Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: sheisaflame    25/07/2014    4 recensioni
"Ho avuto un’idea. In queste ultime, maledette, quaranta settimane, ti racconterò una storia. Non sono mai stato bravo nel farlo, ma mi impegnerò.
La mia storia si chiama Harry."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
40settimane



Non credo di aver mai realizzato veramente quanto il mondo sia enorme.
Non è un semplice pianeta. È un insieme di entità differenti, di anime.
Anima. Esiste davvero? Cos’è l’anima, se non un frammento di ciò che è stato? Cos’è l’anima, se non un concentrato di ricordi? Cos’è l’anima, se non un qualcosa di flebile, di talmente effimero da scomparire come impronte sulla sabbia?
Il mio sguardo si perde sulla cartina geografica attaccata al muro di questa stanza troppo piccola, forse per coprire qualche crepa. Una cartina geografica in uno studio di oncologia. Bizzarro. Quasi a voler ricordare ai pazienti con una crudeltà sottile e quasi impercettibile tutti i luoghi meravigliosi che mai vedranno coi loro occhi.
“Signor Tomlinson.” la voce stanca del Dottor Ross mi distoglie dai miei pensieri. Mi volto, alzandomi a stringergli la mano prima di sedermi nuovamente.
“Come si sente oggi?” chiede, più per abitudine che per vero interesse.
Rispondo nella stessa, rassegnata ma ironica, maniera di sempre. “Peggio di ieri, meno di domani.”
Normalmente, Arthur Ross si sarebbe messo a ridere. Magari appoggiando le spalle ricurve allo schienale della sua poltrona, scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo. È una specie di rito, il nostro. Rimpinzarci di negatività per poi vomitarla tutta in seguito.
Ma oggi l’unica reazione è una ruga che si forma tra le sue sopracciglia folte e bianche.
Il mio cuore manca un battito, poi ricomincia a pompare sangue a velocità anormale e insana.
Mi mordo l’interno della guancia per ricompormi. Il dolore aiuta le persone a ricomporsi.
Almeno fino a quando non le uccide.
“Brutte notizie in arrivo, immagino. Ed io che contavo su Babbo Natale quest’anno.” il sarcasmo che volevo fosse pungente viene distorto da una nota di preoccupazione nella mia voce.
“Ha ragione, purtroppo. Brutte notizie sotto l’albero.”
I miei polmoni non filtrano più aria, come se si rifiutassero di collaborare, come se volessero distogliermi da ciò che il Dottor Ross ha intenzione di dirmi.
“Spari, Ross.”
Lui chiude gli occhi, unendo le mani come se stesse pregando e posizionandole sotto il mento.
“La terapia che abbiamo intrapreso qualche mese fa sta vacillando. Non perché non sia efficace, anche se le avevo preannunciato che ci sarebbero potute essere delle complicazioni, ma…perché qualcosa è cambiato, Louis. Nella sua testa.”
Deglutisco rumorosamente. I palmi delle mie mani sono sudati.
Nonostante non voglia sentire il resto, sussurro. “Vada avanti.”
“Dai primi esami avevamo riscontrato un linfoma primario. Difficile da trattare, ma non impossibile. Credevamo che bastassero le iniezioni di corticosteroidi e la radioterapia per contrastarlo, data la sua giovane età e le sue ottime condizioni fisiche.” fa una pausa. “Ma ci sbagliavamo. Non si tratta di un semplice linfoma primario.”
Dillo.
“È una metastasi cerebrale, Louis.”
Rabbrividisco, nonostante non abbia alcuna idea di cosa sia una metastasi cerebrale.
“Cercherò di spiegarglielo nel modo più semplice possibile. La sua metastasi…il suo tumore, per intenderci, è causato da un melanoma. I sintomi che ha riscontrato, come nausea, vomito, epilessia, alterazioni del suo stato mentale, sono analoghi a quelli dei tumori primitivi. Le lesioni che attualmente si trovano nel suo cervello sono causate da cellule cancerose trasportate dal sangue e connesse alla materia grigia. In teoria la cura più efficace sarebbe la radioterapia, quella che avevamo intrapreso per il linfoma, o una radiochirurgia stereotassica. Purtroppo, le sue lesioni hanno raggiunto un livello troppo avanzato, e neppure la chemioterapia sarebbe efficace.” si passa una mano tra i radi capelli bianchi.
“Perché?” sussurro a denti stretti.
“Le cause possono essere diverse, Louis, non si è mai sicuri…”
“Non intendevo quello.” lo interrompo, cercando con tutte le mie forze di impedire alla mia voce di tremare. “Perché lo chiama ‘il suo tumore’? Cazzo…come se fossi stato io a volerlo. Come se avessi pregato per avere quella fottuta metastasi! Come se…” credo di essere entrato in una fase di crisi isterica. Il mio corpo è scosso da un tremore violento e incontrollabile. Mi prendo la testa tra le mani, i gomiti appoggiati alle ginocchia, dondolandomi avanti e indietro sulla sedia.
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
“Signor Tomlinson. Non sprecherò tempo a cercare di consolarla, a raccontarle una favola. Aprire gli occhi ai propri pazienti, dirgli la verità e solo la verità, aiutarli ad accettare ciò che è nel loro corpo…questo è il mio lavoro. Quel tumore, il suo tumore, si trova nel suo cervello, Louis. Il suo. E per quanto lei possa aborrire questa consapevolezza, non potrà mai cancellarla. Potrà solo imparare a conviverci, col tempo.”
Tempo. Quel maledetto, bastardo. Un poeta giapponese di cui non ricordo il nome una volta disse ‘Chi ha tempo, ha vita.’ Ironico, per chi come me soffre della mancanza di entrambi.
“Quanto mi resta?” la domanda fatale. Tre parole.
“Difficile a dirsi.” risponde. “Mediamente, la sopravvivenza di un paziente con metastasi cerebrale è di quattro o sei mesi. Nel suo caso, Louis, possiamo aspirare alle quaranta settimane.”
Quaranta settimane. Ecco tutto quello che mi resta. Quaranta settimane. A cosa corrispondono? Nove, dieci mesi?
“Mi dispiace, signor Tomlinson.”
Quaranta settimane. Dieci mesi.
“Quindi, Dottor Ross, mi sta dicendo che mi lascerete morire?”
E, nel silenzio in cui inizio ad annaspare, capisco che ho ragione.

Dicembre 2013.
Caro Diario,
Il mio nome è Louis. Louis Tomlinson. E non so per quale cazzo di motivo io stia sprecando minuti preziosi della mia vita (che finirà entro quaranta settimane, giusto per fartelo sapere) a scriverti. A scrivere nelle tue pagine. La mia psicologa, l’ho soprannominata ‘Fusa’, mi ha consigliato di usarti come terapia. Stronzate. Peccato che sia obbligato a farlo, o si rifiuterà di aiutarmi.
Ho una metastasi cerebrale, Diario. Non starò qui a spiegarti in modo scientifico di che cosa si tratta, ma sappi che è una bastarda. E che mi sta rovinando la vita. O forse l’ha già fatto.
Sai, Diario, è strano. Non ho paura di morire. Anche se mi sono sempre considerato ateo, so che c’è qualcosa…qualcosa là fuori. Lassù. Non so cosa sia, ma potrebbe salvarmi. Anche dopo che il mio corpo sarà diventato cenere.
