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Autore: Alkimia    01/08/2014    5 recensioni
[Post-TheWinterSoldier]
"La voce dell’uomo con lo scudo grida di nuovo quel nome. Dentro a un ricordo che sa di neve e paura, il Soldato sente lo sferragliare di un treno coprire le parole del suo amico, un addio che è la somma di tanti inverni.
Amico, il suo 'migliore amico', è questo che ha detto di essere. Se fosse vero, quello che al Soldato resta da provare è un sentimento che impiega qualche minuto a definire: vergogna.
Ma ciò che gli urla nella testa ora ha la voce della vendetta."

Steve ha promesso che ritroverà Bucky. Fury ha promesso che darà la caccia a ciò che è rimasto dell'Hydra. Entrambe le promesse richiedono l’aiuto dei pochi alleati di cui ci si può ancora fidare.
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta, Spoiler!
Capitoli:
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Seventeenth bullet: Quel che resta dellinverno
parte seconda
 
The flame tames honer where dancing heroes play.
The dawn delivers me life.
New skins in which to hide.
My hands reach daily,  new life in me remain.
Let me be let me be, let me be, let me be!
 
 
NEW YORK
 
«Credevo che i tempi in cui qualcuno decideva per me fossero finiti».
Nel silenzio generale, il Soldato si alza in piedi e sfila via dal nido costituito dai divani affiancati tra loro a formare un’isola dove aleggia un senso di famigliarità che lui non sente come proprio.
A passi decisi esce dall’unica porta che dà verso l’esterno. Quello che si trova davanti non è il terrazzo che chiunque si sarebbe aspettato dall’attico della Stark Tower, sembra più una pista di atterraggio, ma la piattaforma rotonda in fondo a una striscia di lastricato metallico è un cerchio troppo piccolo per elicotteri e mezzi aerei comuni.
Non ci sono ringhiere o parapetti, c’è solo il vuoto sospeso sopra la città. I suoni arrivano a un volume troppo basso da là sopra, coperti dagli schiocchi sordi del vento.
Il Soldato pensa che non servano sottili strisce di pavimento a metri e metri dal suolo per farlo sentire in bilico.
Dall’angolo remoto del suo cuore, dove lo ha lasciato a recuperare le forze, Bucky Barnes gli dice che forse l’uscita infelice di poco prima è stata esagerata e immeritata, che Steve e Stark e gli altri vogliono solo aiutarlo, che solo il giorno prima lui era quello che si era stupito della disponibilità e della comprensione di gente che avrebbe avuto ogni diritto di odiarlo, di non perdonarlo.
Il Soldato si chiede cosa sia cambiato in così poco tempo.
Si sente sciocco ad ammettere che una parte di lui ha sentito il morso pruriginoso dell’invidia nel vedere tutti loro lì riuniti e nel non riuscire a sentirsi parte di quella squadra. Mattine come quella, amici come quelli sono tutte cose che gli sono state portate via e quello scenario non ha fatto altro che ricordarglielo, pompandogli nelle vene una rabbia e un risentimento che gli hanno avvelenato i pensieri - e anche la lingua, a quanto pare.
Dentro di lui, Bucky Barnes continua a dissentire. Il Soldato lo vede scuotere la testa con la sua faccia pulita da ragazzo. Poi attorno al giovane ufficiale comincia a turbinare la neve.
Respira, combatte la vertigine, quella di dentro e quella di fuori ora che il vento sembra fatto di mille braccia che lo sfiorano con un po’ troppa veemenza.
Forse è per Natasha. Riaverla lo ha riportato troppo indietro, attraverso il sipario di un amore nato e affogato nella neve, forse ha intravisto i fantasmi di ricordi troppo orribili. Le aveva detto - o forse lo aveva solo pensato - che era meglio lasciare l’inverno lì dov’era.
Bucky Barnes, tra le ombre del suo cuore, incrocia le braccia sul petto, stira le labbra in un’espressione sdegnata.
Il Soldato sente la porta scorrevole aprirsi, alle sue spalle. Sa chi è senza bisogno di voltarsi.
Natasha avanza cauta e lui ne indovina l’espressione seria, le mani incrociate dietro la schiena.
Si ferma e gli dice la cosa più improbabile che potrebbe dirgli.
«Pepper è riuscita a rimediarmi un appuntamento con il suo parrucchiere. Devo fare qualcosa per queste doppie punte».
Il Soldato non sa da dove sia nato il sorriso che ora gli arriccia le labbra.
Da qualche parte lontana dallinverno.
Dietro di lui, Natasha gli cinge i fianchi con le braccia, gli posa la testa sulle scapole e il Soldato sente il suo sospiro solleticargli la nuca.
«Sono stato… sgradevole, prima?» chiede retorico.
«Stark ha cominciato a parlare di disturbo da stress post traumatico. Come segno di buona fede, io non mi farei vedere in giro con un’arma da fuoco, se fossi in te»
«Verrà il giorno in cui si stancheranno di trovarmi delle giustificazioni…»
«Allora spera che venga prima il giorno in cui non ne avrai bisogno».
Il Soldato fa una risata amara, sbuffando con il naso. Vorrebbe dirle grazie, ma sa che non è quello che si dice in questi casi.
