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Autore: Valpur    04/08/2014    2 recensioni
[Sequel di Two Steps from Hell]
Alina sospirò, inarcò la schiena e tese le braccia verso l’alto. Dita piccole e sporche di inchiostro, ora, ma mani ancora forti, poco più magre rispetto all’epoca delle sue avventure.
Quanto tempo era passato? Dieci anni? No, di più, almeno dodici. Senza un briciolo di nostalgia fece schioccare le nocche e si raddrizzò.

Cosa succede a un eroe quando il male è sconfitto?
Vive. Ma certe scintille non si spengono mai.
Genere: Azione, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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~Dodici anni prima~

 
 
 
L’aveva colta alla sprovvista. Di solito ci si aspetta un discorso, la scelta di un momento particolare, un minimo di cerimonie.
Vilkas aveva ignorato tutto questo.
Aveva giusto aspettato che Alina si alzasse dal tavolo della colazione in un giorno qualsiasi qualche mese dopo la caduta di Alduin. Mesi in cui i Compagni avevano prosperato e la vita aveva assunto una piacevole stabilità.
Quel giorno Alina si era diretta con scarso entusiasmo verso la pila di contratti, pagamenti e scartoffie che l’aspettava sulla scrivania, invidiando in silenzio Vilkas e le sei reclute che avrebbe dovuto addestrare. Aveva sceso un solo scalino e si era lasciata alle spalle il cigolio della porta che dava sul cortile posteriore quando Vilkas la chiamò.
“Alina?”
“Mh?”
Si voltò e il suo cuore fece un piccolo sussulto. Appoggiato allo stipite della porta socchiusa, armeggiava con le cinghie della corazza, corrucciato e concentrato. Il sole di fine inverno faceva splendere i pochi fili d’argento nella chioma corvina. Alina si concesse un sorriso compiaciuto.
“Senti, stavo pensando a una cosa”, continuò Vilkas senza guardarla, troppo impegnato a litigare con uno spallaccio poco collaborativo.
Seguì un lungo attimo di silenzio, così Alina lo incalzò.
“Sì, dimmi”.
Vilkas sistemò l’ultima fibbia e si diede una manata sul petto coperto di metallo. Solo allora alzò il viso e la fissò dritta negli occhi. Alina non ebbe il tempo di interrogarsi sul vivido rossore che traspariva dalla pelle chiara, né sulla profondità dei solchi tra le sopracciglia, di solito riservata ai momenti di maggior tensione.
“Sposami”.
Aveva sentito male, era chiaro. Risalì l’unico gradino e si scostò i capelli dietro l’orecchio.
“Cosa?”
Vilkas prese un profondo respiro dal naso.
“Ho detto sposami”.
“Ma… io?”
“E chi altri, scusa?”
L’ondata di sangue le risalì per le guance mentre la comprensione si faceva strada nella sua testa. Restarono a fissarsi muti per qualche istante e Alina non si premurò neanche di chiudere la bocca spalancata per la sorpresa. Dal cortile arrivavano le voci dei novellini, risate e fragore di armi.
“Io. S-sposarci”.
“Io e te. Sì”.
E non abbassò lo sguardo, Vilkas, rigido e con i denti stretti. Le nocche della mano che reggeva la porta erano bianche.
“E chi altri”, ripeté Alina a bassa voce.
“Allora?”
Quel vecchio panico che l’aveva accompagnata per tutta la vita si ripresentò solo per un istante, vestito di colori più tenui, meno minaccioso; la testa le era diventata un’unica bolla, vuota e leggera.
Pensare? Fuori discussione.
Attraverso la gola contratta Alina riuscì a recuperare abbastanza fiato per rispondere.
“S-Sì”, esalò nell’aria immobile della sala.
Vilkas gonfiò il petto e un angolo della bocca gli si arricciò in un sorriso, seminascosto dalla barba nera.