Ho avuto un’idea. In queste ultime, maledette, quaranta settimane, ti racconterò una storia. Non sono mai stato bravo nel farlo, ma mi impegnerò.
La mia storia si chiama Harry.
La prima volta che lo incontrai fu nel 2011. In un caldissimo venerdì di agosto, in un famosissimo festival musicale che ogni anno si svolge nella città di Leeds. Forse ne avrai sentito parlare, Diario. È il sogno di ogni singolo adolescente inglese.
Avevo diciott’anni. Mi ero concesso tre giorni di tregua dal lavoro e dalla famiglia per svagarmi col mio gruppo di amici. Eravamo in otto. Io, Stan (il mio migliore amico storico) e Alaska (la lesbica più popolare di Doncaster) condividevamo una tenda. Ai tempi non avevo ancora compreso bene la mia sessualità. O meglio, non me n’ero mai preoccupato. Avevo avuto solo una ragazza, Hannah, che avevo definito come “prima storia seria”. Non credo di essere stato davvero innamorato di lei, ma sicuramente c’era alchimia. Infatuazione, per meglio dire.
Ci avevo fatto sesso. Avevo perso la mia verginità con lei. Normale, dopo tanti mesi di relazione. Non mi sono mai curato della differenza tra piacere fisico e piacere mentale. Con lei l’orgasmo lo raggiungevo sempre, era inevitabile. Pura estasi, estasi fisica. Ma sapevo che c’era qualcosa di sbagliato, qualcosa che mancava, qualcosa di astratto ma fondamentale.
Senso di appartenenza.
Lo capii solo in seguito. A sedici, diciassette, diciotto anni…il sesso è il nucleo dei tuoi pensieri. Sesso. Sesso. Sesso. Nulla di più profondo, nulla di meno carnale. Solo l’incontro di due insiemi di organi, cellule e sangue. Nient’altro.
Ero tranquillo, quel venerdì sera. Fumammo qualche canna in compagnia, una Guinness scura a scaldarci la gola e lo stomaco, la mente leggera. Ero tranquillo. Noncurante di quello che sarebbe successo poi, noncurante di come le ore seguenti avrebbero marchiato la mia vita irrimediabilmente, riempiendola di memorie. Come un tatuaggio. Inchiostro nero sulla pelle, che ti incide, ti fa sanguinare. E cosa succede quando non riesci più ad andare avanti? Cosa succede quando i ricordi diventano troppi da sopportare per una persona sola? Come fai a rimuoverli senza soffrire? Non puoi. Perché l’inchiostro è inchiostro. Potrà sbiadire, ma non si affievolirà mai del tutto.
Quella sera, quella notte, ero inerme. Senza difese, senza un’armatura, senza nulla a proteggermi. Per tutto il giorno avevamo riso, ci eravamo svagati a ritmo di musica indie. Dopo le tre di notte (o del mattino, stessa cosa), gli organizzatori decisero che era il momento di uccidere quell’atmosfera festosa con della malinconia. Canzoni mielose, romantiche, strappalacrime iniziarono a risuonare nell’aria, costringendo molti dei partecipanti al festival a ritirarsi nelle proprie tende per trovare qualche altro svago.
“Qualcuno mi tiri una martellata nei coglioni, per favore.” esclamò Stan, ridendo e concedendosi una lunga sorsata di sambuca greca da cinque sterline.
“Ma se neanche li hai, i coglioni!” Alaska si accese l’ennesima sigaretta, rendendo l’ambiente all’interno della tenda soffocante.
I miei due migliori amici iniziarono a litigare come due marmocchi dell’asilo, mentre io mi innervosivo sempre di più. Non ero mai stato propenso ad una compagnia esagerata. Mi piaceva passare del tempo con le persone a me care, ma c’erano momenti in cui mi sentivo oppresso, intrappolato. Momenti in cui dovevo stare solo, pensare.
“Vado a fare un giro.” annunciai. Nessuno dei due mi prestò attenzione, così uscii da quella maledetta tenda, respirando a pieni polmoni l’aria calda e umida di agosto.
Camminai tra i diversi ‘accampamenti’, li definii così data l’esagerazione di alcuni, dirigendomi verso il bosco. Mi fermai dopo una mezz’ora, quando trovai una radura nascosta dalle fronde. Un luogo sereno, pacifico, dove poter rilassarsi in completa solitudine.
Le note di una delle mie canzoni preferite colmarono il silenzio della notte, e mi ritrovai a cantare, steso a terra e col viso rivolto alle stelle.
“I’ve waited a hundred years, but I’d wait a million more for you.”
Ho aspettato centinaia di anni, ma ne aspetterei un altro milione per te.
“Nothing prepared me for what the privilege of being yours would do.”
Nulla mi aveva preparato a cosa il privilegio di essere tuo avrebbe fatto.
Il rumore di un sospiro mi fece sobbalzare, costringendomi ad aprire e gli occhi e a voltarmi. Imprecai a labbra strette.
Un ragazzo minuto mi osservava, visibilmente imbarazzato, seduto su una roccia a qualche metro di distanza da me.
“Cazzo, non ti hanno insegnato a bussare?!” gli ringhiai contro.
Volevo intimidirlo, fragile come appariva, e mi aspettavo che si scusasse balbettando.
E invece, contro ogni mia previsione, iniziò a ridere. Una risata che non ti aspetteresti mai da una persona con un viso così da infante. Una risata roca, vibrante, che paralizzò l’intero universo per un decimo di secondo.
Mi ripresi quasi subito. “Cosa c’è di tanto divertente?! Avrò perso cinquant’anni di vita come minimo!” borbottai, cercando di apparire indifferente.
Il volto del ragazzo tornò serio, ma due adorabili fossette rimasero a fronteggiarmi in modo sfacciato sulle sue guance. Un impulso quasi irrefrenabile di morderle mi infiammò, ma lo soppressi con orrore, stupore e incredulità.
“Mi sembra piuttosto difficile riuscire a trovare una porta da bussare in mezzo al bosco, non credi?” disse, continuando a sorridere. Lentamente, come se stesse avendo a che fare con un animale pericoloso, si alzò e si diresse verso di me, sedendosi a pochi centimetri di distanza. Si passò una mano tra i ricci ribelli che gli ricadevano sulla fronte, sistemandosi il colletto della polo che indossava.
Diario, non dimenticherò mai il suo profumo. Mi colpì come uno schiaffo. Profumo di muschio, delicato, con una nota pungente che non riuscii ad identificare.
Dalla tasca dei miei jeans attillati tirai fuori un pacchetto di sigarette, le mie Lucky Strike rosse, accendendomene una, riuscendo così ad illuminare meglio il suo volto.
“Vuoi?” gliene porsi un’altra.
Lui scosse la testa. “No, grazie. Non fumo.”
“Come vuoi.” scrollai le spalle, aspirando.
Con la coda dell’occhio lo vidi alzare gli occhi al cielo, poi sorridere di nuovo. Una canzone in qualche modo a me familiare iniziò a risuonare.
“Hey! È una delle mie preferite!” esclamò il ragazzo. Socchiuse le labbra, delle incredibili labbra a forma di cuore, carnose e rosse, e seguì la melodia accompagnandola con delle parole.