Vorrebbe dirle tante cose, e tutte suonerebbero superflue alle orecchie della Vedova Nera, come suonavano superflue alle orecchie di Natalia tanto tempo fa, quando lui era un uomo che neppure sapeva pronunciare certe parole.
Che uomo è adesso? Bucky Barnes, dentro di lui, resta muto.
Ritornano dentro. Il grande open space è già sgombro, i resti della colazione sono spariti e i divani sono tornati al loro posto. Nella camera vuota non c’è rimasto nessuno. Hanno tutti qualcosa da fare lì, tranne lui. Solo dopo lunghi secondi il Soldato scorge la compagna di Stark in piedi accanto al tavolo di vetro, dietro una fila di mobili da cucina.
Pepper Potts sta controllando il contenuto della sua borsa. La coda di cavallo perfettamente diritta ondeggia appena quando muove la testa da destra a sinistra, frugando nelle tasche interne e gettando sul fondo un telefono cellulare che di certo deve essere appannaggio dei soli frequentatori assidui di Tony Stark.
«Sono pronta, Natasha. Quando vuoi».
Natasha annuisce e si volta verso il Soldato per salutarlo. Lui le prende una ciocca di capelli tra le dita, stanno tra i suoi polpastrelli come una lingua di fuoco su una candela accesa.
«Li ricordo ricci. Erano bellissimi» mormora lui. Ci sono fantasmi nella sua testa e nella sua voce.
Natasha tira il capo all’indietro, si sottrae alla sua stretta e lo guarda con una smorfia enfatica. «Se era un suggerimento, sappi che non so se ho voglia di seguirlo».
Lui non dice niente. Non era un suggerimento, era un ricordo.
Le stringe la mano un istante prima di lasciarla andare. Per un brevissimo secondo, il mondo sembra perdere il centro della realtà quando si separano.
Il Soldato diventa consapevole del sorriso appena accennato, un po’ complice un po’ materno, che la donna di Stark gli sta rivolgendo. Guarda Natasha e Pepper lasciare l’attico e sparire dietro le porte dell’ascensore.
Quando non si sentono più rumori, la solitudine in cui il Soldato resta immerso sembra portare pensieri e fare domande. E poi la risposta a tutte quelle domande arriva nel rumore appena percettibile di una porta che si apre, sulla sinistra, del suono cadenzato dei passi di Steve.
«Senti, mi dispiace se ti abbiamo messo pressione. Sì, parlo al plurale, perché tanto Stark non ti dirà mai niente del genere di persona».
Steve ha il suo sorriso pulito e il Soldato vorrebbe essere sicuro di meritarlo.
Si chiede se anche lui abbia nel cuore un suo se stesso diverso, forse il ragazzino macilento che era prima di diventare Captain America, che cerca di tenere insieme i pezzi della sua coscienza. O forse lui non ne ha bisogno, non ne ha mai avuto, nemmeno nelle notti di gelo e tempesta al campo, quando nell’umido appiccicoso delle tende, ragazzi troppo giovani cercavano risposte per sapere se quello che stavano facendo era giusto.
Steve non ne ha bisogno, perché tutto quello che ha fatto lo ha fatto per scelta. È la consapevolezza di essere responsabili del proprio destino, dell’essere rimasti fedeli a se stessi che tiene insieme una coscienza. Quando tutto questo viene a mancare, allora si cerca qualcos’altro, un fantasma che abbia la faccia dei nostri giorni migliori e che possa aiutarci a ricordare.
A volte, il riflesso di Bucky Barnes dentro di lui gli sembra solo un’ombra. Altre volte è così vivido e grande da riempire il vuoto lasciato dall’inverno.
«Non credere di poter competere con me riguardo a chi deve scusarsi con chi» dice il Soldato, abbozzando un sorriso goffo.
Con Steve non è facile come con Natasha. Lei è fatta della sua stessa pasta, Steve è uno che insegue il fantasma dentro la corazza del Soldato e si porta addosso la frustrazione di non essere ancora riuscito ad afferrarlo.
Il Capitano si porta una mano alla nuca, passando il palmo sui capelli corti. Sembra che quel gesto gli serva a trattenersi dal toccare il suo vecchio amico.
Il loro rapporto doveva essere stato molto affettuoso e molto fisico quando erano ragazzi.
«Ehi, pensavo di… sai, non l’ho mai fatto da quando mi sono svegliato dopo la Guerra». Il rossore sale sulle guance di Steve come un incendio su una superficie intrisa di benzina. Non è il rossore dell’imbarazzo, è quello della fatica di dire cose che pesano. «Pensavo di tornare nel quartiere dove sono cresciuto, ci ho pensato tante volte, ma non ho mai avuto il coraggio. Da solo non potrei farcela».
E io non potrei farcela con te accanto, pensa il Soldato, con te che mi guardi di sottecchi cercando sul mio viso tracce di un passato perduto.
Ci pensa, non lo dice, anzi, annuisce. Sono poche le cose che non farebbe per Steven Rogers, su questo lui e il fantasma di Bucky Barnes non hanno alcun problema ad andare d’accordo.
Alza una mano e la cala sulla spalla di Steve in una pacca che speri somigli al tocco di Bucky.
 