“Bene”, disse soltanto, quindi uscì verso il cortile. Alina fu sicura di averlo sentito scendere le scale a balzi, a giudicare dal clangore dell’armatura. Lei, da parte sua, si limitò ad accasciarsi con grazia contro la balaustra.
Sposarlo. Sposarsi. Era qualcosa di così assurdo, di così estraneo alla sua esistenza da non averci proprio mai dedicato neanche mezzo pensiero. Aveva Vilkas, lo amava, erano felici e tanto le bastava.
Ma immaginarsi con un bel vestito e poi con dei marmocchi? Le venne la pelle d’oca.
Chi si sposava? Le persone normali, quelle che vogliono mettere su famiglia, magari con una casetta, un pezzo di terra, tutta roba tranquilla. Ma loro due? Il Sangue di Drago e uno dei più famosi Compagni di Skyrim? La gente come loro non si sposava, era semplicemente ridicolo.
Ma la vocina della sua coscienza fu pronta a rovinare queste poche certezze.
Astrid e Arnbjorn erano sposati.
Quel pensiero sgradito la fece sentire sporca; si passò una mano sulla faccia e si pizzicò le guance finché il passato non fu richiuso nel suo cassetto della memoria.
Però era vero: non erano solo contadini e commercianti a sposarsi. Si sposavano assassini e imperatori, jarl e stregoni. Perché non loro due?
E poi scusa, la prospettiva di passare la vita con lui non ti  mai sembrata meno che naturale. Sai di volerlo, cosa cambierebbe tra voi?
Solo qualche anno prima paura e testardaggine le avrebbero tolto il fiato e messo le ali ai piedi, ma adesso? Alina si guardò le mani; la destra era sporca d’inchiostro sul lato, forse giusto un po’ più indurita della sinistra. Chiuse le dita e le labbra intorpidite dallo stupore si stesero in un tremulo sorriso.
Sì.
Se lo ripeté mille volte durante quella mattinata di cuore gonfio e occhi splendenti, di risposte evasive a chi le chiedeva cosa fosse successo di bello. Di sguardi fugaci e consapevoli, di Vilkas che la sfiorava con finta indifferenza quando si incrociavano.
E poi il sole calò, Jorrvaskr tornò silenziosa –per quanto potesse esserlo, ora che era quasi affollata di nuovi Compagni- e poté ripeterlo ancora, la voce incerta ma il corpo che parlava chiaro nella sua danza con l’uomo che amava.
Lo voglio lo voglio lo voglio.
La sorpresa e l’ombra di paura si sciolsero nella gioia e nell’attesa nei giorni successivi.
Durante il primo viaggio per prendere accordi, però, Alina recuperò almeno in parte la lucidità che la proposta di Vilkas aveva relegato in un angolo lontano della mente.
Riften si profilava all’orizzonte, una sagoma tozza e grigia nella nebbia. Vilkas era eretto e a suo agio sulla sella, il collo di volpe del mantello che gli sfiorava le guance e lo sguardo dritto davanti a sé; non aveva l’aspetto di chi avesse risentito del lungo viaggio. Accidenti a lui!
Alina strinse le dita guantate attorno alle redini di Merda; il cavallo scrollò la testa per quell’inattesa pressione.
Niente da fare, non riusciva a perdonare quella città. La cosa le dispiaceva davvero, perché la gente che incontrarono per strada mentre si avvicinavano alla capitale del Rift la salutava con entusiasmo; in un paio di occasioni dovette quasi litigare con chi voleva baciarle la mano, riuscendo a calmare i più entusiasti con una stretta vigorosa o un abbraccio. Non che le desse fastidio, anzi, le scaldava il cuore sapere che la gente –anche gli sconosciuti!- le voleva bene e le era grata, però insomma, era strano.
E ora, mentre le mura di Riften emergevano nere dalle ombre del crepuscolo, si sentiva in colpa per la propria incapacità nel cancellare i brutti ricordi.
