taccuino con grande lentezza.

I suoi capelli erano acconciati in un'elaborato intrigo di trecce.

Dalla scollatura a barchetta, rifinita in un adorabile pizzo bianco, s'intravedevano i seni della ragazzina.

Aveva le curve che avrebbero potuto essere di una donna, ma c'era qualcosa di evolutivo in quel corpo, che le impediva di sembrare del tutto una ragazza, ma di avere ancora quella candida aurea puerile che di solito le ragazze perdevano verso i tredici anni, quando iniziavano ad interessarsi all'altro sesso.

Tom era stato con diverse donne, ma non c'era nulla che lo attraesse fatalmente - portandolo in quel paradiso vizioso - quanto una ragazza dalle sembianze di bambina. 

Infatti Kitty Pfenning, che avrebbe compiuto i suoi diciassette anni da poco, era a tutti gli effetti una giovane donna. Eppure quell'accarezzabile eco d'infanzia impregnava anche i tessuti che indossava, perpetuo, dolce... Ninfico.

Lo si notava dal modo in cui dondolava le caviglie – sempre nelle scarpe Oxford nere e bianche – in quel movimento spensierato, dal modo in cui sorrideva e quelle fossette andavano a riempire le sue guance, dal modo in cui si mangiava le unghie, sporcandole di rossetto, che raramente metteva. 

Perfino la sua voce sembrava contenere in sé quell'eco di giochi lontani, scampagnate tra amici, schiamazzi.

Nel momento in cui apriva la sua rosea bocca, come allo schiudersi di un petalo, Tom sentiva il suono della campana di domenica, dei giochi.

Kitty Pfenning era un eterno ed infausto paradiso che coloro che camminavano attraverso il limbo potevano intravedere, desiderare, potevano darvi un'occhiata, con la promessa e la delusione di non poterci entrare. 

Tom si fermò un secondo e strizzò le palpebre.

Kitty sembrava avvolta da una luce divina quando alzò lo sguardo verso di lui.

“Oh”, le sue labbra s'incresparono in un tenero sorriso, “Mister Bartley.”

Disse, con quella sua voce che quella volta a Tom ricordò anche quella delle dive del cinema. Quelle voci belle, dal suono piacevole, che tintinnavano nei timpani dell'ascoltatore facendoli vibrare di un piacere carico di cose irripetibili – e inestimabili! - e che allo stesso tempo sussurravano la promessa di un ritorno.

“Miss Kitty” disse Tom con un accenno di saluto.

Kitty rise sommessamente e lanciò un'occhiata in basso, verso il quadernino.

Poi fu quasi tentata di alzare lo sguardo verso Mister Bartley e la tentazione era così irresistibile che dovette mordersi la lingua, rischiando quasi di scoppiare a ridere per quella stretta allo stomaco che le causava una frenetica – quasi isterica – felicità che giungeva a lei così improvvisa in quella morsa.

Sentiva su di sé lo sguardo di Mister Bartley e lo voleva sentire. E pensò che sentirlo così era mille volte meglio che immaginarselo; mille volte meglio che immaginare Mister Darcy, Sherlock Holmes e tutti i suoi amanti immaginari a guardarla in quel modo... Oh, forse se l'era immaginato e lui non la guardava. Ma lei voleva sperare che quegli occhi azzurri, coperti di una patina di ghiaccio, fossero sul suo corpo, sulle curve delle sue coscie, delle sue spalle, delle sue braccia.

Thomas Bartley usciva da un fantastico mondo in cui le ragazze ottengono sempre il loro principe azzurro. Ma Kitty non voleva quello. Kitty voleva qualcosa di più complesso ed intricato ed ecco che, poco distante da lei, si sedeva Thomas Bartley.

Era bella la sua figura maschile, che era la cosa più vicina ad un vero uomo che Kitty avesse mai visto. Non perché Kitty fosse sempre stata segregata in casa, ma perché Tom sembrava così vero, mentre la luce ne coccolava la figura maestosa ed elegante. E lui era fatto di pregi e di difetti, come quel qualcosa di serpentino che aveva, oppure... Oppure il fatto che avesse tra i venti e i trent'anni. Ma questo era proprio quello che Kitty voleva.

Poi lui si alzò, le si avvicinò, lentamente, le sue gambe longilinee si muovevano verso di lei.

Kitty rialzò lo sguardo lentamente.

Appoggiato a terra aveva Cime tempestose di Emily Bronte, sempre in un'edizione inglese.

