Serie TV > Supernatural
Segui la storia  |       
Autore: ELE106    26/07/2014    6 recensioni
È possibile psicanalizzare un Winchester?
(...) Il dottor William Holmes era un uomo onesto e preciso. Un professionista serio, stimato, uno di quelli che amano il proprio lavoro e lo onorano svolgendolo con la giusta combinazione di cuore e mente, buon senso e competenza. Era sempre stato un ottimo osservatore, con straordinarie doti deduttive e l’indole buona di chi desidera davvero aiutare le persone, senza alcun secondo fine. (...) L’osservazione diretta era il suo punto di forza. Il corpo parlava più di quanto si credesse comunemente, bastava saperlo leggere, bastava non farsi sfuggire i dettagli. E quello di Dean Winchester era particolarmente loquace. (...) ‘Possibile comparsa di impulsi sessuali per il fratello minore. Li reprime. Frustrazione e aggressività derivate. Indagare.’ (...) Buona lettura ;)
[wincest]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Dean Winchester, John Winchester, Sam Winchester
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate | Contesto: Prima dell'inizio
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 8.






 

Febbraio 1999, Baltimore Police Department, 601 East Fayette Street - Maryland

 

 

Lo fecero accomodare nella sala interrogatori 4.

Al buio, attraverso lo specchio unidirezionale, Holmes riusciva a vedere Dean, seduto scomposto ad una scrivania, sistemata al centro di una piccola stanza vuota e male illuminata, mentre picchiettava ossessivamente il piede a terra.
Lo osservò a lungo in silenzio, in piedi di fronte al vetro, le mani giunte dietro la schiena, ripercorrendo con la mente le ultime settimane trascorse da che si erano incontrati e parlati la prima volta. L’ostilità e il vigore che aveva percepito in lui si erano come spenti; Dean era curvo, sconfitto, abbattuto.

Holmes si sentiva allo stesso modo.

Avevano perso contro quel mostro chiamato amore? O poteva ancora aiutarli?

Il dottore non era in grado di darsi una risposta. E detestava la sensazione.

Lentamente, si voltò dando le spalle a Dean, e si accomodò su una delle sedie poste lungo la parete opposta al vetro; accavallò le gambe, appoggiando il piede sul bordo del basso tavolino di fronte.
Ad illuminare la sala, solo la poca luce che proveniva dalla stanza in cui si trovava Dean.

Rifletté su quanto stava per fare e sulle conseguenze delle sue decisioni.

Era consapevole di ogni possibile ripercussione personale e professionale, perfettamente conscio di star per infrangere le regole su cui si fondava il suo lavoro, i valori in cui lui stesso credeva e rispettava da sempre; Holmes sapeva che dopo i Winchester nulla sarebbe mai stato come prima, ma sentiva che era la cosa giusta da fare.

Non si sarebbe tirato indietro.
E se c’era qualcuno di cui si fidava, qualcuno a cui poteva chiedere di condividere un tale fardello, quel qualcuno era John Watson.



Lo attese in silenzio.


 

*

 

Conosceva John da oltre vent’anni.
Holmes ricordava ancora con divertimento e affetto, anche se in maniera assai appannata e vaga, la saletta del pronto-soccorso asettica e verdognola dove un confuso e malandato se stesso, in stato semi confusionale alcolico, sedeva scomposto su una barella col naso rivolto all’insù, nel vano intento di arginare la copiosa emorragia in corso, dopo essersi scontrato con... no, questo non era mai riuscito a ricordarselo.

Era giovane, l’università offriva fin troppi svaghi, lui si annoiava spesso ed era stato più o meno per questo che si era lasciato trascinare ad una di quelle feste assurde tra confraternite del Campus; aveva bevuto e probabilmente irritato qualcuno, le aveva prese (e anche date, dal poco che era riuscito a capire) ed era finito in manette prima di riprendere conoscenza in ospedale.