“Who said lose your mind? Slowly it takes time, it takes time. You worry too much, all those sunny days, you worry too much. Who cares, anyways?”
Chi ha detto che hai perso la testa? Lentamente ci vuole tempo, ci vuole tempo. Ti preoccupi troppo, tutti quei giorni soleggiati, ti preoccupi troppo. A chi interessa, comunque?
Mi ritrovai a sorridere anch’io, senza un motivo valido. Mi ristesi sul prato, voltando il viso nella sua direzione, incontrando quegli occhi che mai avrei dimenticato. Occhi verdi. Verdi di smeraldo, verdi di ciuffi d’erba ricoperti di rugiada, verdi di speranza.
Mi si mozzò il respiro in gola.
Per la prima volta a me, Louis Tomlinson, mancò il respiro.
“Allora, hai intenzione di dirmi il tuo nome o no?” chiesi, arrogante.
“Harry.” rispose. “Mi chiamo Harry.”
Harry. Assaporai il suono silenzioso di quelle sillabe sulla lingua. Lo ripetei più volte nella mia testa, quasi urlandolo.
“D’accordo, Harry. E qual buon vento ti ha condotto qui, in questa notte afosa e stellata?” lo conoscevo da poco più di un quarto d’ora, ma già adoravo il suo sguardo di indignazione quando mi prendevo gioco di lui.
“Avevo bisogno di pensare.” gli angoli della bocca si distesero in un sorriso. “Allora, hai intenzione di dirmi il tuo nome o no?” mi imitò.
Risi. “Louis. Louis Tomlinson.”
“Chissà perché mi aspettavo una risposta del genere.” borbottò.
“In che senso?”
“Mi sembri l’esatto tipo di persona che quando si presenta deve fissare bene il proprio nome nella mente degli altri.”
Ci pensai su. “Mi piace farmi ricordare, credo.”
“Poi scopriremo se sarà difficile dimenticarti.”
Parlammo molto, quella notte. Scoprii che Harry, Styles era il suo cognome, aveva diciassette anni e veniva da una cittadina chiamata Holmes Chapel, nel Cheshire. Andava ancora al liceo, e dopo scuola lavorava in un panificio. Viveva con la sorella, di nome Gemma, la madre e il patrigno. Non menzionò il padre, ed io non mi azzardai a fare domande. Di solito, quando qualcuno omette qualcosa di importante dalla sua vita, è perché ha paura dei ricordi.
La notte seguente tornai nella radura, e così fece anche lui. E parlammo, ancora una volta.
E così successe l’ultima sera del festival. Stesso posto, stessa ora. Gli raccontai un po’ della mia vita monotona. Nessuna voglia di andare al college, nessun talento particolare. Una famiglia enorme e altrettanto disastrata, una madre nervosa, cinque sorelle. Un lavoro part-time in un cinema.
Sentii più e più volte quella strana attrazione che provai sin dal primo momento in cui lo vidi, ma ogni volta la repressi, la cancellai.
E poi finì. Ci salutammo come due persone che hanno condiviso parte di un tragitto, ma che poi si dividono ad un bivio. Ci salutammo come due viaggiatori solitari, come due rondini che migrano in primavera, come le ultime note di una canzone.
Non lo toccai neanche una volta. Forse per vergogna, forse per paura di una sua reazione, forse perché ero convinto che quella era l’ultima pagina di un libro letto in fretta e furia.
Ma il destino aveva qualcos’altro in serbo per me.

Gennaio 2014.
Caro Diario,
Scusa se questo mese sono stato assente. Dopo aver scritto qualche pagina…è come se mi fossi bloccato. Ma ora sono pronto a ricominciare. Almeno, così mi ha detto Fusa. Sai, dicembre è un mese che odio. Il mio compleanno, poi il Natale, Capodanno, feste ovunque, persone che non ti rivolgono la parola da secoli che poi si rifanno vive. Noioso.
Almeno mi sono goduto qualche giorno di pura tranquillità con Harry. Ma ora è meglio che continui la mia storia, Diario, prima che decida di gettarti nel camino acceso nel mio salotto.
Dopo il Leeds Festival tornai a Doncaster, la mia città natale. Ci rimasi qualche mese, e lavorai come mai avevo fatto in vita mia, mettendo da parte dei risparmi per un qualsiasi progetto futuro. Conobbi una ragazza, Eleanor, e diventammo una coppia dopo poco tempo. Avevo bisogno di affetto, Diario. Avevo bisogno di sentire il tocco di qualcuno su di me, avevo bisogno di sentire il sapore di altre labbra sulle mie, avevo bisogno di sentirmi meno solo.
Eleanor era fantastica, una ragazza d’oro. Attraente, comprensiva, gentile. Molto ingenua, non un mostro di intelligenza, viziata. Ma le volevo bene. Non quanto lei ne volesse a me, ma comunque provavo qualcosa per lei. Un senso di protezione, quasi fraterno. Ci scopavo, d’altronde era la mia ragazza, ma come sempre mancava qualcosa. Nonostante questo, tra lavoro, litigate con la mia famiglia, serate sprecate a bere coi miei amici, non ci facevo troppo caso. Mi ero abituato, convinto che ci fosse semplicemente qualcosa di sbagliato in me.
Il tempo passava veloce e monotono.
Un giorno di primavera, mi pare che fosse marzo 2012, Stan mi propose di trasferirmi assieme a lui a Manchester. Accettai senza rifletterci troppo, felice di poter cambiare finalmente aria e lasciarmi alle spalle Doncaster una volta per tutte. Ne parlai con mia madre, dicendole che avrei lavorato fino a guadagnare abbastanza da permettermi la prima retta del college, e rifilandole altre stronzate. Non so come, ma mi credette, forse accecata da una visione che si era creata di un me studioso e di successo.
A maggio il trasloco era già stato completato. Io e Stan, con l’aiuto di Alaska, avevamo trovato un appartamento squallido in periferia. Ma era pur sempre meglio di niente, e finalmente non dovevo più dipendere dalla mia famiglia.
Eleanor, come mi aspettavo, vinse una borsa di studio per l’università. Il campus della facoltà di legge dove si iscrisse era situato nel centro della città, e frequentato dai figli di papà di tutta Inghilterra. Era un ambiente fin troppo finto per me, ma finsi di farmelo piacere per non deluderla.
Trovai lavoro in un locale come barista. Non mi richiedeva alcun sforzo mentale, gli orari erano piuttosto flessibili e la paga soddisfaceva i miei desideri. Pensavo di non poter ottenere niente di meglio dalla vita.
L’estate passò senza recarmi particolari gioie o emozioni memorabili. Lavoravo, scopavo, facevo festa. Quell’agosto non riuscii ad andare al Leeds Festival, e ne rimasi amareggiato per qualche giorno. Ma ero sicuro che qualcosa sarebbe cambiato.
E avevo ragione.
Halloween arrivò inaspettato, senza preavviso. Quando diedi un’occhiata al calendario e mi resi conto che erano passati già sei mesi dal mio trasferimento, quasi mi spaventai. Non mi ero reso conto di quanto il tempo potesse trascorrere veloce.
Mi svegliai con una chiamata da parte di Eleanor.
“Lou! Ho una proposta…” esclamò, e l’eccitazione nella sua voce era palpabile.
