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Autore: PurpleBlast    01/08/2014    3 recensioni
Il senso di tutto morì con lei. Il prestigio del passato, ormai lontano ed una vita vuota e priva di senso alcuno, nel presente. Un giorno identico all'altro. Il ricordo di ciò che davvero aveva un valore e la possibilità incredibile di poterlo sfiorare nuovamente. Nel presente. Utopia e realtà si fondono, e, forse, l'impossibile potrebbe tramutarsi in possibile, se una divinità desiderasse sfiorare le tele del destino...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Garuda Aiacos
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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"Non esiste separazione definitiva fino a quando c’è il ricordo."
Isabel Allende, Paula


Non vi era più differenza da un giorno all’altro. Il sorgere del sole, all’alba, l’incidere del giorno, il pomeriggio sempre troppo illuminato, un languido tramonto e poi la notte. Questo passare del tempo ciclico divenne una tortura, con il trascorrere dei mesi. Ancora di più lo era il sopravvivere, ora come essere umano. I bisogni naturali, come doversi nutrire, lavare, dormire… tutto era diventato troppo per lui. Negli inferi era un Comandante d’acciaio, invincibile, al quale tutti s’inchinavano per sommo timore e rispetto. Un padrone del fuoco e di vite spettrali. Lui decideva le sorti e le punizioni. Lui eliminava chiunque gli fosse d’intralcio. Lui ed il suo ego erano il centro del suo esistere in quel luogo. Lo erano stati. Fino a quando venne toccato nella sua intimità più recondita e nascosta da qualcosa cui mai avrebbe pensato d’aspirare. Quando la sua anima fu sfiorata da un sentimento, allora qualcosa cambiò. E lui detestò quel cambiamento, nonostante anelasse di raggiungerne l’essenza primaria. La causa. La ragione. Lei.
Cadde a terra, inciampando nei ciottoli della strada. In bocca la polvere. Le mani ruvide. Il sudore nella schiena. Spinse verso il basso, per rialzarsi. Ora era l’antitesi del proprio passato. Un miserabile.
Solo.
Socchiuse lo sguardo un tempo scarlatto. Nelle sue iridi ora dorate, ancora vibravano pagliuzze color rubino. La carnagione olivastra e la chioma scura, dalla sfumature della notte più profonda. L’abito rovinato, una tunica di cotone chiara e dei pantaloni troppo larghi, ormai. Il cibo non era più piacere, come un tempo. Era bisogno. E per lui diveniva necessario soltanto quando le fitte allo stomaco gli impedivano di dormire.
Ricordava bene quelle sere in cui pasteggiava, senza pensieri, tra le morbide coltri disfatte. Quando libero da qualsiasi abito o vergogna, porgeva ogni qual genere di golosità alle labbra della sua compagna, raggiungendola poi con le proprie, condividendo anche il sapore delle proprie bocche, oltre che della pietanza. Dopo aver consumato energie negli allenamenti e tra le lenzuola, quello era il loro riposo. Il loro momento senza regole. Anzi, con una soltanto: tutto ciò che accadeva nella sua stanza, in Antenora, lì doveva concludersi. All’esterno lui era il suo Generale. Lei la sua seconda in comando.
Strinse i denti. Chiuse gli occhi. Qualsiasi immagine di ciò che era stata la sua vita, lo stordiva. Qualsiasi immagine che comprendesse lei.
Raggiunse il villaggio a ridosso del mare una calda sera di agosto. Le vie erano ancora frenetiche e ricolme di persone che si muovevano in ogni direzioni. I banchi del mercato iniziavano a ritirare la merce esposta. Nel passare accanto a pagnotte, dolci, carne, frutta, le fitte allo stomaco si risvegliarono di soprassalto, assassine e cruenti. Portò le mani su quel dolore, come per placarlo. Che scocciatura il dover sopravvivere. Avesse almeno avuto un senso. Ma lui di sensi e di ragioni non ne voleva più. Quella che stava vivendo era una punizione. Sarebbe andato avanti fino a quando non avrebbe avuto più forza. E allora, senza necessità alcuna di combattere, ecco, avrebbe detto addio a quell’esistenza inutile.
