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Autore: Clockwise    22/07/2014    1 recensioni
«Sicura di non aver ucciso il gatto di nessuno, rubato qualche fidanzato, avvelenato qualcuno, fatto ritratti offensivi, non so… Sei piuttosto pericolosa quando ti ci metti.»
Mel finse di pensarci su.
«No, non negli ultimi tempi.»
«Beh, dovremmo cominciare a indagare sulle tue passate e presenti relazioni, allora, e cercare di scoprire chi è che hai mortalmente offeso.»
«Suona bene, Sherlock. Ci vediamo domattina a Baker Street?»
«Ah, no, domani mattina devo fare un salto al Bart’s, poi ho merenda con Moriarty, ma potrei essere libero per le tre.»
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Benedict Cumberbatch, Martin Freeman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buon non compleanno a tutti.
Temevo di non farcela e invece sono qui con un nuovo capitolo sbucato fuori dal nulla mentre cercavo di fare altro (yeah).
Parlando della storia, ho due notizie: non manca molto alla fine (salvo imprevisti e rivolte di personaggi) ma sarò via per un mese senza alcuna possibilità di aggiornare; decidete voi quale notizia è buona e quale cattiva.
Infine, un enorme grazie fluffoloso a tutte le meravigliose persone che seguono/preferiscono/recensiscono. Davvero, non so come ringraziarvi. Mi dispiace davvero immensamente dovervi lasciare per tanto tempo senza aggiornamenti, ma non posso fare altro purtroppo.
Spero di non deludervi! =)
-Clock



 
Capitolo 8
Linea disturbata a Camden Town
 
 
 
Non era tanto la cosa in sé che lo tormentava, quanto il fatto che non gliel’avesse detto. Perché? Temeva che lui si sarebbe allontanato per una storia di tanti anni prima? Che si sarebbe scandalizzato? Andiamo, pensava sapesse che era un uomo di miglior giudizio.
Non si fidava di lui, era questa la verità, alla fine, ed era fottutamente dolorosa. Perché lui si era fidato. Si era buttato in esplorazione, aveva corso giù per il pendio – da bravo idiota –, si era preso un bel tronco in fronte e adesso non gli restava che leccarsi le ferite.
Forse Martin aveva ragione, dopo tutto, forse voleva davvero approfittare della sua fama. Ma no, era assolutamente impossibile. Aveva risolto con Martin, alla fine, grazie anche all’intervento di Amanda, ma si rifiutava di credere alle sue parole, anche se queste continuavano a ronzargli in testa.
Rimanere da Mel, la sera prima, aveva significato tanto per lui. Non perché avessero fatto niente di particolare – anzi, proprio per questo. Si era sentito parte della sua vita, parte di quella casa, al suo posto. Avevano passato una serata di una banalità quotidiana terribile e Benedict aveva avuto l’impressione che fosse perfettamente naturale, aveva scorto l’immagine di molte altre serate simili che li aspettavano, nell’ordine naturale delle cose. Abbracciato a quella ragazza, davanti ad un film banale che nessuno dei due seguiva, con un cartone della pizza sulle ginocchia, Benedict era stato felice di una felicità totale e completa, rilassante. Per questo aveva dormito tanto a lungo, nonostante tutto quello che era successo appena poche ore prima, perché si era sentito a casa, al caldo, come un bambino.
E adesso scopriva che, come al solito, si era perso in fantasticherie e la vita era venuta a schiaffargli la verità in faccia.
Spense la sigaretta sul davanzale e gettò la cicca nel posacenere. Inspirò un’ultima volta, poi prese il posacenere e richiuse la finestra. Lasciò l’oggetto sul tavolino e si gettò supino sul divano, ad occhi chiusi.
Doveva fare qualcosa. Parlarle.
Sì e che le dici? “Ehi, ciao, ho sentito che ti drogavi. Dimmi, è vero?”
Mh. Forse poteva prendere la cosa più alla larga, arrivarci per vie traverse…
Sì, certo. “Sai, un mio amico faceva uso di sostanze stupefacenti. Non è che, per caso, anche tu…?”
No.
Puoi sempre ubriacarla e farla parlare. O attaccarla a una macchina della verità. O prendere in ostaggio il gatto e ricattarla, o…
No. Non c’era molto da fare, in verità, e, a dirla tutta, non voleva nemmeno obbligarla a confidarsi con lui. Gli teneva segreti? Bene, se ne sarebbe pentita, prima o poi, ma nel frattempo lui non poteva starle dietro come un cagnolino fedele.
Per fortuna le riprese della terza stagione di Sherlock sarebbero iniziate lunedì, così sarebbe stato impegnato, non avrebbe pensato a lei e avrebbe avuto poche occasioni di vederla. A ben pensare, in una sola settimana erano successe così tante cose, così tante erano cambiate. Bisognava fermarsi a prendere un respiro. Un po’ di tempo lontani avrebbe fatto bene a entrambi. Non aveva intenzione di ignorarla o tenerle il muso, no, solo guardarsi intorno, capire come stavano davvero le cose, come si sentivano. Era tempo di fare un po’ lo stronzo. Non era da lui, ma…
Alle ragazze piacciono gli stronzi.
Da quando in qua?
Lo sanno tutti, dove diamine vivi?
Guarda che sei nella mia testa.
Gne gne gne.
Idiota.
Saputello.
Chiuse gli occhi e scosse la testa. Se la situazione con la sua voce interiore andava avanti così, avrebbe dovuto vedere un analista, prima o poi, altroché.
 