Come se le avesse letto nel pensiero, Vilkas allungò una mano e le strinse un ginocchio; voltandosi verso di lui, Alina lo vide sorridere con una dolcezza inconsueta.
Avrebbe solo voluto bearsi di quegli occhi ridotti a scintille di gioia, ma la domanda le sbocciò sulle labbra senza che nemmeno l’avesse formulata consapevolmente.
“Perché stiamo facendo questa cosa? Andare al tempio di Mara, intendo”.
Il sorriso di Vilkas si incrinò solo un attimo e tornò quello ironico di sempre.
“Perché è lì che ci si sposa”.
“Sì, d’accordo, ma non mi sei mai sembrato un tipo particolarmente religioso”.
Una strizzata alla gamba e Vilkas continuò.
“Visto che ci sposiamo, voglio fare le cose per bene. Puoi vederlo come un desiderio di seguire le tradizioni, ma il concetto è che avevo bisogno che tutto fosse come dev’essere. Con la benedizione di un sacerdote e una festa e… e un bel vestito. Per te”.
Alina sbuffò nel reprimere una risata. L’ilarità le indugiava ancora nel petto, ma Vilkas si era fatto serio e ridergli in faccia non sarebbe stato corretto.
“Capisco”, disse quindi dopo essersi ricomposta.
“Mi spiace che debba essere Riften”. Tolse la mano dal suo ginocchio con un’ultima pacca e riprese le redini della sua giumenta grigia.
“Non ti preoccupare, ormai posso sopportarlo”. Alina sospirò; le stalle della città erano ormai a poche centinaia di metri. “Ci ho vissuto per dieci anni e non ho mai messo piede nel tempio, figurati…”
E anche quel giorno Alina non vide molto del tempio; un’impressione fugace di volte in legno e pavimento odoroso di cera e incenso, calore e luce gialla, prima che una figura avvolta in vesti arancioni li raggiungesse.
“Siate i benvenuti”, disse una voce profonda dai recessi del cappuccio; uno svolazzo della manica e questo ricadde, rivelando un volto nero dagli occhi gentili. “Sono Maramal, primo sacerdote del tempio”. Alina raddrizzò le spalle sotto al mantello; le dita sfiorarono la mano di Vilkas e, d’istinto, si trovò a stringerla.
Maramal sorrise, un lampo bianco nella pelle scura. Lo sguardo si posò su Alina e la percorse attento.
Mi ha riconosciuta.
“Sono Alina, e questo è Vilkas. Siamo qui per-per il matrimonio. Capire come si fa, insomma. Come funziona, cosa serve fare”.
Il sacerdote strinse per un istante le labbra, ma non riuscì a trattenersi. Scoppiò in una risata calda e priva di qualsiasi sfumatura di scherno; persino Vilkas rilassò il viso.
“Oh, cosa serve fare, mi chiedi? Amarvi, Alina. Basta questo”.
Niente titoli, niente appellativi, niente responsabilità. La vicinanza di Maramal sembrò sollevare un velo di tensione dal mondo e Alina sospirò.
Avrebbe funzionato. Mara non era altro che un nome in una lista di divinità, ma Alina si trovò a pensare che chi sceglie di servire la dea della compassione non può essere poi una cattiva persona… e Maramal ne era la prova.
“Venite, fratelli”, disse indicando una porta laterale. “Beviamo qualcosa e discutiamo i dettagli”.
All’uscita, con il sapore del vino speziato ancora in bocca e una lunga serie di preparativi di cui –per fortuna- si era fatto carico Vilkas, Alina respirò una boccata d’aria fredda e umida, piacevole dopo il profumo dell’incenso.
“Non so tu”, disse Vilkas, “ma l’idea di rimettermi in sella e ripartire subito non mi entusiasma. Te la senti di passare la notte qui?”
C’era una sorta di quieto splendore in tutti i suoi gesti da quando erano entrati nel tempio. Alina sorrise.