- Ehi, tu! - Il richiamo di una voce maschile lo rianimò dai lugubri pensieri. Focalizzò di fronte a sé un vecchio uomo, grigio di capelli e di barba, quest’ultima folta e lunga. Stava immobile su una sedia. Non aveva le gambe. Con una mano stringeva un bastone lavorato da cure abili, il quale aveva alla sua sommità la forma della testa di un pesce. Le dita del vecchio stringevano le squame intagliate in esso.
- Sei sordo o ci senti? – riprese provocatorio l’uomo. Suykio deglutì, cercando di prendere coscienza del presente, ed annui,
- Ci sento. – si limitò a rispondere.
L’anziano uomo tacque qualche istante e parve scrutarlo con due gemme azzurre che sarebbero potute appartenere ad una bambino. Risaltavano incredibilmente nel volto rugoso e scuro. Un viso scavato e levigato dal lavoro e da una vita faticosa, non vi era dubbio alcuno.
- Se vuoi guadagnare qualche denaro, ho bisogno di un aiuto. - dichiarò infine, come se si fosse improvvisamente fidato di lui. L’ex giudice infernale restò basito da tale affermazione. Da quando vagava senza meta, non aveva mai ricevuto un’offerta così facile da raggiungere. Aveva sempre dovuto cercare da sé piccoli lavori di fatica per garantirsi il necessario per non morire di fame. Questo sfiorava il miracolo.
Il senso di sopravvivenza ormai labile nel suo animo, si risvegliò, con sua stessa sorpresa. Mosse dei passi verso il vecchio.
- Vi ascolto. – si limitò a rispondere.
L’uomo sollevò il bastone, indicando le casse che stavano davanti a lui, nelle quale era depositato del pesce. Poi scostò la punta dello stesso verso un carro dall’altra parte della strada.
- Porta le casse sul carro. - Ci fu un momento, prima che Suikyo reagisse. Poi senza porsi domande né problemi si abbassò, per afferrare la prima cassa. In questa vi erano dei totani. L’odore acre raggiunse subito le sue narici. Quel pesce doveva essere lì dalla mattina. Il ghiaccio era ormai sciolto e la freschezza degli animali compromessa. Inoltre nello spostamento, del liquido fuoriuscì dalla cassa, bagnando i suoi abiti. Lui non se ne curò. Soltanto il senso di nausea lo infastidì. Ma si disse che non avendo ingerito nulla negli ultimi quattro giorni, non avrebbe potuto vomitare un bel nulla. Perciò proseguì.
Le casse che portò sul carretto furono completate alla settima. Tornò di fronte al vecchio, il quale allargò le braccia, 
- Ho bisogno che porti anche me, sul carro, ora. - In quella richiesta non vi era vergogna e nemmeno desiderio di pietà. Suikyo gli si avvicinò e lo raccolse. Si sentì goffo, nel prendere tra le braccia quell’uomo, ma lo fece con attenzione. La Garuda non soggiogava più il suo animo, questo le rendeva più capace nei rapporti umani.
Mentre attraversava la strada, alcuni mercanti si fermarono ad osservarlo, seguendo il suo tragitto, passo per passo. Lui se ne accorse, ma non se ne curò.
Raggiunto il carro, poggiò l’uomo, lasciando che si accomodasse da sé, al meglio. Il vecchio indicò l’estremità del mezzo, al quale non vi era legato alcun animale.
- Ora afferra il carro e prosegui per questa strada. - Un ordine dopo l’altro, con garanzia di nulla. Tuttavia quegli ordini erano oro. Colmavano i suoi pensieri e l’attenzione nel qui e ora. Non vi era passato e neanche futuro, solo quel semplicissimo ordine da eseguire.
Trasportò il carro per quasi un chilometro. Sentì il bastone dell’uomo colpirlo leggero sulla spalla, quando si trovavano di fronte ad una vecchia abitazione dalle mura grige e dalle piccole finestre.
Si fermò, osservandolo.