°°°
 
Il gatto la scrutò assottigliando gli occhi. La signora si chinò verso di lui.
«Come si chiama questo bel micio?»
«Cos-? Ah, lui è Matisse» rispose Mel, dalla cucina, per poi voltarsi di nuovo verso i fornelli, preoccupata. Wanda colse il suo nervosismo e si alzò dal divano, andando verso di lei. Con la stessa gentilezza che Benedict le aveva usato quella mattina, la allontanò dal fornello e si occupò del tè, senza dire una parola, muovendosi sicura.
«Ecco fatto, cara. Vieni a sederti, mentre si prepara.»
Mel annuì e la seguì. Matisse saltò sul divano fra le due e si avvicinò a Mel, continuando a guardare circospetto l’altra donna.
«Le dà fastidio? Lo caccio via?» chiese Mel.
«No, affatto.»
La ragazza annuì, osservando la donna aprire la scatola e rivelare i biscotti all’interno che sparsero un profumo invitante. Scattò in piedi a prendere un piatto e ve li mise dentro.
Si morse il labbro, nel silenzio scomodo, non osando chiedere alla signora cosa fosse venuta a fare.
«Benedict mi ha detto che siete diventati piuttosto… amici» iniziò Wanda, prendendo un biscotto.
«Sì» disse Mel, senza guardarla.
«Oh, ti prego, sta tranquilla, cara. Non voglio mettermi in mezzo a voi due: avevo il pomeriggio libero ed ero curiosa di conoscerti, tutto qui. Se sei in imbarazzo tolgo il disturbo» disse la donna, sorridendo benevola.
«Oh, no, non se ne vada» si affrettò a dire Mel, alzando finalmente gli occhi. «Scusi se non parlo tanto come al solito, è che sono un po’ giù questi giorni, insomma…»
«Non scusarti, cara. Ben mi ha detto tutto.»
Mel annuì. Matisse fece un passo verso l’altra donna.
«So che sei un’artista. Posso vedere qualcosa?»
Mel esitò. Di solito non era molto entusiasta di mostrare le proprie opere al primo sconosciuto che bussava alla sua porta, ma quella signora le ispirava fiducia, dopo tutto. Ed era la madre di Ben. E avevano gli stessi occhi.
Il fischio del bollitore reclamò la loro attenzione mentre Mel mostrava ad un’affascinata Wanda il suo blocco da disegno, le bozze dei quadri che intendeva realizzare e quelli che avrebbe esposto, incrociando le dita, fra tre settimane. Arrossì quando la donna si soffermò sul ritratto di Benedict che aveva iniziato quel giorno al fiume ad Hammersmith.
Tornarono in soggiorno, sistemarono il tè e si sedettero sul divano a berlo, in silenzio.
«Sei molto brava, tesoro, non serve dirtelo» disse piano Wanda, soffiando sul tè. Mel la ringraziò.
«Quel ritratto è magnifico. Ben l’ha visto?»
Mel scosse la testa.
«Non sa niente. Volevo fargli una sorpresa.»
Wanda annuì. Forse stava diventando una vecchietta sentimentale con l’età, ma nessuno avrebbe potuto dipingere un ritratto del genere senza un minimo di affetto o coinvolgimento. Stillava amore da ogni pennellata, dalla precisione del tratto, dalla scelta dei colori, dallo sguardo di Ben dalla tela. La riempiva di gioia che suo figlio avesse trovato qualcuno che lo ritraesse così. Si chiedeva solo se sarebbe stato capace di leggere fra le pennellate e capire, un giorno.
«Sono contenta per voi due. State attenti e rimanete vicini.»
Mel sorrise e annuì. Avvertiva la tenerezza e la dolcezza di una mamma, nelle sue parole, e mancò poco che si commuovesse.
Matisse si avvicinò a Wanda e la guardò come per chiederle il permesso. Lei fece un cenno con il capo e lui le saltò in grembo, acciambellandosi sulla sua gonna scura. Mel spalancò gli occhi quando vide che il gatto aveva chiuso gli occhi e si lasciava carezzare placidamente. Per poco il tè non le andò di traverso quando si accorse che faceva le fusa. Con una persona che aveva conosciuto da quindici minuti!
Mel e Wanda chiacchierarono ininterrottamente, bevvero tè e mangiarono i fragranti biscotti alla cannella.
«Sono deliziosi. Potrei prendere in considerazione l’idea di mettere a rischio la casa e cucinarli.»
«Mettere a rischio?»
«Oh, be’, io e i fornelli non siamo molto a amici. Vado molto più d’accordo con i pompieri, o l’estintore.»
Wanda sgranò gli occhi, leggermente spaventata. Forse non doveva incoraggiare quei due, dopotutto, se teneva all’incolumità di suo figlio.
Mel l’accompagnò alla porta quasi due ore dopo, con la promessa di rivedersi – con o senza Ben.
La ragazza sparecchiò e sistemò il soggiorno sorridendo. La signora Cumberbatch era la cosa più simile ad una madre, una zia, una nonna o una sorella grande che avesse avuto da anni. Ed era una bella sensazione.
 