“’Giorno, El.”
“Halloween. Party. Nel campus. Non puoi mancare. Ci saranno tutti i miei amici, vogliono conoscerti da tantissimo! Ho già in mente i nostri costumi, dobbiamo abbinarli, sai, e…”
“Quando?”
“Stasera! Passo da te tra mezz’ora per le prove!”
Mi ritrovai ad imprecare contro la segreteria telefonica.
Mi feci una doccia, cercando di sistemare il più possibile il caos creato da me ed il mio coinquilino. Eleanor arrivò puntuale come sempre, facendomi indossare un paio di pantaloni cachi, un pullover grigio fumo ed un trench scuro. Mi riempì i capelli di gel, dandogli una forma “disordinata ma sexy!” come la definì. Mi spalmò tre quintali di cipria sulla faccia, accentuò le mie occhiaie con dell’ombretto e mi porse delle lenti a contatto color rame.
“Da cosa dovrei essere mascherato, se posso chiedertelo?” sibilai, nervoso.
“Ma non è ovvio?! Pelle diafana, occhi ambra, occhiaie, capelli in disordine…Edward Cullen! Twilight! Vampiri! Romance!” sorrise, baciandomi per poi ripulirsi la bocca dalla cipria.
“Oh. Giusto. Quindi tu saresti la ragazza-zombie…?” chiesi, confuso.
“Bella.” mi lanciò un’occhiataccia. “Ma meno passiva.” rise.
Alzai gli occhi al cielo, ma alla fine decisi di accontentarla e di fingermi felice. Ci avviammo, lei fasciata da un grazioso (e minuscolo) vestito blu elettrico, diretti verso il centro di Manchester. Arrivammo al campus in venti minuti, e la festa era già nel vivo del suo corso. Eleanor mi presentò una trentina di persone di cui dimenticai il nome dopo la stretta di mano. Tutti si complimentarono per il nostro “travestimento di coppia”, e la mia ragazza ne fu più felice che mai. Dopo venti minuti decisi che era il momento di concedermi una sigaretta, così mi congedai dall’allegra compagnia per dirigermi verso la terrazza dell’edificio.
L’aria fresca e frizzante di quasi Novembre mi accolse con gioia. Mi accesi una Lucky, aspirando a pieni polmoni la mia dannazione sotto forma di nicotina e catrame.
La porta di ferro si spalancò di nuovo, e ne uscirono tre ragazzi, ridendo sguaiati.
“Torniamo dentro! Porca puttana, si gela!” esclamò uno di loro.
“Con tutta la birra che ti sei scolato dovresti essere più che accaldato, Nick.” replicò una voce roca, e in qualche modo familiare. Una voce che mi fece venire la pelle d’oca, una voce che vibrò nell’aria come una corda d’arpa.
“Fanculo, lasciamo questo stronzo per i cazzi suoi!” rispose quello che presunsi fosse Nick, rientrando nell’afa del locale assieme ad uno dei due amici e richiudendosi la porta alle spalle.
Finii la mia sigaretta in fretta, e feci per accendermene un’altra.
“Hey, poeta solitario!” l’unico ragazzo rimasto di rivolse a me, dirigendosi nella mia direzione.
Finsi di non accorgermi della sua presenza.
Si fermò al mio fianco, appoggiando gli avambracci nudi alla ringhiera della terrazza.
“Vuoi?” gli porsi il pacchetto di Lucky.
“No, grazie. Non fumo.”
Un dejà vu, o forse un flashback. Una notte stellata d’agosto. Una radura. Una canzone.
Lo riconobbi.
“Harry?”, “Louis?!” esclamammo nello stesso momento, voltandoci l’uno verso l’altro.
Il cambiamento avvenuto nel suo aspetto mi sconvolse, lasciandomi senza parole. Il diciassettenne col viso da bambino che avevo conosciuto poco più di un anno prima aveva lasciato il posto ad un diciottenne ben piazzato. I ricci ribelli che solevano ricadergli sulla fronte erano quasi del tutto scomparsi, sostituiti da un’acconciatura volutamente spettinata. Il suo corpo goffo doveva aver subito una sottospecie di mutazione, pensai. L’Harry che mi ritrovai davanti era alto, altissimo, smilzo ma allo stesso tempo con una muscolatura tonica e definita. Le spalle larghe e la vita stretta erano ben visibili, poco coperte dal semplice gilet nero che indossava, accompagnato da pantaloni attillati di pelle e stivali.
Ma alcune cose erano rimaste le stelle. Le fossette, per esempio. Insolenti, sfacciate. O le labbra. Quelle dannate labbra, quelle labbra perfette, labbra nate per essere torturate senza tregua. E gli occhi. Quei maledetti occhi, creati per essere ammirati, occhi in cui affogare.
“Sei…diverso.” commentai.
“Potrei dire lo stesso di te, Louis Tomlinson.” sorrise, passandosi una delle sue mani affusolate tra i capelli. Repressi l’istinto di farlo a mia volta.
“Notevole. Ti ricordi persino il mio cognome.”
“Avresti dovuto prevederlo.” si avvicinò di qualche centimetro. “Non sei una persona facile da dimenticare.” disse, usando le stesse parole che ci rivolgemmo mesi e mesi fa.
Sentii un calore infiammarmi le vene, e seppi che non era causato dall’alcool. Del sudore freddo mi ricoprì la schiena, il mio respiro si fece più irregolare.
“Posso farti una domanda?” chiese.
Annuii, non mi fidavo della mia voce. Non ancora.
“Da cosa dovresti essere travestito?” fece scorrere il suo sguardo su di me, sorridendo.
Alzai gli occhi al cielo. “Da un certo Edwin o Edmumd…un vampiro sexy, credo.”
Harry rise, facendo fremere l’aria tra noi. “Interessante.”
“E tu?”
“Non si vede?” fece una giravolta su se stesso, lentamente, torturandomi. Mi nutrii di ogni parte visibile del suo corpo, e mi accorsi di desiderarlo. Oh, come lo desideravo. Forse avevo bevuto troppo, forse era l’atmosfera festaiola…cercai di giustificarmi con me stesso in tutti i modi. “Sono il nuovo Mick Jagger!” esclamò.
Aspirai l’ultimo tiro di sigaretta, spegnendola contro il metallo della ringhiera. Feci uscire dalle mie labbra socchiuse il fumo restante, distogliendo i miei occhi dalla sua pelle nuda.
Lui fece per dire qualcosa, quando la porta si spalancò nuovamente.
“Lou!” la voce di Eleanor interruppe i miei pensieri. Ci raggiunse, abbracciandomi e schioccandomi un bacio sulla guancia. Harry inarcò un sopracciglio. Lei si rivolse a lui con un sorriso dolce e sospettoso allo stesso tempo.
“El, lui è Harry. Un mio…amico.” presi in mano la situazione.
Le sue labbra si incurvarono all’insù.
“Harry, lei è Eleanor, la mia ragazza.” mi sentii un bugiardo nel dirlo, anche se non riuscii a spiegarmi il motivo. Si strinsero la mano, Harry con un sorriso indecifrabile sul volto, lei con un’aria confusa.
“Torni dentro?” mi chiese.
