Famiglie
Il
ragazzino ha il viso rivolto contro un albero, gli occhi tappati con le mani.
Conta a voce alta, scandendo i numeri.
“…Cinque.
Sei. Sette…”
Il
bimbetto ride, irresistibile, saltellando sulle gambette con entusiasmo. Si guarda
intorno eccitato, corre traballante a infilarsi sotto le ruote del carretto
carico di erba e si appiattisce al suolo. È perfettamente visibile, ma
con ingenuità infantile pare convinto d’aver trovato il
nascondiglio perfetto.
L’uomo,
non visto, scuote lievemente il capo, il volto occultato dalle falde del
cappello a tesa larga. Il mantello nero, su cui risaltano le nuvole rosse, gli
ondeggia intorno alle gambe.
“…Ventuno!”
termina il ragazzino, voltandosi finalmente indietro. Individua il bimbo al
primo sguardo ma sposta gli occhi altrove, fingendosi intento nella sua
ricerca.
“Chissà
dove sei,” esclama a voce alta, sporgendo il capo tra i rami di un
cespuglio. “Non so proprio come trovarti,” continua con un profondo
sospiro di disappunto, chinandosi per cercare nel fosso che divide il prato
dalla strada.
Il
bambino sotto il carretto ride sommessamente, tappandosi la bocca con le manine
paffute. L’uomo rimane cupo a osservare quel ridere che gli fa male, gli
scivola lungo le vene e lo intossisca di malinconia,
di rimorso. Ma non può smettere di guardarlo.
“Ma
dove…” brontola il ragazzino, allontanandosi abbastanza da
permettere al moccioso, trionfale, di schizzare fuori ridendo come un matto e
scattare – per modo di dire, con quelle gambe da scoiattolino
– a liberarsi battendo la mano contro il tronco, mentre il maggiore finge
di corrergli dietro.
“Ho
vinto!” strilla il piccolo. “Ho vinto!” E ride, saltando
intorno al fratello maggiore con orgoglio.
Fa
star male, quel ridere estatico.
“Accidenti,”
esclama il ragazzino. “Non ti ho proprio visto.”
La
finestra della casa si spalanca, un busto di donna si sporge con dolcezza.
“Ragazzi,
c’è il pranzo,” chiama, invitante.
“Arriviamo,
mamma,” annuncia il ragazzino, spolverandosi i pantaloni a manate.
“Ancora
una volta! Ancora!” protesta supplice il bambino, saltandogli intorno.
“Non
hai sentito la mamma?” lo riprende l’altro, bonario.
“E
io non vengo!” borbotta il bimbo con una linguaccia. “Ecco!”
Fa per correre via, balzellando. Il ragazzino scrolla la testa e sorride.
“Ah
sì, eh?” replica, raggiungendolo in un batter d’occhio.
“E allora io ti acchiappo!” aggiunge, afferrandolo per la vita. Il
bimbo non fa in tempo a protestare che si ritrova catapultato in aria. Il suo
lamento si trasforma in uno strillo di euforia – che vocina sottile,
così simile a quella di Sasuke - mentre viene ripreso al volo e
trascinato in casa di peso, ridendo pazzamente.
L’uomo
rimane a guardare il prato vuoto senza muoversi, con l’immagine di due occhioni neri che lo ammirano da un visetto simile al
proprio incastrata in mente: non se ne vuole andare, non lo lascia mai.
“Itachi,
qui facciamo notte,” lo raggiunge la voce del compagno di viaggio, che s’avvicina
lentamente.
L’uomo
annuisce, assorto.
“Andiamo,
Kisame,” esclama atono, voltandosi. Nel farlo getta un ultimo sguardo
alla casetta, da cui proviene un chiacchiericcio a più voci.
Lo
addolorano, le famiglie.