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Autore: A Dream Called Death    01/08/2014    1 recensioni
< Pensi a lei qualche volta? > chiese poi.
< In continuazione > risposi.
Mi alzai dallo sgabello.
Lui mi fissò, incuriosito.
< E come faccio a sapere che con lei al mio fianco tornerò a vivere? Può essere l'anestetico al dolore? > chiesi.
< Lei non è l'anestetico al tuo dolore... Ma potrebbe essere la cura definitiva. >
Anno 2006.
Il tour mondiale di American Idiot è stato appena cancellato ed i Green Day tornano in America dopo tre mesi dalla partenza.
Ma qualcosa è cambiato, fuori e dentro il gruppo.
Per Billie Joe Armstrong lo scontro con le ombre del passato non è mai finito.
I pensieri, i dubbi e le insicurezze di un uomo che deve fare i conti con se stesso: una vita spesa per la musica e per la propria band, ma anche colma di bugie e alcol, nemico ed amico da sempre del protagonista, unico rimedio al dolore ed alla rassegnazione.
Ma un incontro lo sconvolge, mescola i pezzi del puzzle della sua vita, lo mette di fronte alla cruda realtà: non si può fingere per sempre, si deve trovare il coraggio di prendere la decisione più difficile di tutte... Essere felici.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Billie J. Armstrong, Mike Dirnt, Nuovo personaggio
Note: Raccolta | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Jesus of Suburbia, la suoneria che mi avvisava di avere una chiamata in arrivo, interruppe il silenzio attorno a me.
Afferrai saldamente la ringhiera, le mie gambe tremarono ed avvertii un peso enorme sullo stomaco. Richiusi gli occhi, tremante. Poi li riaprii. Avanti a me, il gran viale di Oakland. Tutto attorno alla panchina sulla quale sedevo era avvolto nel silenzio, non c`era anima viva. Guardai l`ora: 00.01.
Afferrai il cellulare, poi lo misi all`orecchio. 
-Jane- dissi.
Silenzio.
Quel fottuto silenzio che uccide lentamente. Mi guardai attorno.
-Sono arrivato. Sono qui- continuai.
Lei sospirò.
-Perchè non parli?- chiesi ancora.
-Non ho niente da dire-.
-Ti prego, non riattaccare...- supplicai io. Continuai a guardare attorno a me, con la paura che qualcuno potesse avvicinarsi.
-Io non so... Non so se ce la farò, Billie. Non so come andrá a finire. Io qui e tu lì..- disse, in un sussurro. -Tu ce la devi fare, ragazza-.
-Questo è troppo. È troppo, Billie...- continuò lei, in un turbine di sospiri senza fine. Pensai che cominciasse a piangere, pensai di piangere con lei. Ma non ci furono lacrime, solo una leggera malinconia, un vento tiepido che mi spettinò i capelli.
-Presto saremo di nuovo insieme, ragazza. Io-io adesso sono partito, dovevo partire, ma tornerò. Tornerò e tu non sarai sola- dissi, confortandola.
-Tu sei famoso, io... Io sono solo una ragazza che ti ha conosciuto. Tu sei ricco, conosciuto da tutti, hai tanti amici. Io no... Io sono sola. Tu sei un uomo, mi hai voluta, mi hai avuta, sempre e solo tu. Io ora sento noi dentro di me. Cos`è successo? Perchè?-.
Rabbrividii.
Cos`era successo? Non lo so. 
Pensavo di essere sempre attento, vigile. Pensavo di essere lucido, ed invece, qualcosa di grande era successo ed io non ero riuscito a controllare nulla, ero stato rapito da un`emozione più grande di me, più grande di tutto: l`emozione di essere il solo ed unico per lei, era stata quella ad avermi fatto impazzire... E perdere ogni controllo di me stesso.
-Cos`è successo? Non è questa la domanda che dobbiamo fare adesso, non qui, non al telefono. Non lontani. Non lo so cos`è successo, ragazza, non voglio nemmeno saperlo. Bisogna accettare questa situazione, noi siamo umani e la natura ha voluto così- ribattei.