“Un’ultima sigaretta e arrivo.” risposi. Eleanor si voltò, lanciando un’ultima occhiata a Harry, e raggiungendo i suoi amici che la stavano aspettando.
“Carina la tua…ragazza.” Harry ruppe il silenzio, enfatizzando l’ultima parola in modo divertito. Distolsi il mio sguardo dal suo, non riuscivo a sostenerlo.
“Già.”
“Forse è meglio che vada, mi sto facendo desiderare troppo.”
“Okay.”
Sobbalzai e rabbrividii quando sentii il suo respiro caldo a pochi millimetri dal mio orecchio.
“Ho come l’impressione che questa non sarà l’ultima volta che ci vedremo.” sussurrò, per poi andarsene, lasciandomi solo ed in preda al caos.

Febbraio 2014.
Qualcosa sta cambiando, Diario. Me lo sento.
Non posso più fingere.
Oggi è il suo compleanno, Diario. E sono chiuso in camera mia, circondato da vestiti sporchi del mio stesso vomito. Riesco a malapena a scrivere.
Non so se resisterò a lungo. Prima o poi le maschere iniziano a creparsi, a mostrare segni di debolezza, a vacillare.
E poi crollano.

Marzo 2014.
Siamo andati a Leeds per qualche settimana, Diario. Siamo tornati in quella radura dove tutto iniziò. È stato bello.
Harry sa, Diario, sa che sto per morire. Ora sa tutto. Ho dovuto dirglielo, ho dovuto spiegarli, ho dovuto condividere la mia sofferenza e unirla alla sua. Non era più possibile andare avanti ricoprendolo di menzogne, di bugie, di finti sorrisi. E mi sento un egoista, Diario, perché non lo merito. Non lo merito ora come non lo meritavo anni fa, non lo merito ora come non lo meriterò mai.
Quella sera, Diario, quella sera di Halloween bevvi troppo. Bevvi, cercando di cancellare il senso di inadeguatezza nato dentro di me, soffocando l’incredulità, lo stupore, il mio sentirmi così anormale, così sbagliato. Ed ero felice da ubriaco, sai? Ero arrivato al punto in cui non riuscivo a distinguere cosa fosse reale e cosa non lo fosse, e quando mi ritrovai steso nel letto di uno sconosciuto non potei fare null’altro che ridere per poi addormentarmi, o collassare.
Mi risvegliai con la testa pesante, la bocca impastata e un paio di occhi verdi a fissarmi.
Nascosi il mio viso nel cuscino, che profumava di muschio, imponendo a me stesso di stare sognando. Ma, quando le mie palpebre si sollevarono un’altra volta, Harry era sempre lì a fissarmi.
“Hey, Bella Addormentata!” esclamò.
“Cosa ci fai qui?!” chiesi, tastandomi le tasche dei pantaloni fino a ritrovare il mio pacchetto di Lucky rosse. Lo aprii, accorgendomi di essere rimasto a secco.
“Ci mancava solo questa…” borbottai.
“Forse dovrei essere io a chiederti cosa ci fai qui.” sorrise. “Dato che questa, fino a prova contraria, è la mia stanza.”
Mi misi a sedere, osservando l’ambiente in cui mi trovavo.
Effettivamente, aveva tutte le caratteristiche di una stanza da dormitorio universitario. Due letti, due piccoli armadi, una scrivania, un bagno. La parete adiacente al letto su cui ero steso, che immaginai fosse quello di Harry, era tappezzata da fotografie, articoli di giornale, quadri. Quella opposta era per lo più ornata da estratti di Playboy e calendari vari, foglietti stropicciati con numeri di telefono scritti sopra, e, notai con un sorriso, un sacchetto per i preservativi.
“Il tuo compagno di stanza dev’essere un ninfomane.” commentai.
Harry si alzò, ignorandomi, iniziando a frugare tra i cassetti di uno dei due comodini. I miei occhi si posarono sulla sua schiena, fasciata da una maglia attillata, e sulle gambe lunghe, avvolte in dei comodi pantaloni di tuta grigi.
“Ah!” si voltò con espressione trionfante e due sigarette nella mano destra. Si riaccomodò ai piedi del letto, a pochi centimetri dalle mie caviglie.
Me ne porse una, accendendosi l’altra.
“Mi avevi detto che non fumavi.” gli feci notare.
Rise, facendo vibrare il materasso. “Mentivo. Speravo di accenderti una lucina in testa.”
Aspirai piano. “Quindi sapevi che ero io.”
Si voltò nella mia direzione, passandosi la punta della lingua sul labbro superiore.
“Sì, sapevo che eri a quella festa e sapevo che non avresti resistito troppo a lungo senza concederti di fumare.” fece una pausa, posizionando la sua sigaretta tra le labbra carnose. “Insomma, sapevo dove trovarti.”
Mi osservava con uno sguardo malizioso che non gli riconobbi. Non era l’Harry che avevo conosciuto a Leeds, ma un suo surrogato che l’aveva sostituito con prepotenza. Ero confuso. Perché nella mia vita non avevo mai desiderato altro con più insistenza che le labbra di Harry Styles in quel momento. Eppure…eppure questo desiderio mi spaventava. Perché non era normale, perché non doveva essere normale.
La realtà si ripresentò ai miei occhi, chiara e nitida.
“Devo andare.” diedi un’occhiata all’orologio appeso al muro. “Il mio turno inizia tra tre ore.”
Harry mi guardò, sorpreso. “Adesso? Conciato in quel modo?!” sorrise.
Mi alzai, dirigendomi verso il bagno. Il mio riflesso nello specchio quasi mi spaventò. L’effetto “disordinato ma sexy” donatomi dal gel era scomparso, lasciando posto solo al disordinato. La mia pelle era grigia, con qualche residuo di cipria e di ombretto scuro, anche se le occhiaie color pece erano reali. E l’odore che emanavo non era dei migliori.
“Puoi farti una doccia qui, se vuoi. Non fare complimenti.” mi disse Harry, appoggiato allo stipite della porta.
“D’accordo.” risposi. Odiavo dover essere in debito con qualcuno. “Grazie.” aggiunsi, per non sembrare scortese.
Effettivamente, la doccia ebbe un effetto benefico. Mi rilassò, scacciò via gli ultimi postumi della sbornia e mi aiutò a liberare la mente dalle preoccupazioni. Quando uscii, mi accorsi che Harry aveva lasciato sul lavandino un paio di boxer neri, dei jeans scuri ed un maglione bordeaux, mentre i miei vestiti sporchi erano spariti. Indossai tutto in fretta, ripiegando gli asciugamani e rimettendoli a posto.
Lui mi aspettava, seduto a gambe incrociate sul letto in cui avevo dormito, intento a leggere.
“Meglio?” chiese. Annuii.
“Ora puoi scappare come una prostituta minorenne dalla camera d’albergo di un attore famoso.” aggiunse.
Inarcai un sopracciglio, indignato da quel paragone.
“Peccato che io non sia la tua prostituta, Harry.” alzai gli occhi al cielo.
“Già…un vero peccato!” rise, scuotendo la testa. Mi persi nell’osservare la sua mascella quadrata e ben definita.
Qualcuno bussò alla porta, salvandomi da quella situazione complicata.
“È aperta!” gridò Harry.
Un ragazzo alto e magrissimo entrò, scrutandomi con un paio di occhi nocciola ed un’espressione insolente.