John Watson era fresco di addestramento e aspettava che il medico di turno visitasse il ragazzino ubriaco e lo dimettesse, per riportarlo in centrale e fargli smaltire la sbornia durante le canoniche ventiquattro ore al fresco per ubriachezza molesta e resistenza a pubblico ufficiale.

Si erano conosciuti così.

L’agente Watson non aveva fatto altro che rimproverarlo e bacchettarlo come si faceva coi bambini, mentre il giovane William malediceva i superalcolici, i compagni universitari e il gigantesco mal di testa che sentiva spingere dietro gli occhi, mentre sperimentava l’alienazione mentale auto-indotta, pur di non ascoltare il blaterare sin troppo confidenziale e fraterno del giovane agente di polizia che aveva quasi aggredito un’ora prima.

Aveva passato il giorno successivo dietro le sbarre, come da copione, ma non da solo. John aveva finito il turno, si era tolto la divisa ed era sceso al piano di sotto in jeans e maglietta per rimanere con lui a fargli compagnia. E continuare a rimproverarlo.
Gli aveva portato un’aspirina e un bicchiere d’acqua.

Avevano parlato tutto il tempo e, solo dopo articolate ed assidue rassicurazioni, William era riuscito a convincere John di non essere un adolescente ai margini della depressione e l’alcolismo.

Se ben ricordava, l’agente era persino riuscito a strappargli la promessa di un esame delle urine per accertarsi che non facesse uso di droghe.

Era quasi divertito da tanta apprensione da parte di questo poliziotto, che poteva avere solo qualche anno più di lui; lo incuriosiva e affascinava questa sorta di ‘candore’, di passione fresca e genuina per il lavoro che si era scelto.

John amava aiutare le persone. William si era scoperto ad ascoltarlo con estremo interesse.

Quando gli avevano aperto la cella e riconsegnato i pochi effetti personali con cui era stato arrestato, l’agente Watson era rimasto al suo fianco per accompagnarlo fuori dalla centrale.
Si erano stretti la mano e scambiati il numero di telefono.

John Watson era rimasto il suo più grande amico (forse l’unico vero), a distanza di vent’anni.

 

*

 
Il capitano entrò qualche minuto dopo di lui, con un paio di caffè caldi in mano, un fascicolo enorme sotto il braccio e un sorriso stanco ma sincero, in sua direzione.

“John!”

Holmes lo salutò andandogli incontro e aiutandolo a posare tutto sul tavolino.

“Will!”

Si strinsero la mano amichevolmente e si accomodarono assieme sulle sedie, uno di fianco all’altro; di fronte a loro, attraverso il vetro, Dean Winchester sempre intento a rimanere immobile seduto a quella scrivania.

“Mi dispiace averti disturbato, so che sei alquanto preso nell’ultimo periodo.”

John gli lanciò un’occhiata quasi divertita, prima di appoggiarsi allo schienale e incrociare le braccia al petto, pronto ad affrontare il problema, qualsiasi esso fosse.

“Non ci provare, ti conosco.”

Holmes, un sopracciglio leggermente arcuato, gambe di nuovo accavallate, mani congiunte in grembo, dritto e composto sulla propria sedia, gli sorrise con affetto e tentò di proseguire.

“John...”

“Non ti farò la predica perché sono più di due mesi che non ti fai vedere né sentire.”

Lo interruppe.

Il dottore sbuffò, vagamente seccato per quella che sapeva sarebbe diventata l’ennesima predica da parte dell’amico; peccato non fosse proprio il momento per questo genere di cose.

“Te la meriteresti... voglio dire, due mesi? Sul serio? Potevano averti ucciso e seppellito da qualche parte, per quanto ne sapevo.”

Holmes roteò gli occhi in risposta.

Il solito esagerato.

“John...”