***
 
Nell’area privata del parcheggio della Stark Tower ristagna l’odore acre dell’olio per motore che pizzica la gola.
Sotto i teli cerati le preziose auto d’epoca di Tony sembrano sarcofagi nella cripta di una chiesa, ma tra le loro pieghe non c’è neppure un dito di polvere, segno che il proprietario - lui e nessun altro - frequenta quel posto con più assiduità di quanto si possa credere.
La collezione di preziosi bolidi è parecchio sfoltita, molte auto sono andate distrutte durante l’attacco alla villa di Malibù, mesi prima, altre forse sono acquisti recenti.
Quando successe, Steve era in missione con Barton dall’altro lato del mondo. Seppe dell’accaduto  solo una volta tornato, settimane dopo, e a lungo pensò di telefonare a Stark e chiedergli come stava e se la signorina Potts si era ripresa e se, per qualche ragione assurda, quel dannato pallone gonfiato avesse bisogno di qualcosa, di un amico, magari. Captain America non aveva mai fatto quella telefonata, non per indolenza, solo perché ogni volta che stava per comporre il numero, si ritrovava a chiedersi se lui fosse davvero il genere di amico con cui Stark avrebbe avuto voglia di parlare di quella brutta situazione da cui sembrava essersi salvato per miracolo insieme a Pepper.
Nello strano mondo che Steve Rogers aveva trovato ad aspettarlo al suo risveglio, sentiva di non poter capire le persone come faceva una volta, non si riteneva mai del tutto sicuro di quello che faceva e diceva. La consapevolezza che gli amici, gli amori, le guerre personali sono tutte cose che posso andare perdute gli avevano lasciato dentro una paura che, in una maniera sottile e impercettibile, lo aveva reso diverso. Il suo cuore era lo stesso, uno spazio grande e aperto ma più scomodo di come era un tempo.
Ci ripensa ora, e la sua mente va a Sharon. Sospira e la leggerezza con cui accantona il pensiero della ragazza ha una vaga sfumatura di codardia, sensazione quasi del tutto sconosciuta per Captain America.
Steve conta i numeri delle piazzole e si ferma davanti al quattordicesimo spazio occupato da una macchina coperta da un telo grigio che soleva con un energico strattone.
Bucky fa un fischio di approvazione quando la Buick color petrolio riemerge da sotto la sua copertura, lucida e scintillante sotto la luce delle lampade al neon.
«Dovrebbe essere del 42» dice Steve con l’aria di un bambino goloso.
Non ha avuto sempre la passione per i motori, è una cosa nata in guerra, quando avevano preso a mandare Captain America in giro su una moto e lui controllava ogni sera che l’arnese funzionasse a dovere, perché non gli facesse scherzi nella missione successiva. Con l’aiuto di soldati più esperti di lui, ragazzi che lavoravano in un’officina meccanica prima di arruolarsi, aveva imparato a controllare il motore e a prevenire i guasti ascoltando i rumori che la moto produceva, la facilità o la difficoltà con cui accelerava. Forse era perché quello era stato uno dei suoi pochi passatempi durante il periodo al fronte, ma alla fine ci aveva preso gusto.
«È proprio una bella ragazza» dice Bucky, girando intorno alla macchina e guardandola sinceramente colpito. «E Stark te la lascerà prendere?».
Steve si stringe nelle spalle, «Lui non lo so, ma Pepper mi ha dato queste». Tira fuori dalla tasca una chiave attaccata a una targhetta con il numero 14. Lui e Bucky si scambiano un’occhiata furba. «Guida tu» dice il Capitano lanciando la chiave al suo amico.
«Sei sicuro?»
«Mai stato più sicuro in vita mia». Tanto Tony mi ucciderà in ogni caso quando scoprirà della macchina - e lo scoprirà senzaltro.
Bucky non se lo lascia ripetere due volte, stringe forte la chiave nel pugno della mano destra e apre lo sportello. In un attimo ha già le dita chiuse attorno al pomello del cambio. La manica della felpa di cotone è calata fino al polso, l’arto metallico è fasciato da un guanto scuro e stringe il volante sottile di un bel color crema lucido. Anche gli interni dell’auto sono di pelle chiara e odorano di pulito, come una stanza dai pavimenti appena lavati.