-Ragazza, io sono stato costretto a partire e tu lo sai. Sai che mai avrei voluto lasciarti, sai che mai vorrei stare lontano da te. Ora, per favore, raccogli le forze e vai avanti-. Detto questo, le diedi un`indirizzo di posta al quale avrebbe potuto mandare delle lettere. Poteva scrivermi, inviarmi delle fotografie, magari del bambino che cresceva. Le diedi anche il mio indirizzo e-mail privato, quello del quale Adrienne non conosceva l`esistenza. Non ero ferrato con la tecnologia ne con i computer, avevo bisogno di qualcuno che mi spiegasse come e cosa fare; pensai di chiedere aiuto a Trè, che ci capiva sicuramente più di me. Dissi a Jane di non chiamare più quel numero di telefono: ben presto avrei comprato una nuova scheda telefonica, poichè Adrienne avrebbe potuto ascoltare le chiamate oppure prendere in mano il telefono. Da quel momento in poi, da quando avremmo riattaccato, sarebbe partita la fase più difficile della nostra storia: la lontananza era tanta, insormontabile, e noi dovevamo essere abbastanza forti da sopravvivere ad essa senza lasciare che ci schiacciasse. Tutto doveva essere fatto in segreto, io non potevo tralasciare nulla: una telefonata di troppo, un messaggio, una mail, una lettera, qualsiasi cosa, avrebbe potuto insinuare dei dubbi in Adrienne oppure nei miei compagni. Jane rispondeva a ciò che le dicevo con un fragile «va bene» ed io sapevo che in realtà nulla andava bene. Non era così che sarebbero dovute andare le cose, non era così che ci si costruisce una famiglia, a migliaia di chilometri di distanza e senza speranze. Non era così che io avevo immaginato il mio futuro con Jane: pensavo saremmo stati insieme, felici, in una bella casa di campagna. Ed invece, io mi trovavo solo in mezzo al gran viale di Oakland e lei, la mia ragazza, era a casa sua, in Inghilterra. Io ero Billie Joe Armstrong, uno dei rocker più famosi d`America, l`ultimo album pubblicato con il gruppo aveva venduto milioni di dischi; lei, giovane ragazza, era l`altra parte di me. La conoscevo da tre mesi, Jane, e da me aspettava un figlio. O meglio, una figlia, io lo sentivo.
Tutto era diventato pesante, gli eventi si erano susseguiti troppo velocemente ed io non avevo idea di quello che fosse realmente successo e se tutto ciò che stavo provando in quel momento potesse ritenersi la fottuta realtá. Ma cosa diavolo era successo veramente? Idiota, penserete voi, tu sei un uomo e lei una donna; ci sei andato a letto e l`hai messa incinta. Grazie al cazzo, anch`io l`avevo pensato e continuavo a pensarlo, anch`io per un attimo avevo dato colpa solo alla natura. Siamo umani, dannazione, sono cose che succedono. Ma... Ma no, la veritá non era così semplice. Non era così che erano andate le cose: io amavo Jane, più di ogni altra cosa, possibile che quell`amore così forte, così testardo, potesse aver deciso tutto per noi? Possibile che dopo tante sofferenze, l`amore avesse detto "devo vincere io, io vinco sempre"? Così era andata. La veritá è che non eravamo padroni delle nostre vite, qualcosa aveva scelto per noi ed aveva scelto bene. Qualcosa aveva deciso che mai più ci sarebbe stato un Billie ed una Jane ma un insieme di noi e quell`insieme sarebbe diventato più importante di tutto. Qualcosa aveva imposto che ciò accadesse, non era colpa sua, non era colpa mia. Bisognava accettare quella situazione, bisognava andare avanti e guardare oltre perchè le cose non sarebbero cambiate mai più. Non potevano cambiare più. Dovevamo stringere i pugni, un giorno dopo l`altro, affrontare quelle ventiquattro ore pensando che ben presto le cose sarebbero andate meglio, dovevamo andare a dormire ogni notte pensando che il giorno seguente sarebbe stato migliore di quello passato. Dovevamo pensare che ben presto, molto presto, ci saremmo ritrovati ed avremmo potuto ancora una volta riscoprire le emozioni della notte a Berlino. Io non chiedevo altro. Era quello che dovevamo fare: semplicemente andare avanti, voltarci indietro solo per un secondo e ricordare cosa ci aveva spinti fino a quel punto. Dovevamo addormentarci pensando al nostro amore, e sapevo, io sapevo che le notti...erano quelle le più difficili da affrontare. Mi pareva di vederla ancora lì, accanto a me, sotto di me. No, non potevo perdermi ancora nell`abisso dei ricordi, non in quel momento. Io dovevo restare lucido, fermare la mente, non potevo vacillare: se solo uno di noi due si fosse perso nella disperazione o