- Questa è casa mia. E per questa notte sarà anche casa tua. Puzzi come un pesce andato a male, ragazzo. -
La porta si aprì e spuntò da essa una donna troppo magra, sui settant’anni. Una massa di capelli cinerei ma ancora soffici, ricci e raccolti con una crocca sul capo. La pelle rugosa e scura, il naso sottile. Uno sguardo verde chiaro, rassicurante. L’abito color panna con sopra un grembiule, la vestiva in modo ordinato.
Lanciò uno sguardo curioso verso Suikyo e poi si rivolse al vecchio
- Samuel! Cosa ne è stato dei due fratelli indiani? -
Quello sbuffò,
- Due incapaci. Questa mattina, dopo avermi piazzato al solito posto, hanno farneticato qualcosa rispetto un viaggio in Asia, un ritorno a casa. E mi hanno mollato lì, senza se e senza ma! Dannati!-
Alzò anche il pugno, a completare il quadro di rabbia verso quei due. L’anziana sospirò, portando le mani ai fianchi ed osservando il nuovo ragazzo
- Hai fatto scappare anche quelli. Samuel, non puoi essere sgarbato con tutte le persone che incontri… - fece un passo verso il giovane – lo è stato anche con te? -
Suikyo fu colpito dalla gentilezza dell’anziana signora. Era qualcosa che non viveva da tempo, quel senso di attenzione. L’ultima volta che qualcuno si era curato di lui… era stato durante l’attacco ordinato da Hades. Attacco dettato ad un corpo privo di vita. Che tuttavia si rifiutò di eseguire il mandato fino in fondo.
Violate mostrò ad Aiacos la potenza del loro legame persino in quella situazione.
- No – si riscosse, accorgendosi dello sguardo indagatore della donna, - Tutt’altro.-
Lei non ne fu pienamente convinta, ma i suoi ragionamenti vennero interrotti dall’anziano privato degli arti inferiori:,
- Bhe, dobbiamo andare avanti ancora per molto? Avrei urgenza del bagno. Giovane, prendimi, forza! -
La donna però si mosse, impedendogli di muoversi e fissando arcigna Samuel.
- Non ti sembra di mancare di educazione, marito mio caro? Non gli hai nemmeno domandato il nome? -
- Ehm… - commentò quello, come se fosse stato colto di sorpresa da una domanda complicata, - ragazzo, il tuo nome? – con completa indifferenza verso l’accusa di lei.
Da quanto tempo non pronunciava il suo nome? Interminabile. Era Suikyo? Ma aveva vissuto maggiormente nei panni del giudice Aiacos della Garuda… chi era dei due? Era un guerriero di Athena? O un giudice nero di Hades? Non era nessuno, né più l’uno, né più l’altro. Nessuno. Ma dovette rispondere.
- Suikyo. -
L’anziana gli sorrise, quasi materna,
- Benvenuto, Suikyo. Il mio nome è Hanna e posso solo ringraziarti per aver portato a casa mio marito ed il suo brutto carattere. Ora, se potessi accontentarlo ancora, vorrei poi prepararti un buon bagno ed una cena all’altezza della tua gentilezza. -
Osservò la donna mentre parlava. Gentilezza? In passato quella parola era esterna al suo credo. Non aveva necessità ne compiacimento nell’essere gentile con alcuno. Lui era severo e pretenzioso. Ogni sua richiesta doveva essere soddisfatta all’istante. Da un inchino ad un omicidio. Nessuno meritava gentilezza, ma soltanto ordini. Ordini e comandi diretti.
Forse con lei… lo era stato almeno un po’ gentile? O l’aveva sempre trattata con la sufficienza di un generale, nonostante… nonostante tutto quello che lei significasse per lui? Quella domanda lo torturò improvvisamente.
Un ulteriore senso di colpa era proprio ciò che gli serviva.
Hanna tuttavia attendeva ancora una risposta. E lui pronunciò una parola che da tempo immemore non compariva sulle sue labbra,
- Grazie. -
Poi prese l’uomo, accompagnandolo nel bagno. La donna gli disse che ci avrebbe pensato lei da lì in poi. Era esile, ma le sue braccia si mostrarono forti al bisogno, mentre lo aiutò a mettere seduto Samuel.