“Taci, fammi finire. Non ti farò la predica, anche se mia moglie è molto arrabbiata con te e dovrai fare il padrino modello a nostro figlio, se vorrai che un giorno ti perdoni e smetta di tormentarti. Non lo farò. Sono troppo curioso di sapere come mai, esattamente un secondo prima di firmare il trasferimento di questo ragazzo al penitenziario cittadino, proprio tu mi mandi a chiamare con urgenza per parlarmi.”

“Ti stai occupando tu del caso?”

“No. Ma lo tengo d’occhio su richiesta di mia sorella.”

Holmes annuì, come aspettandosi quella esatta risposta.

“Ho parlato con Sherry, qualche settimana fa, te lo ha detto?  Quando mi hanno passato il fascicolo di Dean Winchester e ho visto il suo nome sulla denuncia, ho pensato di sentire direttamente da lei quel che c’era da sapere.”

“Si, mi ha detto che era contenta che ti occupassi tu del ragazzo... il fratello minore è un suo alunno. È ancora qui?”

“È fuori, si.”

John sbuffò e si appoggiò coi gomiti sulle ginocchia, strofinandosi il viso tra le mani. Afferrò il suo caffè e porse l’altro al dottore.


“Perché ho come la sensazione che tutto questo mi causerà forti mal di stomaco da stress?”

Holmes sorseggiò la bevanda e la riposò sul tavolino. Era il momento.

“John... se non fosse l’unica strada possibile, credimi, non mi permetterei mai di fare una cosa simile. Ma mi serve il tuo aiuto, ho bisogno di un favore.”

“Basterebbe già questo a spaventarmi, infatti. William Holmes che chiede favori… moriremo tutti.”

Ridacchiarono assieme, un po’ per distendere la tensione che, soprattutto il capitano, percepiva crescere nel suo amico.

“Forza, levati il pensiero: che tipo di favore?”

“Libera il ragazzo.”

Watson si raddrizzò di scatto e si voltò verso di lui per piantargli addosso due occhi pericolosamente vicini allo sconvolto e l’intenzione di non levarsi quell’espressione dalla faccia per un bel po’.

Holmes, se possibile, irrigidì ulteriormente la propria postura.


“Stai scherzando? Will... è pericolo-”

“No, non lo è. Ti spiegherò tutto ma... mi serve che cancelli quest’ultimo arresto dagli schedari. Fai sparire la denuncia, fai tacere i testimoni. So che puoi farlo, non te lo chiederei altrimenti.”

Guardarono entrambi in direzione di Dean, che non si era mosso di un millimetro e continuava il suo ritmico picchiettare del piede sul pavimento, in aggiunta ad un nevrotico ticchettio delle dita sulla scrivania.

“Vuoi... che insabbi tutto? Hai idea di quanti favori costerà a me, questo? Senza contare che dovrei far ritirare la denuncia ai genitori del ragazzo in ospedale, Will. Lo hai visto come è combinato? Ha la faccia ridotta una poltiglia... quel ragazzo è...”

“Lo so. Ti chiedo di fidarti di me.”

John inclinò leggermente la testa di lato, era combattuto, ma l’argomento fiducia reciproca era ferreo; Holmes lo sapeva, sapeva che si sarebbero sempre fidati l’uno del l’altro, sperava solo che questo non gli avesse procurato altri guai in futuro.

“Ma...”

“Fidati, John. Sai che puoi farlo.”

Nonostante la stanza fosse quasi completamente buia, seduti vicini, il dottor Holmes e il capitano Watson riuscivano perfettamente a vedere l’uno il volto dell’altro.
Esitante, John si riaccomodò contro lo schienale della sedia, mantenendo però il contatto visivo.

“Will, siamo amici da quasi vent’anni, ne abbiamo passate tante, so che sei affidabile. Ma quello che mi chiedi... è da folli! Stento a riconoscerti in un gesto del genere.”