°°°
 
Mercoledì 10 aprile.
Mel sorrise ma non poté reprimere una fitta di senso di colpa.
Ben era stato piuttosto distante, gli ultimi giorni, si erano visti poco, e adesso lui era a Bristol per girare e sarebbe stato via fino a sabato. La cosa la turbava non poco, ma da un lato era un sollievo non dover continuare a vederlo come se niente fosse. Si pentiva amaramente di avergli mentito su Bruce, quel sabato mattina – la sua espressione dubbiosa continuava a visitarla indesiderata ogni notte –, ma non avrebbe saputo come emendare. Sperava che la lontananza agisse al posto suo.
Nonostante stesse lavorando, le inviava spesso messaggi, anche solo per chiedere come stava, e la cosa la faceva sentire solo peggio. Nessuno era mai stato così premuroso con lei.
Stava per rispondere, quando il cellulare le squillò fra le mani. Aggrottò le sopracciglia. Numero sconosciuto. Imponendosi di mantenere la calma e la voce ferma, raddrizzò la schiena sulla sedia e rispose.
«Pronto?»
«Mel? Sono Bruce.»
Chiuse gli occhi, tornando a respirare e mandandolo mentalmente a quel paese.
«Cosa vuoi?» sputò.
«Ciao, sì, sto bene anche io, grazie dell’interessamento. Tu invece, come te la passi?»
«Smetti di fare il coglione e dimmi cosa vuoi.»
«Solo parlare. Un caffè?»
«Bruce, non capisco perché diamine tutto questo interesse all’improvviso. Non ci sentiamo per dieci anni e poi…»
«Sono tornato a Londra due settimane fa. Ho saputo della mostra, anche se non sono riuscito a venire.»
«E dove sei stato?»
«Sono tornato a Liverpool. Poi ci sono stati un po’ di casini a casa, e sono venuto di nuovo a Londra.»
Mel sbuffò. Tipico di Bruce, scappare dai problemi e far finta di niente.
«Ho messo la testa a posto, però. Ti giuro, Mel, sono cambiato. Non mi faccio più, non fumo, bevo solo a Capodanno. E mi sono messo al lavoro, ho fatto un corso e adesso lavoro in un ristorante. Apprendista, per adesso, ma sto migliorando. Fra qualche anno diventerò cuoco. E mi sono preso un cane.»
«Mh. Vivo o di peluche?» fece, sarcastica e poco impressionata.
«Vivissimo. Allora, un caffè a Camden? Ti ricordi, come faceva quella canzone di Morrissey, Come Back to Camden…» canticchiò. Mel strinse i denti. Conosceva benissimo quella canzone: l’aveva sentita tre volte e aveva pianto tutte e tre le volte.
«Preferisco i gatti.»
Sentì Bruce ridacchiare.
«Ah, non sei cambiata affatto. Ti ricordi l’Elephant
«Certo.»
«Perfetto. Se non hai impegni, potremmo…»
«Venerdì, alle sei.»
«Sapevo che ci sarei riuscito alla fine…» Maledizione, poteva sentirlo sogghignare. «Oh, e dove hai lasciato il fidanzato? Viene anche lui?»