Attese qualche momento, poi Hanna tornò da lui con un grande asciugamano bianco come il latte. Glielo porse e gli indicò la porta da cui era appena uscita,
- La vasca è pronta. Fai con comodo. Ti lascerò degli abiti puliti poggiati qui fuori, in modo che tu possa rimetterti in sesto. -
Gli diede le spalle e lo lasciò solo. Lui si mosse verso la porta indicatagli. Quando l’aprì, un profumo di lavanda gli invase le membra.
Una vasca da bagno colma di acqua trasparente fumante. Restò immobile a contemplare quella scena per qualche momento.
Da quanto tempo non si concedeva un simile lusso?
Iniziò a spogliarsi. Levò la tunica, lasciando libero il petto ancora muscoloso e liscio, ma più magro di un tempo. Slacciò i pantaloni e li fece cadere a terra. Lo stesso fece con i boxer neri. Nella penombra la maestosa nudità di quel corpo rivelava tratti del suo passato. Cicatrici sulla schiena e sul dorso, frutto di quell’ultima battaglia con il Sagittario. Le cosce, i polpacci e le braccia ancora sostenevano una certa tensione muscolare. Si mosse, entrando nella vasca. Sdraiato, abbandonò il capo all’indietro. Respirò e poi si lasciò scivolare sott’acqua.


Completamente immerso nel caldo liquido, tratti del suo passato riaffiorarono nella sua memoria.
La vasca da bagno in Antenora era enorme. Una piscina sotterranea, circondata da statue mitologiche, tra le quale trionfava tra tutte la Garuda, per dimensioni.
Vi erano candele tutt’intorno, ad illuminare il luogo ed un profumo d’incenso appena percepibile. I sali da bagno dovevano essere versati ogni giorno dalle sue serve. Serve e concubine, a seconda delle sue necessità. Le donne che obbedivano ai suoi ordini dovevano essere piacenti, giovani ed acconsenzienti, sempre. Pena, la morte.
Ogni suo bisogno diveniva un ordine. Ovunque si trovasse. Nella sua stanza era solito ad accompagnarsi con una, due o tre di esse. Non conosceva i loro nomi e non ne era interessato. Erano corpi, semplicemente. Necessari a trastullare i suoi bisogni, a soddisfare le sue fantasie più segrete.
Quel giorno una di esse si stava occupando del suo organo per eccellenza. Lui stava seduto, con le mani dietro la nuca, alle spalle della Garuda di pietra. La bocca che prestava attenzione ai suoi piaceri era capace, non vi erano dubbi.
“Le donne, utili soltanto a questo”, pensava.
Alle sue spalle udì un rumore. Qualcuno si era appena tuffato nella piscina. Chi osava disturbarlo? Nessuno aveva il permesso di penetrare quelle acque linde e profumate. Nessuno tranne lei.
Si voltò appena, per scrutare senza essere visto.
Intravide la figura sotto la superficie dell’acqua. Attraversò veloce e sinuosa l’intera distanza della vasca, riemergendo dalla parte opposta. Una sirena degli inferi. Una specie di essere sovrumano. Come lui stesso si considerava. E allora li vide per la prima volta, i suoi seni. Bianchi e illuminati dalla tiepida luce traballante delle candele. Sodi e lucidi. Mai sfiorati in Ade, da nessuno. Lei avrebbe senza dubbio ucciso chiunque avesse tentato di farlo. Si trattava di una vergine, era probabile.
Quando indossava la surplice di Behemoth, lei diveniva soltanto uno specter come tanti altri. No, non “come”. Lei era la più potente, dopo di lui. Quella più temuta ed invidiata nelle sue guarnigioni. Lei non lo aveva mai deluso e sapeva rispettare e portare a termine ogni suo ordine, sempre. Avvertiva talvolta il suo timore reverenziale, quando lui la convocava. Un timore passionale. Lei dipendeva da lui, e di questo ne erano sempre stati coscienti entrambi.
Violate inclinò il capo all’indietro, permettendo alla lunga chioma corvina di immergersi libera nelle acque della vasca. Le punte dei seni rivolte verso l’alto.