“Hey, Nick! Sei vivo.” Harry si alzò immediatamente, raggiungendo l’amico e afferrando la tazza di caffè che l’altro gli porgeva.
Decisi che era il momento di andarmene. “Grazie per i vestiti e per…l’ospitalità, Harry.”
Aggirai il ragazzo di nome Nick, che già mi infastidiva nonostante lo avessi appena conosciuto, e rallentai mentre varcavo la soglia, sperando in un’altra parola da parte di Harry.
Che non arrivò.
Nick chiuse la porta violentemente dietro di sé, e lo sentì ridere. Mi trattenni dal bussare nuovamente, ed iniziai a camminare verso l’ala femminile del campus. Quando arrivai, però, persi tutta la voglia (già molto flebile) che avevo di vedere Eleanor.
Tornai a casa amareggiato, con ancora qualche postumo da sbornia. Mi sedetti sul divano, prendendomi la testa tra le mani.
Era bastato rivedere Harry Styles, anche solo trascorrere qualche minuto in sua compagnia, per risvegliare il desiderio che avevo di lui e che tanto avevo represso quando ci incontrammo la prima volta.
“Che cazzo stai combinando, Tomlinson?” sussurrai, per poi cadere in un sonno tormentato da occhi color smeraldo.

Aprile 2014.
Ci rivedemmo, Diario. Più volte. Sul tetto del campus, che divenne il nostro rifugio, il nostro luogo d’incontro nascosto agli altri. I primi pomeriggi pensai che fosse tutto nato per caso, che fosse un gioco nato tra noi due, un gioco innocente. Ma non mi ero reso conto di quanto fosse pericoloso.
Perché le ore trascorse con Harry mi lasciavano sempre spiazzato, inerme e sempre più confuso. In bilico tra ciò che volevo con tutto me stesso e ciò che mi rifiutavo di vedere, in bilico tra giusto e sbagliato, tra vero e falso, tra normale e non.
Normale. Esiste davvero qualcuno normale? Forse siamo tutti strani, tutti pazzi. Ci raccontiamo delle favole, fingiamo di credere a quelle favole, e poi quando è troppo tardi realizziamo che erano un mucchio di stronzate.
E così accadde a me, quando capii di aver perso la testa per Harry Styles.
Smisi di essere normale. Smisi di essere razionale, smisi di essere schiavo del mio autocontrollo.
Accadde la sera del 23 dicembre.
Eravamo sul tetto, ovviamente. Eleanor sapeva che ero al lavoro, come tutte le volte d’altronde, mentre Stan credeva fossi con lei. E invece mi trovavo all’ultimo piano di un edificio in compagnia della persona più criptica e affascinante dell’intero universo.
“Sai cos’è buffo, Lou?” mi disse Harry. Il modo in cui pronunciava il nomignolo che mi aveva affibbiato mi diede i brividi.
“Cosa?”
“Diventiamo ciò che odiamo.”
Non seppi per quale motivo, ma in quel momento quasi piansi. Perché quella frase era così vera, così dannatamente vera, che mi fece male. Mi fece male, rigettandomi in un mare di ricordi che non volevo condividere. E invece, per ironia della sorte, decisi di farlo.
“Credo di odiarmi, Harry.” mormorai, voltandomi nella sua direzione. Era steso sul pavimento freddo, con gli occhi chiusi, e respirava lentamente. Lo ammirai come un professore d’arte ammira un’opera di Leonardo. Era troppo, troppo da sopportare.
“Perché, Louis?”
Chiusi gli occhi a mia volta, oppresso dall’importanza di ciò che stavo per confessare, più a me stesso che a lui.
“Per l’effetto che mi fai. Perché non posso impedire al mio corpo di sentire ciò che sente quando ti vedo, perché non riesco a resistere neanche un giorno senza udire la tua voce, perché non è sano volere qualcuno quanto io voglio te, cazzo. E vorrei essere normale, vorrei poter essere normale, ma non ci riesco.” feci una pausa. “Non ci riesco.”
Improvvisamente, sentii le sue mani calde appoggiarsi ai lati del mio viso. Era la prima volta che ci toccavamo. Eravamo entrambi consapevoli dell’attrazione che ci univa, ma nessuno dei due aveva mai preso l’iniziativa. Era tutto troppo complicato.
Eppure, Harry lo fece.
“Apri gli occhi per me, Lou.” sussurrò, il suo respiro caldo e dolce a solleticarmi il viso.
Obbedii, anche se non ero pronto a fronteggiare quello che mi aspettava.
“Non…non pensare mai più cose del genere. Tu sei normale, Louis. Sei forse l’unica persona normale che io conosca!” i suoi occhi erano spalancati e brillavano, giuro che brillavano. Sembrava spiritato, sembrava un prete intento a recitare un rosario, uno scultore che esaltava la sua miglior statua. “Ma non puoi continuare a mentirmi, a mentire a te stesso. Non puoi impedirti di provare ciò che provi. Semplicemente non puoi.”
Provai ad interromperlo, ma lui mi precedette.
“Perché è quello che sento anch’io, Louis.”
Per la prima volta, l’apparente armatura inscalfibile che Harry Styles si era costruito addosso vacillò. Non era più il ragazzo arrogante che avevo imparato a conoscere, ma era tornato il diciassettenne spensierato di Leeds.
“Ma…forse hai ragione tu. Forse è tutto sbagliato.” si alzò, staccando le mani grandi dal mio viso. “Devo andare.”
Non riuscii a fermarlo. Per quanto volessi, non ci riuscii. Lo guardai andare via, desiderando ancora una volta di poter essere nella sua testa.
Il giorno dopo, il giorno del mio compleanno, scoprii che lui e Nick erano diventati una coppia. Non riuscii a spiegarmelo, e neanche ci provai.
Diventiamo quello che odiamo.
Mi ripetei quelle quattro parole nella testa ininterrottamente, cercando una soluzione, un segno, un qualcosa che potesse aiutarmi a capire.
Diventiamo quello che odiamo.
Cosa sei diventato, Harry?
Gennaio fu un mese duro, per me. Il 2013 era iniziato nel peggiore dei modi. L’assenza di Harry si faceva sentire, e le mie condizioni fisiche sembravano peggiorare di giorno in giorno. Inizialmente diedi la colpa ad una leggera influenza, anche Stan l’aveva contratta, ma i sintomi si prolungarono, e sembravano non avere intenzione di fermarsi.
Mia madre ed Eleanor, con la quale i rapporti sembravano essere compromessi ma che comunque ancora teneva a me, mi convinsero a visitare uno specialista.
E scoprii di avere il cancro.
Le aspettative di sopravvivenza erano piuttosto buone, così disse il mio oncologo. Ma un cancro era pur sempre un cancro. Realizzai che, in qualunque maniera fosse finita, la mia vita non sarebbe stata più la stessa.
Una mattina di metà gennaio ricevetti una telefonata.
“Louis.”
“Harry?!” rimasi per qualche secondo senza parole.
“Possiamo vederci? Ho bisogno di parlarti. Per favore.”
“D’accordo, ma…”
“Dammi un’ora e sono da te.”