«Chi ti ha dato il mio numero?»
«Ti ricordi la vecchia Sally? La vostra vecchia vicina di casa? È la mia vicina di casa adesso, a lei l’aveva dato tua madre. A proposito, da quant’è che non la vedi, ha detto…»
«Addio.»
Gli riattaccò il telefono in faccia e dovette fare ben più di un paio di respiri profondi prima che le mani smettessero di tremare e la mente fosse sgombra abbastanza per poter rispondere al messaggio di Benedict – cosa che fece con un enorme nodo allo stomaco. Poi gettò il cellulare nella borsa maledicendolo e tornò a lavorare al suo ultimo restauro.
 
°°°
 
Giovedì 11 aprile.
Benedict scosse la testa, sorridendo. Martin lo guardò interrogativo e lui alzò il cellulare.
«Mia madre. È andata a trovare Mel e dice che ha rischiato l’infarto guardando nel suo frigo.»
Martin sorrise piano, abbassando gli occhi sulle sue scarpe. Intorno a loro, tecnici e membri della crew si muovevano indaffarati dando indicazioni alle comparse, fra cui parecchi bambini. Appena Amanda avesse finito al trucco, avrebbero iniziato a girare.
«Non vedo l’ora di vederti finire in un falò» disse Benedict, chino sul telefono. Martin gli lanciò un’occhiata fra il divertito e l’irritato.
«Spiritoso.»
Si dondolò sui talloni, mordendosi il labbro.
«Hai parlato con Mel per… quella cosa?» domandò piano, con aria casuale.
«No.» La voce di Ben, al contrario, era chiara e forte. «Ci rivedremo sabato e allora parleremo, se vorrà. Ma non voglio metterla sotto pressione. Le lascerò il suo tempo.»
Martin annuì e si tenne i suoi commenti per sé, con uno sforzo non indifferente.
Fecero loro cenno di avvicinarsi. Benedict ripose il cellulare e si incamminò verso il centro della piazza con Martin.
«A più tardi, allora, tenterò di salvarti la vita.»
«Niente penny for the guy
«Ops, no.»
«Ahi. Salvami in fretta allora.»
«Vedrò che si può fare.»
Lo guardò allontanarsi verso il regista e Amanda, il lungo cappotto svolazzante dietro di lui.
Sapeva benissimo che Ben era un grande attore, perfettamente capace di nascondere qualunque emozione sotto una maschera di ironia e calma, ma lui era Martin, il Watson del suo Sherlock, lo conosceva come le sue tasche e poteva vedere benissimo il risentimento, la delusione e l’amarezza sotto gli strati di trucco. Ma proprio in virtù della loro amicizia e per il bene del loro lavoro – non era ancora tempo di prenderlo a scazzottate, avrebbero girato quelle scene a Londra, appena tornati – decise di non fare domande.
Tutto sommato, il ruolo del dottor Watson gli veniva particolarmente naturale.
 