Mettono in moto. Quando l’auto parte, il rombo del motore ha un suono morbido simile a quello di gatto che fa le fusa e né Steve né Bucky hanno animo di pensare ai fantasmi. 
La rampa automatica del garage sotterraneo si apre davanti a loro, un filo di luce entra piano poi si inspessisce, man mano che il portellone si abbassa, fino a diventare un rettangolo luminoso dove i loro occhi impiegano qualche istante a mettere a fuoco il quartiere rumoroso e trafficato ai piedi della Stark Tower.
Si immettono nel traffico con una leggera sgommata e partono. Quando imboccano la FDR Driver, il riflesso del sole sull’acqua al lato della strada colpisce la vista e smussa i profili dei grattacieli in lontananza.
Il vento ha soffiato via le nuvole che hanno fatto piovere durante la notte, il tempo è ancora incerto ma la tempesta sembra passata.
«Quanto tempo pensi che Stark impiegherà a scoprire della macchina?» domanda Bucky con gli occhi fissi sulla strada.
«Credo che lo sappia da quando siamo usciti dal parcheggio sotterraneo. Ma tu non pensi di avere qualcosa da dirmi?».
Steve lancia una lunga occhiata al compagno di viaggio, ostentando una furbizia che mal si combina con il suo viso troppo pulito.
Il suo senso del pudore e della discrezione lo avrebbe portato a evitare la questione, in qualsiasi altra circostanza. Ma si tratta di Bucky. E di Nat.
«L’unica cosa che ho da dirti è che mi dispiace che non sia tu ad avere qualcosa da dirmi sull’argomento di cui vorresti parlare»
«Non ti seguo».
Ogni traccia di furbizia e di ironia scompare dalla faccia di Captain America. Bucky fa un sorrisetto sfacciato.
«Prima di parlare di me e Natasha, credo dovremmo fare due chiacchiere su te e Sharon, se consideri che l’unico motivo per cui non ti è saltata ancora addosso è perché tu sei tu».
Steve smette di guardare il suo amico, si volta verso il finestrino alla sua destra e abbassa gli occhi sull’asfalto che scorre confondendosi in un’unica macchia scura.
Capisce quello che Bucky ha appena detto. Più che capirlo, lo sa.
«Non è il momento adatto, trovo molto corretto da parte sua rispettare quest…»
«Ma ti senti quando parli?» sbotta l’uomo alla guida, svoltando dove il cartello indica l’uscita per raggiungere il Ponte di Brooklyn. «Tutta questa storia sul momento adatto… sembrate due dannati postini!»
«No, aspetta, aspetta, mi stai dicendo che hai parlato con Sharon?»
«Qualcuno doveva farlo»
«Cosa le hai detto?»
«Solo cose buone».
Il cuore di Steve salta un battito. Bucky gli ha già dato quella risposta una volta, la sera in cui è cominciato tutto, il cielo è crollato e lui ha potuto vedere oltre le stelle un altro universo fatto di orrore e umanità mescolati assieme così a fondo da stordire anche le anime migliori.
«Cosa potrei mai offrire a una persona, adesso?» domanda il Capitano.
«Tu che lo chiedi a me, questa è bella».
Presi dal discorso, si perdono la maestosità del Ponte, la ragnatela di ombre proiettata dagli alti tiranti e le colonne di acciaio che si riflettono in linee contorte sulle acque dell’East River.
Bucky prende un respiro. «Quello che sto cercando di dirti, emerita testa di cazzo, è che non si tratta di avere cose da offrire, non è mica la questua della domenica! Si tratta di qualcosa che è già successo, che avete già deciso, dovete solo prenderne atto e agire di conseguenza. Non ci sono momenti da scegliere».
Steve resta in silenzio per alcuni secondi e si decide a godersi quel panorama di cui tanto aveva sentito la mancanza.
«Lo sai, Buck, tra noi due non sei mai stato tu quello saggio» sentenzia poi, enfatizzando un’aria grave.
L’amico gli molla un pugno sul braccio, mettendoci più forza di quanto si renda conto. Il Capitano trattiene una smorfia di dolore.
«E comunque, non sperare di evitare la tua parte di chiacchiere» aggiunge poi, con una certa insistenza.