Tom le sorrise. In quel sorriso magnetico, luminoso.

“Ah, alla fine l'hai finito il libro” commentò indicando vagamente quello appoggiato a terra.

Kitty era volta su di lui con il viso appoggiato al gomito in un'espressione vagamente sognante.

“Mh, mh.” Disse Kitty arricciando le labbra.

Poi si alzò, non trovando una posizione comoda in cui conversare da sdraiata.

Mentre si alzava Tom notò una vaga smorfia sul suo bel volto. Sorrise.

Kitty si sedette sporta verso di lui con le caviglie incrociate e dondolanti.

Si guardarono, si parlarono. Kitty gli disse che Catherine era così egoista e che le piaceva proprio per quello, e Tom disse che alla fine forse i protagonisti più apprezzabili sono quelli che non ci piacciono e che non vorremmo mai avere come compagni di conversazione. 
Le loro parole lievi scandivano il tempo, mentre il tramonto si dissipava, lasciando sempre di più lo spazio al viola, all'azzurrino, alla sera. 

Eppure nella memoria di Kitty l'unica cosa che rimase di quella sua conversazione era lo sguardo pieno d'azzurro che le rivolgeva Tom, il suo viso avvolto nel tramonto.

 

 

Thomas l'aveva invitata a cenare con lui e i suoi compagni di viaggio e sorprendentemente frau Pfenning acconsentì a mandarla.

Kitty si presentò con un vestito color carne e i capelli portati all'indietro da un morbido chignon, il viso incorniciato dalle ciocche d'oro e rame ondulate. Al collo aveva una collanina con un ciondolo a forma di cuore con un diamantino al centro. 

C'era una parte di lei che aveva una gran paura. Temeva di scordarsi, ad un certo punto, di ogni sua conoscenza della lingua inglese, di non capire cosa dicevano e aveva anche paura di perdere la concentrazione mentre gli amici di Mister Bartley parlavano per poi dover domandare di ripetere. Questo le capitava spesso quando non era interessata a qualcosa: la sua mente si spegneva per focalizzarsi in dettagli più interessanti. Come le cravatte. A Kitty piacevano tantissimo e le collezionava rubandole al padre. Non sapeva nemmeno perché dato che non le servivano, ma le piaceva, prima di andare a dormire, aprire il suo cassetto segreto e accarezzare la morbida seta, i tessuti diversi, dai diversi intarsi e colori. 

 Quando entrò nella sala del ristorante, l'orchestra stava suonando Stompin' at the Savoy di Benny Goodman. Era una delle sue canzoni preferite dal suo clarinettista preferito.

Era impossibile non ondeggiare – to swing – ascoltandola.

Si ricordava quando aveva ascoltato quel brano, di nascosto rispetto ai genitori che pensavano stessero studiando il francese, insieme a sua cugina Henny.

Swing it Kit, Swing it!” Aveva urlato lei saltando dal letto mentre accennava un movimento scalciato.

Swing it, Schatzi!”

 Quando vide Tom da lontano, tra la folla, a sorseggiare un bicchiere dal contenuto ambrato, s'illuminò. Lui le sorrise, alzando il bicchiere.

Lo appoggiò al bancone.

“Oh, Kitty! Carissima!” Le venne incontro e la baciò su entrambe le guance sfiorandole la spalla.

Kitty rabbrividì: il loro contatto fisico prima di allora non era stato superiore ad una stretta di mano.

“Vieni, ti presento Dott – fece una pausa per lasciar susseguire le presentazioni e le strette di mano – e Max!”

La sua voce pacata e suadente le prometteva tantissime belle cose per quella sera.

Kitty stringeva la borsa nervosamente e Tom le sorrise rassicurante, notando la sua timidezza.

“Dott, Max, questa è Kitty!” Quell'allegro carisma riempì la sua voce anche solo per una presentazione, illuminando gli sguardi di tutti della sua luce.

“Oh, oh, no aspettate. Devo essere ubriaco: non ho fatto una presentazione come si deve. Rifacciamolo da capo!”

Gli altri tre risero.
Si rivolse a Dott: “Dorothy Fane – e quando si accorse del suo sguardo glaciale aggiunse “Haddleton Fane” -, Marie Katharina Pfenning.”

Si rivolse poi a Kitty: “Marie Katharina Pfenning, Dorothy Fane.”