L’eccitazione in lui aumentò, tant’è che la serva di turno, accorgendosene senza sospettarne il vero motivo, si mosse per permettergli di sfogarla in lei, divaricando le gambe. Ma nonostante desiderasse subito l’orgasmo, violento e liberatorio, non fu quello che scelse. La fulminò con lo sguardo, afferrandole il volto con una mano e stringendo così forte da farle male. Le indicò l’uscita, in silenzio. Quella non capì, ma tremante e a capo chino raccolse veloce le sue vesti e se ne uscì, priva di qualsiasi traccia di orgoglio e colta dalla paura più totale di aver sbagliato qualcosa.
Poi veloce come soltanto lui sapeva fare, scivolò nell’acqua. Nuotò rapido come uno squalo guidato dalla fame, verso la sua preda. Tra i vapori della stanza poteva celare la propria presenza. Anche se il suo cosmo, seppur quasi del tutto annullato, venne riconosciuto dalla guerriera.
Ella si voltò nella sua direzione, portando un braccio sul proprio petto, a nascondere la propria evidenza di femminilità. La Garuda si svelò, in piedi, con l’acqua sino i pettorali. Lo sguardo scarlatto fisso su di lei.
- Mio signore, vi domando scusa. Non avrei mai voluto disturbare il vostro bagno… - chinò il capo, rispettosa.
Eppure le sue gote leggermente arrossate la tradirono. Si vergognava di trovarsi innanzi a lui in tale nudità.
La bestia non parlò subito. Qualcosa lo obbligò a riprendere coscienza del presente e non gli fece seguire semplicemente l’istinto di afferrarla per fare di lei ciò che voleva, sfogando l’eccitazione trattenuta che ancora pulsava ribelle tra le sue gambe. Non le si avvicinò subito. Una parte di lui era stupito che lei potesse provocargli quella reazione.
Un’altra parte, quella inconscia, conosceva invece la verità, quella che lui stesso avrebbe scoperto troppo tardi.
- Non mi disturbi. Non tu. - le rispose.
Il volto di Violate era libero dalle ciocche corvine che solitamente lo incorniciavano. I capelli erano bagnati e le scendevano mossi sulle spalle. Le labbra rosee socchiuse. La pelle lunare.
- E’ mia abitudine venire in questo luogo ogni giorno, dopo gli allenamenti. Amo questo posto. Il silenzio e l’atmosfera che qui regnano, rilassano i miei arti ed i miei pensieri. – iniziò lei, ancora immobile.
Lui si mosse, avvicinandosi a lei. L’osservava attento, senza vergogna. Lei doveva saperlo che era sua, in ogni sfaccettatura. Anche in quella.
- E quali pensieri può avere il mio braccio destro? Rivelamelo, Violate, sono curioso… - La voce era provocatoria e seduttiva. L’incendio in lui non si era ancora quietato. Lei rialzò il volto, cercando di non mostrare la difficoltà di dialogare con lui in quella situazione.
- Nulla di che… - rispose prendendo una pausa, - cerco di lasciarmi alle spalle la giornata e il fastidio dell’incapacità di alcuni subordinati… -
Lui in silenzio continuava a girale intorno, senza smettere di scrutarla.
- E non incontri qualche amante? – chiese a tradimento,
- No! – rispose risoluta, quasi furiosa, - Non vi sono amanti! – concluse, voltando il viso dalla parte opposta in cui si trovava lui, il rossore era evidentemente aumentato. Aiacos scattò, portando una mano sotto il mento della donna. Agganciò il suo sguardo, immobilizzandolo,
- Certo che no. Tu appartieni a me. – soffiò come brace sulle sue labbra.
Era un ordine chiaro, senza scampo. La teneva in pugno, totalmente. Lei era sua e lui la rendeva sola. Sola, ma sua. Violate non osò ribellarsi. Attese che lui lasciasse la presa sul suo viso. Cosa che non accadeva.
- Detesti questa vicinanza, Violate? Taluni sostengono che tu non apprezzi la compagnia degli uomini… - istigò lui.
- La vostra vicinanza non potrebbe mai disturbarmi, mio signore. Gli uomini presenti in Ade non sono la compagnia che cerco. – rispose sinceramente.