Mi chiesi come faceva a sapere il mio indirizzo. Poi decisi di alzarmi dal letto, farmi una doccia, sistemare il mio appartamento sudicio. Stan era fuori, per fortuna, così avremmo potuto parlare tranquilli. Era passato più di un mese dal suo ultimatum sul tetto, e non mi sentivo ancora forte abbastanza da rivederlo. Ma, alla fine dei conti, volevo concedergli un’altra possibilità.
Arrivò in anticipo, ed entrò dalla porta principale praticamente correndo.
“Louis.” i suoi lineamenti perfetti si distesero quando mi vide.
“Quanto tempo, Harry.” risposi. Ero arrabbiato, furioso. I sentimenti che provavo per lui non erano svaniti, ma allo stesso tempo capii che non dovevo permettergli di sconvolgere la mia vita ancora una volta.
Si scompose per qualche secondo di fronte alla mia freddezza, ma si riprese quasi subito.
“Mi odi, lo so. Sono stato un coglione, ma non sapevo cosa fare, Louis. Quando ti ho detto che tutto era sbagliato…mentivo. Sono io ad essere sbagliato. Sono io a non essere abbastanza. Quando ci incontrammo a Leeds…non ti parlai di mio padre. Ma ti devo una spiegazione, te la devo. E ora te la darò.”
Si sedette sul mio divano, prendendosi la testa fra le mani come avevo fatto io quella sera di dicembre. Era così vulnerabile, così apparentemente innocente, che volevo solo stringerlo tra le braccia. Ma mi trattenni, come sempre.
“Ho sempre saputo di essere gay, Louis. Sono nato così, e non posso cambiare ciò che sono. Ho sempre provato attrazione per gli uomini, ma non me ne sono mai vergognato, mai, neanche una volta. Fino a quindici anni riuscii a nasconderlo alla mia famiglia, ma poi la verità venne fuori. Mia sorella mi vide con un ragazzo. Non ti racconterò le circostanze in cui tutto è avvenuto, ma ti basti sapere che dopo poco tutto il quartiere era a conoscenza della mia…situazione.
Mio padre è sempre stato un conservatore. E forse dire conservatore è minimizzare. Aveva una sua visione del mondo, di ciò che era giusto e sbagliato, e niente avrebbe potuto distoglierlo dalle sue opinioni. Quando scoprì che ero gay…non fu violento. Non mi picchiò, non provò a farmi del male fisico. Semplicemente, per lui smisi di esistere. Non ero più nulla. Non ero suo figlio, il figlio che prima adorava, non ero neanche più una persona. Ero solo una macchia d’inchiostro sulla nostra famiglia, la vergogna.” si fermò, rivolgendomi un sorriso stanco. Mi sedetti ai suoi piedi, prendendogli le mani e catturandole tra le mie. Non avevo intenzione di lasciarle andare presto. Questa volta, nonostante quasi lo odiassi, non lo avrei lasciato scappare.
“Mi trasferii da una zia che viveva nella mia cittadina, era sempre meglio che rimanere all’inferno. I rapporti con mia madre e mia sorella iniziarono a diventare nervosi, soprattutto perché dopo qualche mese mio padre si ammalò. Ed io mi rifiutai di vederlo, Lou. Persino nei suoi ultimi giorni di vita…non gli concessi una seconda possibilità. E lo lasciai morire senza il mio perdono, lo lasciai morire senza un abbraccio o un sorriso. L’ho lasciato morire, e ora non saprò mai se per lui contavo ancora qualcosa.”
Strinsi le sue mani come un naufrago si aggrappa alla corda che lo salva.
“È di questo che ho paura. È per questo, Louis, che il nostro rapporto è sbagliato. Perché tu sei…tutto ciò che c’è di bello e puro nel mondo. Ed io mi sento così legato a te che quasi non mi sembra possibile, e non voglio perderti. Perché quando tieni troppo a qualcosa finisci per perderla, Louis, perché non sono ancora forte abbastanza da sopportare un altro addio. Perché diventiamo quello che odiamo. Ed io sono diventato un codardo, e…”
Non riuscì mai a finire quella frase, e non seppi mai cosa volle aggiungere. Perché lo baciai. Contro ogni logica, ogni senso di razionalità, appoggiai le mie labbra sottili sulle sue, carnose e scure. E sentii che non c’era nulla di più giusto, di più perfetto. Come due tessere di un puzzle che finalmente si uniscono, come un viaggiatore nel deserto che finalmente scopre un’oasi, come una madre che allatta il proprio figlio per la prima volta.
Mi sentii a casa. Gli afferrai il viso tra le mani, le passai tra i suoi capelli, lo strinsi di più a me. La sua bocca si muoveva a sincrono con la mia, e non c’era nulla di sbagliato in tutto ciò.
Provai qualcosa. Finalmente provai quel senso di appartenenza che tanto mi mancava.
Le sue labbra erano morbide, piene, meravigliose. Harry, con dita tremanti, mi accarezzò il collo e le clavicole, dandomi i brividi. Persi il controllo, totalmente. Lo persi.
Gli sfilai la maglietta, rivelando quel corpo che tanto avevo desiderato. Era perfetto. Gli baciai il petto, lo stomaco, le braccia, i lobi delle orecchie, e ancora il petto. Volevo farlo sentire al sicuro, volevo dargli quell’amore che gli era stato negato da suo padre.
“Louis…” sussurrò sulla mia pelle.
Mi fermai, incontrando il suo sguardo. Aveva le lacrime agli occhi.
“Grazie per avermi dato un’altra possibilità.”
Sorrisi, e sorrise anche lui.
In quegli attimi che tutt’oggi rivivo nei miei sogni, dimenticai per un momento il cancro. Perché quello era il mio piccolo paradiso personale, e lì il dolore non poteva raggiungermi.
Almeno così credevo.

Maggio 2014.
Mancano sedici settimane, Diario.

Giugno 2014.
I mesi che seguirono furono i più felici della mia vita.
Arrivai a conoscere Harry più di quanto conoscessi me stesso, e viceversa. Tutto sembrava avere un senso, ora. Tutto combaciava, tutto era al proprio posto.
Lasciai Eleanor, dissi tutto a Stan e a mia madre. Quest’ultima non la prese bene, ma non m’importava. Non avrei permesso alla mia famiglia di rovinarmi come era successo ad Harry. Non potevo permettermelo.
La primavera arrivò, e il colore dei fiori di ciliegio che crescevano nella campagna inglese mi ricordava quello delle sue labbra. Oh, quelle labbra, Diario. Non riuscivo a smettere di baciarle, torturarle, osservarle. Non che a Harry dispiacesse.
Una sera di maggio litigammo. Non ricordo neppure il motivo, ma fu pesante, molto pesante.
“Non scappare, Harry. Non scappare come hai sempre fatto.” gli dissi. Sì, gli dissi proprio così. Volevo fargli male. Volevo che si pentisse.
“Sono stanco di dovere dare spiegazioni, cazzo!” mi rispose.
Ero furioso, troppo furioso. Non riuscivo più a controllare le mie parole, Diario.
“Mi ringraziasti per quella seconda possibilità, Harry. Perché non eri pronto a perdermi come avevi perso tuo padre. Ma devi sapere…devi sapere che io non ho più tempo per le persone che scappano. Non ho più tempo perché c’è qualcosa che non va in me, Harry.”
Lui si fermò sulla soglia della porta. Si voltò.