“Me ne rendo conto. E mi assumo ogni responsabilità in merito al suo rilascio. Lascerà la città, te lo garantisco: non sentirai più parlare di lui. Ho fatto degli errori, John... e questi errori hanno portato al suo ultimo arresto.”

“Non dire stupidaggini, sai che non funziona così! Sei il suo psicologo, non la sua coscienza! È responsabile per primo delle sue azioni.”

“Lo sa perfettamente anche lui. È per questo che è qui, lo ha fatto di proposito.”

“Perché?”

“Voleva continuare con i nostri incontri. Appena riottenuta la libertà di andarsene, credeva che non avrebbe più potuto contare sul mio aiuto e non voleva essere lasciato solo contro i problemi che sta tentando di risolvere.”

“Non ha senso. È recidivo, non ci saranno ulteriori valutazioni per il suo rilascio, solo la carcerazione.”

“Lo so! John... solo, dimmi se accetti. Lo puoi fare? Ti fidi di me?”


Gli occhi chiari di William erano limpidi e sicuri, era deciso come non mai; preoccupato, certo; teso, senza alcun dubbio; ma padrone di sé e lucidamente convinto della sua decisione.

Il capitano si grattò la nuca sospirando rumorosamente e bevve il resto del suo caffè d’un sorso, prima di alzarsi velocemente, afferrare il pesante fascicolo e infilarselo sotto il braccio.

“Quando mai sono riuscito a dirti di no, maledizione.”

Holmes gli sorrise rassicurato, rilassandosi all’istante e alzandosi a sua volta.

“E non guardarmi con quegli occhi, Cristo! Quarant’anni e mi sembri ancora quell’irritante moccioso saputello col naso gonfio!”

Il dottore gli porse la mano, sorridendogli ancora con infinita gratitudine.

“Grazie, John.”

Il capitano la strinse energicamente, rivolgendogli un’ultima occhiata esasperata.

“Mi dovrai un mucchio di cene della domenica con mia moglie! E farai da babysitter gratis al tuo figlioccio per almeno un anno!”

“Parola mia.”

“Aspettami in sala d’attesa. Ci vorrà un po’ per mettere a tacere questo casino.”

Il dottore intensificò la stretta e cercò di nuovo il suo sguardo.

“Grazie, John. Davvero... sei un amico.”

“Si, si... sparisci, ora.”


Il capitano Watson si avviò verso la porta ridacchiando, ma si voltò prima di uscire dalla stanza, con la mano ancora ferma sulla maniglia. Sembrò esitare per qualche istante, prima di parlare.

“Will... ha chiamato il padre del ragazzo, circa un’ora fa. Sta arrivando in centrale.”

Gli disse con tono preoccupato. Holmes sgranò gli occhi.

“Non sembrava particolarmente alterato, ma ti confesso che la sua voce mi ha messo i brividi...” Aggiunse.

Il dottore si strofinò nervosamente la mano sulle labbra; mille possibili complicazioni già affollavano la sua mente.

“Cristo...”

“Te la sbrighi tu con lui?”

“Si, certo.”


Quando John uscì dalla stanza, Holmes guardò un’ultima volta in direzione di Dean e sospirò; si sentiva più stanco che dopo intere giornate ad esaminare casi e casi uno più complesso dell’altro. E aveva la preoccupante sensazione che il peggio dovesse ancora venire.


Uscì dalla sala interrogatori 4 e raggiungere Sam per rassicurarlo e aggiornarlo sul prossimo rilascio di suo fratello maggiore.

Lo trovò in piedi di fronte alla grande finestra, gli occhi gonfi e il naso rosso, mentre fissava l’incessante nevicare di un febbraio gelido, illuminato dalla tenue luce dell’alba ormai alta di un’altra fredda mattina a Baltimore.

 

*

 

Quando gli tolsero le manette, il primo pensiero di Dean fu che era finita.

Il cuore stretto in una morsa che sembrava soffocarlo lentamente e dolorosamente.