°°°
 
Venerdì 12 aprile.
Camden. Erano quasi dieci anni che non ci metteva più piede, dopo averci vissuto per quasi tutta la vita. Aveva dimenticato quanto fosse vivace, colorata, ma, almeno per lei, oscurata da segreti e ricordi seppelliti.
L’Elephant’s Head era rimasto esattamente uguale a come lo ricordava – pieno di gente, rumoroso e con un odore di birra che ti rimaneva addosso per tutto il giorno. Non era più abituata a posti del genere, ormai frequentava poco locali e pub, figurarsi poi affollati e vivaci come l’Elephant.
Bruce le fece un cenno dal tavolo a cui era seduto e lei si avvicinò.
«Mel! È bello vederti.»
«Non posso dire altrettanto.»
Si sedette, infastidita da tutta quella gente e quella musica ad alto volume. Forse un pub a Camden il venerdì sera non era stata esattamente una scelta oculata.
«Facciamo questa cosa in fretta. Che devi dirmi?»
Bruce sorrise.
«Tranquilla. Cos’è, hai da fare? Devi andare via presto?»
«No» rispose lei, a malincuore, incrociando le braccia.
«E allora rilassati» sorrise lui, poggiandosi sullo schienale della sedia e attirando l’attenzione del cameriere.
«Una chiara piccola per me e…»
«Anche per me, grazie.»
Quando il cameriere si fu allontanato, si rivolse a Bruce.
«Pensavo non bevessi più.»
«Oh, andiamo, non vorrai condannarmi per una birretta? E poi, è un’occasione speciale» ammiccò lui.
«Di cosa vuoi parlare, Bruce? Cosa vuoi, perché mi cerchi?» domandò, spazientita.
«Che acidella. Non parlerò del passato, se non vuoi. Volevo solo sapere che vita fai, chi sei diventata…»
«Non sono affari tuoi.»
«Ma che male c’è? Voglio riallacciare il rapporto. Solo… Mi sei mancata, Mel, tutti questi anni.»
Mel inspirò stringendo i denti.
«E va bene. Parliamo
Davanti alla sua birra Mel ritrovò a poco a poco la sua solita loquacità e un po’ della sua esuberanza. Sorrise persino, un paio di volte. Bruce, dal canto suo, tentava di essere meno ironico, invadente e indiscreto possibile – meno Bruce, insomma.
«Stai con qualcuno?» le chiese, alla fine. Era la domanda che, nemmeno troppo sorprendentemente, aveva voluto porle fin dall’inizio. Non perché fosse geloso – qualsiasi tipo di sentimento romantico era stato soffocato da tempo –, ma perché pensasse fosse giusto sapere, per lui. Era curioso di sapere chi si prendeva cura della sua Mel, adesso.
Lei abbassò gli occhi e annuì.
«C’era anche lui sabato mattina? Per questo non mi hai fatto entrare?»
«Non ti avrei fatto entrare comunque.»
Bruce sogghignò.
«Comunque sì, c’era.»
«Ah, stiamo già a livelli alti!»
«Non è come pensi!» lo redarguì lei, dandogli una pacca sul braccio, sorridendo suo malgrado. Lui rise.
«Chi è, cosa fa, come si chiama, quanti anni ha, vivete insieme, da quanto… ?»
«Ma insomma! Offrimi delle patatine e potrei prendere in considerazione l’idea di parlartene» disse lei, alzando il mento.
«Non sei davvero cambiata per niente…» sbuffò lui, per poi accontentarla. Lei sorrise.