“Cosa…cosa intendi dire?” tratteneva il respiro.
“Sono malato, Harry. Ho un linfoma. E tra poco dovrò intraprendere una terapia, ma io non lo so…non ho più certezze. Potrei sopravvivere come potrei morire. E tu non puoi scappare adesso, Harry. Non puoi. Perché hai già lasciato morire qualcuno senza di te, e non puoi…”
Iniziai a piangere. Iniziai a piangere perché in tutti quegli anni non avevo mai saputo cosa significasse temere di perdere qualcuno, e ora la realtà si rivelava ai miei occhi. Caddi in ginocchio, e Harry fece lo stesso. Ci raggiungemmo e ci abbracciammo, stesi sul pavimento i casa mia. Le mie lacrime mischiate alle sue, salate.
“Tu non morirai.” sussurrò Harry, forse cercando di autoconvincersi. “Non adesso che ti ho trovato. Non adesso che ho capito che ti amo.”
Il mio cuore fece i salti mortali, si bloccò, ripartì, accelerò.
Harry mi amava. E anche io lo amavo. Era così semplice.
“Ti amo. Ti amo. Ti amo.” continuava a sussurrare mentre mi accarezzava il viso.
“Ti voglio mio, Louis. Adesso. Qui e ora.” disse. Rabbrividii.
Mi costrinse a guardarlo negli occhi. Quegli occhi verdi che ero sicuro sarebbero stati capaci di far resuscitare un corpo morto, di far interrompere una guerra, di guarire una ferita.
“Ti fidi di me?”
Sapevo cosa stava per succedere, eppure…eppure non avevo paura. Mi ero sempre vergognato del mio corpo, ma Harry riusciva a farmi sentire speciale, riusciva a farmi sentire la persona migliore del mondo. E mi fidavo, mi fidavo più di lui che di me stesso.
“Sì.”
Harry rimase immobile per un secondo, forse non mi credeva. Così decisi di prendere l’iniziativa. Gli sbottonai la camicia, e tremavo, e gliela tolsi dolcemente. Gli sbottonai i pantaloni, sfiorando l’elastico dei boxer.
Poi lui si risvegliò, improvvisamente. Con foga mi sfilò i vestiti, lanciandoli lontano da noi. Respiravamo affannosamente l’uno nelle labbra dell’altro, sopraffatti dall’importanza di quel momento che stavamo per condividere.
Quando la sua mano sfiorò con foga la mia erezione, ebbi un sussulto.
“Sei sicuro di fidarti di me?” chiese un’ultima volta.
Annuii, mordendomi il labbro. Lui sorrise.
Con una lentezza esasperante rimanemmo nudi, l’uno di fronte all’altro. Ci osservavamo con gli occhi pieni di stupore.
“Sei bellissimo, lo sai?” mormorai, asciugandogli una lacrima che faceva capolino dalle sue ciglia.
Harry non disse niente, ma continuò a guardarmi negli occhi. Si posizionò meglio tra le mie gambe, avvicinando il mio petto al suo. Mi accarezzò la schiena con le dita calde e scese, scese, scese…fino a che non arrivò laggiù. Appoggiai la testa nell’incavo della sua gola. Infilò un dito, e poi due. Urlai contro la sua pelle, aggrappandomi alle sue spalle.
“Non fermarti…” mi morsi l’interno della guancia per soffocare il dolore.
“Non avevo intenzione di fermarmi, Lou.” disse con quella voce roca che mi fece impazzire, mordendomi il lobo.
Mi torturò più volte, fino a che la sofferenza non si trasformò in piacere. E poi, quando meno me l’aspettavo, mi penetrò tutto d’un colpo. Mi strinsi a lui in un abbraccio che mi parve infinito. Harry iniziò a muoversi più veloce, sempre più veloce…soffocando i suoi gemiti nella mia carne. Sussultai più volte, mordendogli il collo e graffiandogli la schiena.
E poi raggiungemmo il culmine, assieme.
“Ti amo!” urlai nel pieno dell’estasi.
Non mi ero mai sentito così vicino a qualcuno, mai. Piansi di nuovo, ma questa volta di gioia. Perché era così che doveva essere. Perché la felicità aveva preso il nome di Harry, e l’amore mi riempiva il cuore e sembrava volerlo farlo scoppiare. Piansi perché avevo qualcuno per cui lottare, e non mi sarei arreso, non ora che avevo provato cosa significava davvero appartenere a qualcuno. Sarei stato disposto a morire per Harry, ma era ancora troppo presto.
Ci addormentammo abbracciati, stretti. Non avevamo bisogno di parole. I nostri respiri che su univano colmavano il silenzio.

Luglio 2014.
Ecco, Diario. Ecco come ho trovato l’amore.
Non voglio raccontarti altro. Primo, perché non voglio sprecare neanche un secondo di quello che mi rimane. Secondo, perché sono geloso dei miei ricordi. Non voglio condividerli con nessun’altro, se non con me stesso.
Poco più di due mesi a…a cosa? Alla fine? Non lo so. Lo scoprirò presto.

Agosto 2014.
Ultime sei settimane.
Ho paura. Ma devo essere forte. Oggi fa caldissimo fuori.
La mia stanza d’ospedale è troppo bianca.
Che imbarazzo, Diario, non sono nemmeno io a scrivere. Un’infermiera ha deciso di darmi una mano e farlo al posto mio, dato che non riesco nemmeno a sollevare una mano. Non senza tremare violentemente.
Un raggio di sole. È bello, il sole. Caldo, brillante, rassicurante.
Ho freddo.
Sei settimane. Tic tac, tic tac. Il tempo corre, Diario.

Settembre 2014.
Oggi è iniziata la quarantesima settimana.
Harry sta dormendo con la testa appoggiata al mio stomaco. Dorme, e sembra un angelo.
Vorrei riuscire ad accarezzargli i capelli, ma i tubi che imprigionano le mie braccia mi impediscono di farlo. Il bip fastidioso della macchina che mi tiene in vita al mio fianco è l’unico rumore presente nella stanza.
Mi aveva promesso che non sarebbe scappato più.
E non l’ha fatto.
Sono felice. Nonostante tutto, sono felice.
Fuori è buio.

24 Dicembre 2014.
Caro Diario,
Mi chiamo Harry. Forse avrai sentito parlare di me, in questi mesi. È strano…Lou non mi aveva mai detto di te.. L’ho scoperto per caso, quando…quando hanno dovuto dividere i suoi beni tra i parenti. E chissà come, chissà perché, Louis voleva che tu diventassi mio, Diario.
Non mi piace scrivere. Non mi piace esprimere le mie emozioni.
Oggi è il suo compleanno. Fuori nevica. È tutto bianco, tutto puro. Come lui.
Non…non voglio dilungarmi troppo, Diario. Non mi appartieni, e mettere nero su bianco queste parole mi sta facendo più male di quanto pensassi.
Louis non diceva mai bugie, sai? Ha mentito solo una volta, da quando l’ho conosciuto.
Ha mentito quando mi disse “Harry…non esiste nessuno al mondo che ti ami più di quanto ti amo io. Nessuno.”
Ma si sbagliava.
Perché quel nessuno sono io.
Auguri, amore mio.
Tuo, Harry.

  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: sheisaflame