«Non c’è niente da dire, lo sai come stavano le cose. È… difficile, ci sono i ricordi, ci sono i rimpianti, ma  per Natasha affronterei uno a uno tutti i mostri che ho qui dentro». Bucky si batte l’indice sulla tempia.
«Mio Dio, non è difficile, amico, sei… cotto»
«Chi ti ha insegnato a esprimerti così, Rogers?» il Soldato sospira, trattenendo un mezzo sorriso. «È qualcosa che mi sono portato dentro così a lungo. È quel genere di ricordo che quando sarebbe uscito dalla gabbia non avrebbe potuto essere che feroce. Credi che sia egoista?»
«Oh, sono certo che Natasha non ti avrebbe permesso di fare niente se non fosse stata assolutamente fiduciosa. E da quello che ho visto, lei mi sembra stare bene».
Bucky annuisce. «È come se tutto questo le avesse permesso di fare pace con i ricordi che aveva perduto. Quasi le invidio la rapidità con cui ci è riuscita»
«Non è rapidità, lei è solo una donna pratica e multitasking. Se c’è una cosa che dovremmo invidiarle è la capacità di gestire i ricordi e tutto il resto senza andare in tilt»
«Certo, l’unico che è in tilt qui sono io».
Per una volta Steve pensa che lui non si stia riferendo alla sua situazione da stress post traumatico, come lo ha definito Tony, e allora si concede una risata, scuotendo il capo.
Parcheggiano a ridosso di un marciapiede, lungo un viale alberato. Scendono dalla macchina e annusano l’aria che sa di foglie di tiglio e conserva ancora un po’ l’odore della pioggia.
Qualche passante rallenta il passo per ammirare la Buick.
«Non rischiamo che ce la rubino, vero?» dice il Soldato, a metà tra il serio e l’ironico. «Naturalmente non si può fare molto affidamento sulla mia memoria, ma mi sembra che questo fosse un quartiere in cui non sempre succedevano cose belle».
Lui e Steve guardano la macchina, poi contemporaneamente sollevano gli occhi e si guardano in viso. Sempre in contemporanea, spostano lo sguardo lungo il viale alberato: le facciate delle case allineate con porte di legno verniciato e fioriere alle finestre, siepi perfette e scintillanti, una piccola piazzetta con le giostre e un crocchio di bambini.
«Sembra una pubblicità» sospira Steve. «Questo posto è molto cambiato da quando ci vivevamo noi». 
«Dov’era di preciso?»
«In fondo a quella strada».
Bucky si lega i capelli in un codino - sono diventati ancora più lunghi e gli danno un aspetto selvaggio, anche se dai suoi occhi è sparita quella scintilla di furia e smarrimento da animale affamato che aveva la prima volta che si sono rivisti, sul ponte della statale di Washington. Poi il Soldato fa per alzare il cappuccio della felpa sulla testa, resta con le dita strette attorno al lembo di tessuto e esista un attimo prima di rendersi conto che non è così necessario.
Mentre attraversano il viale, arrivano alle loro orecchie le voci dei bambini, le risate sono squillanti e si trasformano in strilli acuti.
Steve e Bucky si voltano di istinto verso la piazzetta con le giostre, due di loro cominciano a litigare per l’ultima altalena rimasta libera, si spintonano per qualche istante, fino a quando le madri non intervengono a separarli.
Bucky si volta di colpo a guardare l’amico, come se fosse stato colto da una rivelazione.
«Steve? Tu… quando eri ragazzo sei stato picchiato, una volta…» mormora.
«Una sola?». Il Capitano ridacchia. Ora che quei giorni sono lontani, può guardare al se stesso ragazzo con la giusta dose di autoironia.
L’altro si ferma, quasi interdetto, scuote la testa inseguendo un ricordo che si fa sfuggente. «Succedeva spesso?»
«Credevo ricordassi quelle cose»
«No. È come un libro di cui ricordo la trama ma non riesco a mettere a fuoco i particolari» dice Bucky tra i denti. «Ma ricordo di una volta in particolare. Il naso ti sanguinava su una camicia gialla a righe, sul tessuto le macchie avevano un colore strano».
Steve annuisce. «Ah, quella volta. Sì, quella me la ricordo, credo sia stato il mio ingresso ufficiale nel mondo dei pestaggi».
 