Continuarono a parlare mentre la sera calava oltre le finestre e il pub diventava sempre più affollato. Mel gli raccontò dei quadri, spiando la sua reazione. Il ragazzo sgranò gli occhi, poi chiuse i pugni.
«Non è possibile… Chi cazzo può essere così stronzo?»
Mel si strinse nelle spalle, in qualche modo rincuorata. Rimasero in silenzio per qualche minuto.
«Ho parlato con tua madre, l’altro giorno.»
«No.»
«Mel…»
«Ho detto no.»
«Non vi parlate da Natale, è possibile?»
«Non sono fatti tuoi» disse lei, il volto di granito, gli occhi duri. Bruce strinse la mascella.
«È preoccupata da morire. Praticamente non sa più chi sei.»
«Avrebbe potuto occuparsene prima.»
«Mel, non fare la bambina, ormai non hai più motivo per non parlarle, sei solo orgogliosa…»
«Ho detto che non sono fatti tuoi. Ora piantala.»
«Mel…»
«Bruce, smettila! Non sai chi sono, è come se non mi conoscessi più, piantala di dirmi cosa fare, non sai niente!»
Lui abbassò lo sguardo e alzò le mani. Lei inspirò, costringendosi a calmarsi. Guardò l’orologio.
«Comunque devo andare, è tardi, devo chiamare Ben…» disse, iniziando ad alzarsi e a raccogliere la sua borsa.
«Ah, è così che si chiama allora, Ben. Benjamin?»
«Benedict» lo corresse lei, infilandosi la giacca, in colpa. Sentiva di aver profanato qualcosa, pronunciando il suo nome in un luogo del genere, davanti a Bruce. Si diede della stupida e scrollò le spalle.
«Benedict. Che nome pomposo» sogghignò Bruce. Bile filtrò fra le sue vene.
«Mica male, sei passata da un poveraccio di Camden a un riccastro dei quartieri alti, complimenti. Cosa fa, si diletta con un’artista bohémienne nel tempo libero, fra Ascot e l’Opera, con champagne e cucina italiana? Hai scelto bene, chissà che bei regali…» sputò Bruce, prima di potersi trattenere. Mel arrossì di rabbia.
Uno schiaffo sonoro fece voltare più di qualche testa, ma il locale era troppo affollato perché vi si prestasse troppa attenzione.
Bruce si massaggiò la guancia, sfregandosi la barba ispida, gli occhi incollati a quelli furenti della ragazza.
«Parla un’altra volta così di lui…» iniziò Mel, in piedi davanti a lui, la voce tremante, il sangue nelle orecchie, la mano formicolante.
«E cosa? Mi schiaffeggerai di nuovo?» soffiò lui, alzandosi repentinamente e afferrandole un polso, avvicinando il viso a quello della ragazza. Lei trattenne il fiato, mentre la presa di lui si faceva più salda.
«Bruce
Lui assottigliò gli occhi, scrutando in quelli della ragazza, il viso arrossato, e poi la lasciò andare all’improvviso, allontanando la mano come se scottasse. Chiuse gli occhi e respirò.
«Scusami. Non so cosa mi sia preso» mormorò, abbassando le ciglia scure.
«Pensavo davvero fossi cambiato» disse Mel, delusa. «Non farti mai più vedere.»
Si mise la borsa in spalla e uscì.
Bruce si lasciò cadere di nuovo sulla sedia e seppellì il viso fra le mani.
 
 







 
  
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