nella rassegnazione, saremmo andati entrambi a gambe all`aria. Non potevo tornare a casa ed in solitudine mettermi a letto, non potevo mostrarmi turbato ne afflitto, non potevo dare segni di cedimento; io dovevo essere quello di una volta, dovevo fingere di essere me stesso. Il vecchio me stesso. Se non l`avessi fatto, qualcuno avrebbe potuto sospettare che qualcosa non andasse bene ed era proprio quello che noi dovevamo evitare, io in particolar modo. Sembrava impossibile, tutta quella situazione pareva così irreale... Quanto era dura in quel momento ammettere di sentirsi dei falliti: possibile che mi sentissi un uomo inutile? Possibile che non riuscissi a ringraziare il cielo per tutto ciò che avevo? No, non ci riuscivo; più mi guardavo indietro, riguardavo tutti quegli anni di carriera, i miei pezzi, le mie celebri esibizioni, e più mi sentivo inutile. Un uomo inutile. Dovevo trovare un senso alla mia vita lontano da quella ragazza e dovevo farlo fin da subito, perchè i mesi successivi sarebbero stati terribilmente senza senso per me, senza lei. I mesi a venire sarebbero stati tetri, avvolti nel buio come quella notte, sarebbero stati i più duri per noi. E sapevo che ne sarebbero passati molti, infiniti, prima di poterla rivedere; quel pensiero mi uccideva. L`idea che lei non fosse lì con me, l`idea di essere così lontani e per chissà quanto tempo, l`idea che non avrei partecipato alla prima visita medica della sua gravidanza e quella pancia...quella pancia e quel seno che sarebbero cresciuti, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, senza che io potessi vederli, beh...no. Non credo esista persona sulla terra che in quel momento provasse ciò che stavo provando. Era ingiusto, maledettamente ingiusto. Era ingiusto quello che stava accadendo, non era così che le cose sarebbero dovute andare.
Si era fatto tardi. 
La strada da percorrere, a piedi, per quanto illuminata, mi parve ancora più buia delle altre notti.
Avevo ancora un pò di tempo per godermi l`aria fresca della notte, ci avrei impiegato quaranta minuti prima di varcare la porta di casa. L`unica cosa che volevo in quel momento era proprio camminare, lentamente, passo dopo passo, per lasciar scorrere i pensieri e liberare la mente prima di ritrovarmi immerso nel caos di casa. Come ci si sente quando si ha la certezza di non dover essere in un determinato posto? Come ci si sente senza l`altra parte di se stessi e senza possibilità effettiva di raggiungerla? Persone a metà, ecco come ci si sente. Ecco come mi sentivo e come in quel preciso istante molto probabilmente si sentivano altre persone nella mia situazione. Persone a metà, forse nemmeno persone. Nel tuo cuore, già debole, regna l`apatia più assoluta. Ti senti impotente, ti senti perso, niente riesce a farti stare bene e per quanto tu possa distrarti ti ritrovi sempre a boccheggiare alla ricerca dell`aria che ti manca nei polmoni. Brutto è sentirsi soli, così soli da doversi guardare attorno e non vedere nulla se non la propria ombra; brutto è sapere, con ogni fibra del proprio corpo, che nessuno possa aiutarti. Brutto è non vedere futuro avanti a se, ne in quel momento ne mai, scavare con le unghie nel terreno dentro se stessi e non trovare gallerie percorribili ma solo frane. Era così fottutamente angosciante quella dannata situazione! Avevo fatto solo casini. Solo fottuti casini, nella mia vita, eppure mi sentivo così innocente, come se nulla dipendesse da me, come se non fossi io ad aver architettato tutti i piani. Era come se qualcosa si muovesse per me, scegliesse per me, mi impedisse di reagire alle situazioni che mi si presentavano davanti. Ma cosa, cazzo? Forse ero io, io e nessun altro. Il casino non era fuori, nessuno architettatava piani ne li metteva in atto, forse il casino era solo dentro di me. Ed io l`avvertivo ma ci convivevo ormai da troppo tempo... Per me non era più casino, era ordine abituale. Sapevo che il problema non era il resto del mondo, mia moglie, Mike, Trè, nessuno di loro... Il problema era io. Il problema era dentro me. Il primo dei miei problemi in quel momento era il campanello di casa, quanto poco tempo avevo impiegato per arrivare alla tranquilla palazzina di Florence Terrance... Davvero poco. Avevo corso? O forse, piú semplicemente, non ero pronto a varcare la porta di casa ne lo sarei stato mai ed era proprio per quel motivo che mi era sembrato di averci impiegato poco tempo per arrivare.