***
 
I ragazzi sono due, appoggiati a una motocicletta con il serbatoio chiazzato di ruggine. Deve essere una di quelle che fanno un rumore di pazzi mentre vanno e sputano fuori nuvole di fumo denso come ovatta scura.
Uno hai capelli ricci e crespi, il viso tondo puntellato di lentiggini, laltro ha capelli scuri tagliati da poco, corti sulla nuca e sistemati da una patina di brillantina il cui odore dolciastro si sente a metri di distanza.
Steve Rogers, ventanni, una giacca di tweed troppo larga su spalle troppo magre, di ritorno dalla sua lezione di disegno, non li avrebbe neppure notati se non fosse che a un certo punto i due sono scoppiati a ridere in modo ostentato e sguaiato.
Steve conosce quella risata, troppo spesso è stato lui a provocarla: la risata dello scherno, la risata che è come una pioggia di pietre che ti viene scagliata addosso. Anche il suono somiglia a quello di un mucchio di sassi che rotolano.
Non stanno ridendo di lui. Loggetto della loro ilarità è un altro ragazzo, un tipetto dallaria anonima che sta attraversando la strada, deserta a quellora. Di lui Steve nota solo che ha delle bellissime mani, molto curate, per il resto è quel tipo che non ricorderesti di aver incontrato se ti capitasse seduto accanto sullautobus. Per questo forse il giovane Rogers impiega qualche minuto a metterlo a fuoco: è il musicista che insegnava pianoforte alla figlia dei vicini.
Il musicista sembra accorgersi di essere loggetto dello scherno dei ragazzi, ma non si volta a guardarli, stringe un po più forte la cartella di cuoio consunto e affretta appena il passo. I due si staccano dalla moto e gli vanno dietro.
«Ehi, Chuck,» esclama il ragazzo rosso, «dimmi un po quanti sinonimi conosci della parola checca?»
«Frocio, finocchio, invertito, deviato, succhiacazzi». Il ragazzo di nome Chuck urla questultima parola nellorecchio del musicista che incassa la testa nelle spalle, spaventato.
Il giovane Rogers conosce quelle parole. Le ha sentite dire di tanta gente che vive nei pressi del suo quartiere. Uomini a cui piacciono altri uomini: lui non si sente così in alto da poter giudicare se sia così sbagliato.
Steve resta a guardare da lontano. C’è qualcosa che gli impedisce di ignorare la scena e tornarsene per la sua strada.
Il male va conosciuto. Aveva detto padre Ronald durante il sermone, domenica scorsa. Il male va conosciuto altrimenti non lo si può combattere. Va guardato in faccia, sfidato. Solo così saprete se siete uomini giusti e allora non avrete nulla da temere.
Chuck e il suo amico Capelli-Rossi tagliano la strada al musicista, uno gli si piazza davanti, laltro dietro lo strattona per le spalle.
«Ehi, voi due!» lesclamazione gli è uscita di bocca, senza che lui potesse frenare la lingua.
Chuck e Capelli-Rossi si voltano spaventati nella sua direzione, quando mettono a fuoco la figura esile e minuta del ragazzo, il timore sparisce dalle loro facce e viene sostituito da unilarità sprezzante.
«Chi sei, la sua fidanzata?» dice Chuck, sghignazzando.
«Sono uno a cui non piacciono i bulli, fareste meglio a togliervi dai piedi». Una vocina nella sua testa lo avverte, gli dice che la sta sparando troppo grossa, che non è in grado, ma ormai è fatta.
I due danno un ultimo spintone particolarmente violento al musicista e lui cade contro il muro, poi si avvicinano a Steve con passo lento, come a dargli la possibilità di cambiare idea.
Non sanno quanto lui possa essere testardo.
«Insomma, sei uno che non si fa gli affari suoi, eh» dice Capelli-Rossi.