Pensò che suo padre avesse pagato la cauzione.
Pensò di averlo profondamente deluso e pensò che sarebbe stato punito severamente.
Pensò che Sam era di sicuro fuori ad aspettarlo, e che avrebbe dato di stomaco non appena lo avesse guardato negli occhi e ingoiato a forza qualsiasi cosa avesse provato per lui fino a quel momento.
Pensò anche che non gli importava più.

Era tutto finito.

Il cuore gli faceva un male d’inferno, come se la morsa si facesse sempre più stretta.


Niente più psicologi e valutazioni, glielo avevano spiegato; niente più cazzate, Dean avrebbe dovuto rigare dritto e seppellire il suo orgoglio da qualche parte nel suo cervello bacato, assieme a quel mostro da cui lui e Sam si erano lasciati divorare.

Aveva solo pensato che...
Non aveva affatto pensato, ad essere onesti.

Aveva bisogno di Holmes. Aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a mantenere il controllo, perché arrivati al punto in cui lui e Sam erano giunti, Dean si sentiva abbandonato a se stesso, preda di una confusione e frustrazione sempre più soffocanti; impotente e sul punto di esplodere da un momento all’altro.

Non voleva fare del male a Sam, a suo padre, non voleva deludere nessuno.
Non voleva, eppure aveva finito per distruggere tutto al suo passaggio, come un uragano ingrossato di piogge, venti e detriti.

Poi era arrivato Micheal.

Aveva picchiato quel ragazzo perché impazziva dalla voglia di farlo dal primo istante in cui lo aveva visto sfiorare Sam.
Aveva picchiato quel ragazzo perché era convinto che farlo lo avrebbe rimesso nelle mani di Holmes, senza dover spiegare a suo padre come mai aveva bisogno di continuare a vedere il dottore.
Aveva picchiato quel ragazzo perché il mostro era lui.

E adesso era tutto finito.

Il cuore gli agonizzava nel torace, intrappolato e soffrente tra le spire del suo amore sbagliato, ramificate e strette attorno al suo nucleo.

 

*

 
Il poliziotto che lo scortò fuori si chiamava John Watson.

Gli parlò, gli spiegò cosa stava succedendo e cosa sarebbe successo da lì all’indomani, quando avrebbero lasciato la città per sempre.
Parlò di accordi, del dottor Holmes, di fiducia.

Dean sentì ma non ascoltò una parola.

Mentre camminava di fianco al capitano e attraversava i corridoi a testa bassa e spalle curve, Dean sentiva il panico montargli nelle viscere.

Era finita.

Sam...

Doveva essere finita.

Sam!


Era in piedi al centro della sala d’attesa, quando lui e Watson li raggiunsero. Al suo fianco c’era il dottor Holmes.

Il suo Sam tremava.

Dean alzò gli occhi su di lui e si sentì mancare la terra sotto i piedi.

Fragile e minuto e piccolo, il minore lo guardava con gli occhi gonfi di lacrime. E fu un attimo, prima che lo raggiungesse correndo e si gettasse su di lui stringendogli le braccia al collo con tutta la forza che aveva in corpo.

“Mi dispiace, Dean... scusami, scusami...”

Singhiozzava, mormorava, implorava.

Dean chiuse gli occhi e ingoiò a vuoto.

Non poteva cedere.

Non finirà mai...


“Non è colpa tua, Sam. Non è mai stata colpa tua.”

Appoggiò la guancia tra i suoi capelli, lo strinse forte a sé e tentò di regolarizzare il respiro impazzito; doveva essere forte.


Si abbracciarono e basta, in silenzio, sotto lo sguardo confuso del capitano e quasi commosso del dottore.

 

 


*

 

 

John Winchester attendeva composto i suoi due figli all’esterno della centrale, fermo in macchina con il motore acceso e le mani strette al volante, rigide fin quasi a bloccarne la circolazione.