- Minos e Rhadamantis mettono in giro strane voci su di te. Evidentemente sono gelosi del fatto che l’unica femmina decente sia stata messa nelle mie schiere. - Ghignò divertito a quest’idea, – nessuno di loro può permettersi di immergersi in una vasca con te… di scrutare il tuo corpo privo di armatura… - lasciò che il suo sguardo cadesse liberamente sotto la superficie dell’acqua, - … nel suo più totale splendore… Nessuno potrebbe, in quanto io lo ucciderei prima che l’occhio portasse qualsiasi messaggio al cervello. -
Le parole del giudice la destabilizzarono. Aveva sempre rivendicato la sua proprietà, ma mai in modo tanto personale.
- Le acque ti vestono. Leva il braccio dal tuo petto, Behemoth. - L’ordine giunse improvviso.
Violate non lo eseguì all’istante, soffermando lo sguardo su di lui. Poi, lentamente realizzò l’ordine, liberando il seno nell’acqua. Questo venne sollevato dalla pressione, galleggiando sodo innanzi a lei. Il giudice ritrasse la mano dal viso di lei. Comprese in quel momento ciò che già sapeva.
- Faresti tutto per me, Violate? – il tono serio e lento. Lei annuì.
- Per voi io vivo, mio comandante. – La voce fu più sussurrata del solito. Ed in quella risposta vi era tutto. I sentimenti quotidianamente repressi e tenuti a bada. I sacrifici e i desideri irrealizzabili. I silenzi obbligati.
Lo sguardo di Aiacos tremò innanzi a quella creatura, in quel momento, tanto perfetta.
- Era ciò che desideravo udire… -. Portò una mano dietro la nuca di lei, per attrarla a sé. Fu rapido. Raggiunse le sue labbra con le proprie. Le assaporò, mordendole e lambendole con voluttuosa calma. Aprì gli occhi scarlatti, scrutando in quelli violacei, ora lucidi ed increduli. Invase la bocca di lei con la lingua, esplorandola prima a tocchi, poi accelerando. Lei lo raggiunse in quella calda danza umida, mentre una mano raggiunse il centro delle sue candide spalle, e scese. Una bollente carezza che sostò appena sopra le sue natiche. Lei posò le mani sul dorso di lui, scivolando sino i fianchi. Il desiderio s’incendiò, ignorato da tempo immemore, finalmente aveva trovato uno sfogo pratico.
Il contatto si placò non appena entrambi udirono il richiamo della divinità che li governava. Era un appello di ruotine, ma fu complicato frenare gli istinti più animali.
- Dannazione! – imprecò il giudice, digrignando i denti e portando lo sguardo alle sue spalle.
Poi tornò ad osservare Violate ed il suo volto incendiato dal desiderio. Dovette annullare ogni pensiero e respirare profondamente – Mi serve una doccia fredda, immediatamente. – commentò, nell’abbassare lo sguardo in acqua, ad ammirare il suo membro contrario alla razionalità del dovere.
Riportò l’attenzione su di lei, ma non disse altro. Le diede le spalle, allontanandosi, mentre espandeva il cosmo della Garuda tutt’intorno loro. Era un modo inconsapevole, probabilmente, per non interrompere in modo così brusco un momento tanto intenso. Lei si sentì abbracciata e protetta in quel calore proveniente da lui. Si immerse nell’acqua completamente, così la vide lui, mentre usciva dall’enorme stanza.


… e così riemerse dalla piccola vasca in cui si trovava ora. I capelli lucidi, fradici di acqua. La pelle arrossata, sia per la temperatura che per il ricordo non appena vissuto. Non rimpiangeva quasi nulla di quella vita. Non il potere e nemmeno il prestigio della posizione di giudice. Lei soltanto. Le parole non dette e le scelte errate.




Ciao a tutti! Inizio così, con questa coppia che adoro alla follia :-D
Ho immaginato cosa potrebbe essere accaduto al giudice caduto… la fantasia ha galoppato ed ora… eccoci qui!
Non sarà una fanfiction molto lunga, tutt’altro. Spero vi tenga in buona compagnia!
   
 
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