La ragazzina tratteneva una risata in un sorriso di cui le fossette erano un gradevole annuncio.

Tom, con un'aria soddisfatta si rivolse a Max: “Maxwell Fane, Marie Katharina Pfenning.”

Per poi rivolgersi di nuovo a Kitty: “Marie Katharina Pfenning (hai un nome dannatamente lungo, tesoro!), Maxwell Fane.”

Il tutto si concluse con una risata da parte di tutti quanti.

Tom ordinò da bere, dicendo che offriva per tutti, seguito da varie proteste concluse che lui ordinava sporgendosi elegantemente verso il bancone, allungando un po' il collo, sorridendo al barista.

“Cosa prendi, Kitty?” Le domandò, voltandosi verso di lei.

“Un... Uno Spritz.” Sparò la prima cosa a caso che vide sugli scaffali pieni di alcolici.

Tom rise. “Quanti anni hai?”

“Quarantacinque!” Scoppiò in una risata Kitty mentre i loro sguardi erano inevitabilmente attratti. Era quello scegliersi che determinò qualcosa: con tutte le cose che avrebbe potuto guardare in quel posto, c'era un riflesso spontaneo in Kitty, il cui sguardo correva a Tom, che si nutriva di voluttuosi dettagli. Le sue mani unite di Kitty, la sua borsetta nera di Gucci, i piedi uniti, il peso sulla gamba destra e poi sulla sinistra. Avrebbe voluto baciare quel ginocchio bellissimo - afferrandolo con entrambe le mani -, che di tanto in tanto intravedeva dalla gonna.

Poi l'incanto finì quando Tom notò che il barista era in attesa della sua ordinazione e si risvegliò, tornando il Tom privo d'incanto nei confronti della vita. “Mathieu, uno Spritz per la ragazza!”

Il barista marocchino gli strizzò l'occhio.

Quando Tom tornò a Kitty fu spontaneo domandarlo, sperando per il meglio: “Quanti anni hai veramente?”

Kitty ammiccò. “Sedici, quasi diciassette.”

“Ah, e li compirai qui?”

“Si.”

“Allora dovremo organizzarti una bellissima festa! Che ne dici Dott, non dovremmo organizzarle una bellissima festa?”

Dott venne vicina a Kitty.

“Certo che sì, con un fantastico bar e senza te tra le scatole che se no togli la scena a tutti, super star.”

Kitty rise. Dott era la donna più strana che avesse mai visto. Ne aveva viste di bisbetiche, ma lei era eccezionale. Kitty la adorò fin da subito ed era divertente il modo in cui si prendeva gioco di Tom in modo affettuoso.

Il marito, da subito stanco di non essere preso in considerazione da nessuno, andò a bere da un'altra parte.

“No, aspetta... Max... Max...” Tentò di fermarlo Tom trattenendo a stento le risate: con Dott aveva promesso di non parlargli per tutta la sera, facendolo innervosire.

Quando si misero a tavola Maxwell Fane non si fece vedere.

“Fa sempre così... È l'uomo più noioso del mondo.” Commentò Dorothy, ridendo.

Sembrava Kitty le stesse simpatica, nonostante non fosse molto loquace quella sera: guardava tutti in modo incuriosito e ascoltava le loro conversazioni, che non erano del tutto noiose.

“Che studi frequenti, cara?” Arrivò ad un certo punto a chiederle Tom.

“Faccio il Gymnasium che è... Forse l'equivalente in inglese sarebbe la Grammar School.” Rispose sorridendo lievemente.

Bevve un sorso di Spritz. Non era molto abituata a bere alcol e il sapore non era dei suoi preferiti, ma era decisa a non darlo a vedere.

Thomas fissò il suo sguardo su di lei per qualche secondo. Improvvisamente famelico, felino.

Dott rise.

“L'hai conquistato, ragazza. Ti piace Alfred Gustav?, quello che scrive gli editoriali per il Times e che ha pubblicato quel racconto... com'è che si chiamava...”

Tom arrivò in suo soccorso: “La rosa e l'usignolo.”

“Ah, ecco cos'era... E comunque terrà una conferenza su quel libro, quindi se vuoi ti portiamo con noi – Tom accennò il consenso -... Sai, una di quelle cose un po' Baudelaire, un po' Balzac, non che io sappia molto di letteratura francese... ”

“Dottie Fane fa la modesta.” Rise Tom guardando Kitty: si sporse nella sua direzione scherzosamente, con l'aria di chi dice un segreto.