Quando li vide uscire, in compagnia del dottor William Holmes e quello che riconobbe subito essere un agente di polizia in borghese, non scese dall’auto né andò loro in contro; aspettò semplicemente che si dicessero quanto avevano da dirsi e salissero in macchina per riportarli a casa.

 

 

 

 

Periferia di Baltimore – Maryland

 


Nessuno dei tre disse una parola durante tutto il tragitto.

Non parlarono quando arrivarono a casa e non parlarono quando entrarono dalla porta e se la richiusero alle spalle.
Dean e Sam camminavano uno dietro l’altro, testa infossata nelle spalle e una stanchezza infinita addosso che sapevano non avrebbe trovato presto riposo.

Lo avevano capito entrambi appena saliti in macchina.

John sapeva.

Non avevano idea di come, né di quando, ma sapeva. Ed era più doloroso, umiliante e terrificante di quanto avessero mai temuto.

Sapeva di loro.


Regnò il più assoluto e agghiacciante silenzio per tutto il giorno, ciascuno chiuso nella propria stanza, impegnato a riordinare le proprie cose e rimetterle nei borsoni, pronti a lasciare la città.

I fratelli dovevano incontrarsi nello studio di Holmes il giorno successivo, poi sarebbero partiti, non servivano altre spiegazioni.

Cenarono da soli. Non parlarono tra loro, non si guardarono, non si sfiorarono neppure per sbaglio.


John li chiamò infine di sotto, poco prima che si coricassero per andare a dormire.

 

Quando scesero e furono entrambi sulla soglia del soggiorno, in piedi di fronte a lui, li guardò negli occhi e comunicò loro quanto c’era da sapere.


“Tralasciando il fatto che voi due siate ancora così stupidi da credere di potermi nascondere qualcosa, voglio che sappiate che finisce tutto qui, oggi.”

Tono fermo, voce imperiosa e sicura, Dean abbassò immediatamente lo sguardo, pietrificato, mentre Sam lo mantenne, ma sembrò cercare la spalla del fratello per sostenersi.

“Sono stato chiaro?”

Il minore si tese fin quasi a spezzarsi di fianco Dean e non disse una parola.

“Sissignore...”

Rispose invece il maggiore, senza permettersi di rialzare la testa e sperando che il debole sussurro della sua risposta fosse sufficiente per entrambi.

“Sam?”

A quanto pareva, non lo era stato.


John si avvicinò lentamente al più giovane e si fermò di fronte a lui.

“Sam?”

Ripeté gelido.

“S-sissignore...”

Bisbigliò infine ques’ultimo, senza staccargli occhi di dosso; sembrava tremare nel tentativo di controllare la rabbia, era rosso in volto e rigido come una statua.

 

“Bene...”

Commentò John, passando in mezzo a loro per uscire dalla stanza e imboccare le scale che portavano al piano di sopra.

Si fermò al terzo scalino e si voltò un’altra volta verso i propri figli.

“Al termine della vostra chiacchierata di domani con il dottor Holmes, lasceremo la città. Fatevi trovare pronti.”

I ragazzi annuirono insieme.

“Bobby ha bisogno di una mano alla rimessa, Dean. Starai da lui per un po’. Sono certo che farà bene anche a te.”

“Ma...”

Il maggiore alzò la testa di scatto, Sam lo guardò come terrorizzato, implorante.


No...

“Sam verrà con me a caccia, nel frattempo. È ora che anche lui impari il mestiere e tu mi sei d’intralcio; gli copri troppo le spalle.”

Continuò il padre.

No... no, no!


Sapevano cosa stava facendo John, sapevano che sarebbe successo, che li avrebbe separati.

Sam sembrò esplodere di rabbia e John se ne accorse, ma non era necessario insistere oltre, avrebbero fatto quanto gli aveva ordinato.


“Questo è quanto. Potete andare a dormire.”