Mi sedetti sulle scale del pianerottolo, dando le spalle alla porta ed osservando la finestra, dalla quale entrava il buio della notte. Trovavo rilassante il fatto di essere lì, da solo, senza nessuno che parlasse o che ascoltasse; qualche volta avevo bisogno di farlo, stare seduto da qualche parte e pensare, pensare alla mia vita, pensare a me stesso. Io stavo bene solo, era una sensazione che avevo sempre provato. Forse, perchè quando stai troppo nella solitudine, per quanto ti impaurisca, finisci con l`accettarla ed averne addirittura bisogno. Io amavo stare solo, avere i miei momenti di solitudine, senza nessuno attorno. Il pensiero che ben presto mi sarei ritrovato accerchiato dalle urla dei miei figli e dalla routine di quella casa, mi angosciava profondamente. Chissà quanto tempo sarebbe passato prima di rivedere Jane, rivivere le emozioni della notte a Berlino. Chiedevo troppo, dannazione? Non chiedevo mica la luna, solo di rivedere la mia ragazza, una volta e poi un`altra ancora, fare l`amore con lei anche sopra una fottuta panchina, non importava dove ne come, ma solo il quando. Quando? Tra due giorni, due settimane, due mesi? Oppure due anni? Quando avrei rivisto Jane, quando avrei fatto l`amore con lei? Quando avrei provato di nuovo le emozioni di quella maledetta notte a Berlino? Non lo sapevo, io non lo sapevo. Ed era quell`interrogativo ad angosciarmi più di tutto, più del resto. Era quella domanda a risuonarmi nella mente ogni minuto, ogni ora. Non stavo vivendo, no. Quella non era vita, non è così che un uomo di trentaquattro anni poteva vivere. Un uomo a quell`età dovrebbe essere felice, sorridente, soprattutto se si chiama Billie Joe Armstrong, è uno dei leader di un gruppo famoso in tutto il mondo, detta stile e guadagna milioni. Io non mi nascondo di fronte ad un fottuto dito, non l`ho mai fatto ne mai lo faró. Non sono mai stato un ipocrita: ho sempre guadagnato in un giorno ció che una persona comune non guadagna in un anno di lavoro. Ma che cosa potevo farmene di quei fottuti soldi, se non sapevo come spenderli? Aprii il taccuino, guardai le banconote verdi. Poi guardai la carta di credito. Cosa ne avrei fatto di quei soldi? Sì, certo, mi aiutavano a vivere, avrei sistemato Joseph e Jakob per la loro futura vita, avrei pagato l`università o il college, avrei forse anche mantenuto i miei nipoti, figli dei miei figli. Ma io? Io cosa me ne facevo? Non li avrei mai potuti usare per la torta nuziale del mio matrimonio con Jane. Non avrei mai potuto pagare una luna di miele. Non avrei mai potuto acquistare la casa dove saremmo andati a vivere. Non avrei pagato gli studi di mio figlio... A cosa mi servivano, allora? Anche quelli erano soldi a metà. Erano lì perchè mi erano stati dati ma non servivano a nulla, non mi aiutavano. Avrei tanto voluto darli via ed in cambio avere la mia vita... Ma sapevo che non sarebbero bastati ne quelli ne tutti i soldi del mondo: la felicità non si compra.
Tirai fuori le mie sigarette dal taschino, ne accesi una. Il fumo si levò sopra alla mia testa, rimanendo sospeso a mezz`aria. I vicini mi avrebbero fulminato con lo sguardo: non si poteva fumare sulle scale, ne in ascensore ne sui pianerottoli. Ovviamente, io trasgredivo a quella regola e l`avevo sempre fatto: fumo dove cazzo voglio e quando ne ho voglia, quando sento il vuoto. Il vuoto non si può comandare, non sai mai quando e quanto ti sentirai privo di qualcosa. Chiusi gli occhi ed appoggiai la testa sul pavimento freddo, portando la sigaretta alla bocca. 
L`ultima cosa che vidi fu il fumo sopra al mio viso, poi sentii il rumore del tabacco bruciare. 
Poi, la stanchezza prese il sopravvento.
   
 
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