Steve mette su un grugno da duro, getta a terra la cartella da disegnatore e lalbum e serra i pugni. Pensa che avrebbe dovuto prestare più attenzione alle dritte di Bucky al riguardo.
Bucky sarà così fiero di lui nel sapere di quello che ha fatto.
Prima ancora che se ne renda conto, Capelli-Rossi lo ha già affettato per lestremità della giacca, lo avvicina a sé con uno strattone e gli molla un pugno in viso, tra il mento e la mascella. Steve caracolla allindietro, boccheggiando. Sente in bocca il sapore del sangue, la rabbia si mischia alla paura e alla confusione.
Si getta contro Capelli-Rossi, Chuck lo afferra per le spalle con una mano, con laltra lo colpisce di nuovo in piena faccia.
Il dolore che si spande dalle ossa del naso sembra un fuoco dartificio che esplode su tutto il suo viso, vibrando sugli zigomi e pizzicando nelle orecchie, lasciandolo senza fiato.
Steve inciampa nei suoi stessi piedi e cade a terra, limpatto con lasfalto polveroso fa male ma non quanto i calci che gli stanno mollando quei due, ai reni e allo stomaco.
Accartocciato su se stesso come un rifiuto, il giovane Rogers si chiede che fine abbia fatto il musicista. Probabilmente se l’è data a gambe e lui non se la sente di biasimarlo.
I due bulli non infieriscono più di tanto, un paio di calci bastano ad assicurarsi che il ragazzo resti lì steso a terra per un bel po.
Dentro il suo bozzolo di dolore e umiliazione, Steve sente il rumore scoppiettante della vecchia moto che si allontana.
Impiega lunghi minuti a recuperare le forze necessarie a rimettersi in piedi. Con una pazienza rassegnata si spolvera la giacca con le mani e raccoglie le sue cose. Mettersi a tracolla la cartella gli provoca unondata di dolore che gli rimbalza nelle ossa.
Si è macchiato la camicia, quella gialla a righe, il sangue rappreso scurisce sul tessuto e sembra viola come macchie di succo di mirtillo.
Arrivato nel suo quartiere, Steve guarda da lontano la porta di casa sua. Non sa se sua madre sia già tornata dal turno in ospedale ma sa che non può rientrare in quelle condizioni.
Volta il capo, ancora indolenzito, guarda la casa con la veranda dallaltro lato della strada. Casa Barnes, zona franca.
Ci si trascina e si pulisce le suole delle scarpe sullo zerbino rosso prima di bussare il campanello.
È Bucky ad aprire - grazie al cielo, non avrebbe sopportato di dover dare spiegazioni alla madre del suo amico, che per fortuna non è quasi mai a casa a quellora; suo padre è alla base militare dove lavora e non tornerà a casa prima del weekend.
«Cosa cazzo hai combinato?» lesclamazione di Bucky gli rimbomba nella testa martoriata.
«Devi per forza parlare come uno scaricatore di porto? Fammi entrare, spostati».
Bucky gli toglie di mano la cartella e lalbum da disegno dalla copertina ormai sporca e spiegazzata. Lancia le sue cose sul divano, con noncuranza, e gli fa cenno di andare di sopra, in camera sua.
«Chi è stato? Dimmelo» domanda, precipitoso. Steve pensa di non averlo mai visto così furioso.
«Non lo so, due tipi, non è importante»
«Non è importante? Steve, ma ti sei visto?»
«Oh, immagino che il mio aspetto non possa essere troppo peggiorato»
«Piantala, raccontami cosa è successo».
Ho provato a lottare, sono stato sconfitto ma la prossima volta sarà diverso.
«La prossima volta sarà diverso» dice Steve.
«Non ci sarà nessuna prossima volta. La prossima volta, se qualcuno ti dà fastidio, tu vieni diritto da me e…»
«A dirla tutta, sono stato io a dar fastidio a loro, in un certo senso. E poi non sei la mia balia e invece di startene lì a pestare il pavimento come un toro pronto alla carica, portami del ghiaccio, non posso farmi vedere da mia madre conciato così».
 