Voltò loro le spalle e fece per riprendere a salire le scale ma la voce malferma e rotta di Sam lo fermò al quarto scalino.

“Era lui?”

Chiese solo.

“Come?”

Rispose John, gelido, sempre di spalle.

“A Chicago... era lui il demone per cui te ne sei andato? Era quello che ha ucciso la mamma?”

“Sam...”

Dean cercò di fermarlo; era impietrito, vide John girarsi di scatto e la collera di suo padre montare veloce; temette che se non fosse stato zitto, lo avrebbe raggiunto e schiaffeggiato.

Il minore scacciò la mano di Dean che aveva raggiunto e afferrato il suo braccio.

“Voglio sapere se ne è valsa la pena, papà...”

“Ti consiglio di tacere, Sam. Non un’altra parola!”

Dura, irremovibile e severa, arrivò la risposta di John, che sibilò con voce inumanamente piatta, mentre inchiodava Sam al pavimento, semplicemente puntando gli occhi in quelli disperati del figlio minore.

“Andate a dormire.”

Salì al piano di sopra, sparendo dietro la parete buia del corridoio, troncando sul nascere ogni discussione.



*


Ne era valsa la pena?

Non passava giorno in cui John non si facesse la stessa identica domanda.

Seduto sul letto, nel silenzio della sua camera, al buio, stringeva in mano la sua pistola mentre passava distrattamente il panno sulla canna per pulirla; non poteva permettersi il lusso di perdere il controllo, doveva fare in modo che la sua famiglia rimanesse in piedi, era disposto a sacrificare ogni cosa, era disposto a farsi odiare. Ma doveva dividerli, doveva porre fine alla follia che i suoi figli avevano generato.

In tutta onestà, era un miracolo che non li avesse uccisi con le sue stesse mani, al primo segno di ciò che aveva capito sin troppo bene facessero.

No... separarli e passare per il padre crudele, era quasi misericordioso.

 

Cosa valeva l’amore di sua moglie e i suoi figli?

Nulla.

Tutto, se in ballo c’era la loro vita.

 

Era colpa sua?

Un’altra domanda, un’altra responsabilità, un’altra croce da caricarsi sulle spalle, assieme a mille altre colpe di cui si era macchiato nella sua vita.

Ma John aveva le spalle larghe e la testa dura di ogni buon soldato. Sarebbe riuscito a passare sopra anche a questo, con la determinazione e la testardaggine di un cingolato da guerra.

 


*

 


Immobili, entrambi i fratelli non mossero un muscolo per quella che sembrò un’eternità.


Quando infine Dean decise che era giunto il momento di affrontare la realtà, lentamente, afferrò la mano di Sam, al suo fianco, chiedendo silenziosamente la sua attenzione.

La strinse nella sua e gli sorrise.

Sam lo guardava affranto, angosciato, ormai incapace persino di piangere, schiacciato da quanto riusciva a sentire e percepire nello sguardo di suo fratello e nel lieve tremore delle sue dita.

“Andrà bene, Sammy... andrà tutto bene.”

L’espressione contratta e sofferente, il minore deglutì prima di riuscire ad emettere alcun suono.

“Io non ho paura, Dean... ci sei tu con me.”

Gli rispose con voce rotta, ricambiando la sua stretta e la disperazione del suo sorriso.

 

 

 

 


Continua...

 

 

 


Nda: voglio scusarmi tantissimo con tutti per non aver ancora risposto alle recensioni del capitolo precedente! *buuuuuuu* SCUSATE! Lo farò prestissimo, nel frattempo voglio che sappiate che le vostre recensioni mi lasciano ogni volta senza fiato! Dovreste vedere la mia faccia XDDD *anche no, ahahahahah*
Grazie di cuore a tutti per il seguito e la passione che mi trasmettete! A questo punto, spero davvero di chiudere con il prossimo ;)
Baci,
Ele

   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Supernatural / Vai alla pagina dell'autore: ELE106