“Questa bella signora che vedi qui ha un ego più grande di Buckingham Palace.”

“Oh, questo te lo concedo!” Rise Dott.

“Fatti baciare”, continuò poi.

Tom si sporse verso di lei, che gli diede un bacio sulla fronte, spostando nella mano sinistra il bocchino da cui usciva una scia di fumo.

Kitty adorò il modo in cui Tom aveva pronunciato Buckingham Palace.

Nella sua voce pacata, bellissima, vibrante.

E ora i due amici davanti a lei – che avevano l'alchimia che hanno solo gli amici di vecchia data o quelli che si sono conosciuti da pochissimo e sentono che quel poco diventerà molto – splendevano di una luce intensa.

Kitty posò il suo sguardo sulla piccola lampada elaborata, al centro del tavolo. Aveva degli intagli in vetri diversi che sembravano piume i pavone.

La ragazza non poteva fare a meno di sorridere per la situazione in cui era. Giorni prima non l'avrebbe mai immaginato, eppure Tom e Dott sembravano quelle persone interessanti, che conoscono i giri giusti, quelle persone splendenti, carine ed educate e meravigliosamente inglesi.

La sua insoddisfazione cronica, ad un certo punto, si diramò dalla sua giovane anima, ma solo temporaneamente, sostituita da una felicità inebriante e dalla certezza che, al momento, non avrebbe potuto desiderare niente di meglio.

Sedeva accanto a Tom, che quando ordinarono il dolce le lasciò assaggiare un liquore dolce che aveva ordinato.

Kitty rise e tossì leggermente tentando di contenersi.

“È  fortissimo.” 

“Lo è” sorrise lui.

Anche Dott notò come lo sguardo di Tom si addolciva e la sua voce si pacava davanti a quella ragazzina che nella sua mente chiamava Katherine perché non sapeva il tedesco e perché, in cuor suo, odiava i soprannomi.

La scossa però l'avvertì solamente Kitty, quando il ginocchio di Tom sfiorò il suo, alzando un po' il tessuto del vestito; , mentre lui si volgeva a Kitty sorridendole affettuosamente. Lei arrossì e mentre le sue guance prendevano sfumature vermiglie le sue labbra turgide si aprivano in un sorriso carico d'imbarazzo. 

Guardò in basso.

Quel momento le diede un piacere masochistico. Il fastidio che le dava quella sensazione d'imbarazzo lottava con il fatto che si sentisse incredibilmente bene.

Finita la cena Tom, Dott e Kitty si appostarono nella terrazza, dove c'era altra gente che conversava seduta sulle sdraio e sulle poltrone.

Tom intravide il movimento della scapola di Kitty: trattenne un gemito.

Quando lei dovette raggiungere i genitori, Tom si sentì insoddisfatto e, allo stesso tempo, paziente. Avrebbe voluto sentire la presenza di Kitty vicino a sé continuamente.

Di lei restava impresso nelle narici di Thomas quel profumo, che aveva la sensazione di aver già sentito e continuava a rievocargli qualcosa.

Una sala, delle signore che parlavano, tutto era regolare e poi, quel profumo di dolce nella stanza. Quel profumo che aveva la sensazione di sentire solo lui e che lento s'impossessava delle sue narici, coprendo qualsiasi cosa.

Era un fruscio del passato che tornava ora nel presente di Tom: il dolceamaro profumo d'idillio delle ragazze borghesi.

E quel profumo, quel profumo...

Lo cullò, nel suo abisso, nel suo vizio incosciente, quel profumo... 

Quel profumo d'un fiore del male. 


 


 

Angolo Autrice.


Yay, finalmente sono riuscita a scrivere questo terzo capitolo!
Scriverlo è stato parecchio difficile, ma alla fine c'è l'ho fatta e per assicurarmi di aggiornare sempre ho deciso di mettere un giorno fisso in cui pubblicherò la storia.
Ovvero,
aggiornerò ogni martedì.
Inoltre mi scuso per l'infinita lunghezza di questo capitolo, ma non mi sembrava sensato tagliarlo, quindi l'ho lasciato così. :')
Una lettrice ha ben notato che in questa storia c'è anche l'influenza di Casablanca, film che adoro e che mi sono dimenticata di citare, quindi lo faccio ora. *^*
E poi.... E poi basta.
Un bacio e al prossimo martedì,

 

Marlene Ludovikovna

 

 

   
 
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