***
 
«Sì, era esattamente il genere di particolari che non riesco a mettere a fuoco» dice Bucky quando Steve finisce di raccontargli l’episodio. «Ma non hai qualche storia più allegra. Non so, io che ti salvo da una gang o robe simili»
«Ne ho molte di storie simili. Da quel giorno diventasti piuttosto protettivo e invadente»
«Oh, e adesso tu ti senti in dovere di ricambiare il favore».
Il Soldato non sa se si tratti di una battuta, ma distoglie subito lo sguardo perché non vuole che anche Steve se lo chieda.
«Hai detto che vivevi al numero 30, giusto?» dice, guardandosi attorno, cercando le targhette dei numeri civici.
Steve lo guarda come se gli sembrasse davvero troppo strano doverglielo ripetere, ma alla fine annuisce.
In quel quartiere, immersi in un pezzo concreto del loro passato, i fantasmi tornano a urlare nella testa di entrambi.
«È quello lì?». Il Soldato indica una palazzina bassa con la facciata di un azzurro pastello chiarissimo e grosse vetrine sporgenti verso l’esterno. Sopra la porta girevole, l’insegna dice “Beverly’s jewelry”.
Persino la sua memoria martoriata gli sa dire che c’è qualcosa di enormemente diverso in quella costruzione. Lui ricorda una scala che portava a uno stretto pianerottolo e un palazzo a due piani dalla facciata scorticata. Ricorda una chiave macchiata di ruggine nascosta sotto a un mattone lasciato a terra accanto alla ringhiera dalla vernice scrostata.
E ricorda parole che gli si piantano nella mente come tanti spilli.
Io sarò con te fino alla fine.
La risata di Steve lo strappa alle sue riflessioni, il ricordo si dissolve come fumo e lui torna al presente.
«Trovo così assurdo che ci sia una gioielleria. Era un quartiere poverissimo questo» dice il Capitano.
Il Soldato non lo trova divertente, ma è quasi consolante l’idea che tutto sia diverso, così almeno non può rimpiangerlo.
«Che ne dici di andare a mangiare qualcosa? Spero che almeno qualche caffetteria e qualche diner l’abbiano lasciato» propone Steve.
Il Soldato aggrotta la fronte. «Penso che sia troppo pericoloso»
«Eh?»
«La faccia di Captain America è troppo riconoscibile, è stato già un azzardo venire qui»
«Ho girato con questa faccia per più di due anni»
«Negli ultimi due anni non c’era questa situazione di emergenza».
Steve lo guarda con poca convinzione. Forse sta pensando che il Soldato di Inverno, addestrato per le situazioni più estreme, sia eccessivamente prudente, paranoico.
«Andiamo, non vorrai costringermi a sopportare Stark anche a pranzo».
La frase si perde nel suono di uno sparo che smuove come un’onda troppo violenta la calma silenziosa e ordinata del quartiere nel cuore del DUMBO.
Gli occhi di Captain America si riempiono di terrore quando il Soldato di Inverno cade ai suoi piedi.







Note

Per la collocazione del quartiere in cui vivevano Steve e Bucky mi sono affidata a QUESTO articolo (da cui è venuta poi anche l’idea per il falshback di Steve). Si ringrazia _G_J_ per avermelo ritirato fuori ieri sera quando, in calcio d’angolo, mi erano presi i dubbi esistenziali riguardo la collocazione esatta del luogo in cui i nostri baldi (mica tanto) giovani erano nati e pasciuti e ho smantellato e riscritto mezzo capitolo all’ultimo minuto. 
DUMBO quindi sta per "Down Under the Manhattan Bridge Overpass”
La citazione iniziale viene dal brano "Slip slide melting” dei For Not Love Lisa

Per tutto il resto, citofonare Alki: Facebook | Twitter | Ask 

A venerdì prossimo con l’aggiornamento. 

 
   
 
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