“Fermiamoci in taverna; ho affrontato ben di peggio dell’umidità dei canali e dei brutti ricordi. E poi ho te”.
L’idea di bacio che le aveva fatto tendere il collo e sollevare il viso si bloccò al suono di insulti e grida; Alina e Vilkas si voltarono assieme verso la piazza del mercato; qualcosa di piccolo e lesto sfrecciò tra le bancarelle, seguito da una figura più alta. In un istante entrambi sparirono oltre il parapetto, lasciandosi dietro un ringhio indecifrabile, un colpo e lo sciacquio del canale. Per un momento ci fu silenzio, poi un suono acuto e penetrante riempì l’aria.
Non si sarebbe mossa se non fosse stato per quello strillo. Anzi, per quella specie di squittio, subito soffocato da un nuovo tonfo. Un meccanismo arrugginito scattò da qualche parte nella sua testa, e nel giro di un istante Alina si trovò a correre attraverso la piazza del mercato. Saltò con una lunga falcata il mendicante accasciato tra le bancarelle e, con la coda dell’occhio, registrò il vago profilo di uno sportello aperto sotto una di esse. I tacchi degli stivali rimbombavano a ritmo con il cuore mentre percorreva il ponticello che conduceva alle scale. L’acqua ribolliva qualche metro più in basso.
Un balzo, gli ultimi quattro scalini che sparivano sotto di lei nell’ombra, le assi del pontile che scricchiolavano. Lontani, in un altro mondo, i richiami di Vilkas, i suoi passi.
Non si era accorta di aver estratto la spada.
I capelli dell’uomo accucciato sul pontile erano unti sotto le sue dita, la cute calda nell’aria invernale. Alina tirò indietro il braccio e lo sconosciuto –pelle grigia, volto affilato, occhi sgranati dal terrore- ricadde all’indietro, la gola esposta.
“C-c-chi…”
Uno strattone e il dunmer strillò, sollevando le braccia fradicie fino ai gomiti per proteggersi. Alina ringhiò e appoggiò la lama alla pelle scura; quel rombo, quel pulsare nero e rosso dietro gli occhi… bestia, anche se la maledizione era svanita.
Vilkas si fermò a qualche passo dalla scena, salvo poi annaspare un’esclamazione e avventarsi verso il canale che ancora gorgogliava. Ne estrasse una piccola sagoma scura che atterrò sulle assi con uno splat e un gran sciabordio d’acqua.
“Alina…”
Il dunmer sbiancò e divenne di un pallido grigio cenere, le mani ancora sollevate, gli occhi sgranati.
Lo sapeva. Da qualche parte, dietro anni di vita e sentimenti e mura costruite con la forza, c’era ancora una bambina. Una bambina che riconosceva la miseria.
Il fagotto zuppo eruppe in un accesso di tosse intervallata da conati. Con la coda dell’occhio, Alina vide Vilkas sollevare il piccolo corpo e tenerlo contro di sé.
La marea di sangue e odio refluì abbastanza da farle rilassare il viso e ritrovare la parola.
“Allora?” sibilò al prigioniero senza spostare la lama. Mezza Riften si era assiepata contro il parapetto della piazza e guardava giù.
“L-Ladro…”
Alina rafforzò la presa sui capelli e se li torse nel pugno. Alle sue spalle, sopra ai mormorii e alle voci delle guardie che intimavano di lasciar loro spazio, la voce di Vilkas era sommessa. E il bambino che aveva tirato fuori dall’acqua piangeva.
“Scusa?”
“L’ho beccato con le mani nel sacco, va bene? E volevo dargli una lezione!” gridò il dunmer. “Lasciami andare!”
“Stavi annegando un ragazzino per… per questo?”
“Non l’avrei ammazzato! Lo giuro! Volevo solo fargli paura!”
L’incredulità si affacciò nella furia ma non abbastanza da placarla. Alina lasciò cadere la spada e afferrò il dunmer per il bavero della veste. Sembrava non pesare nulla tra le sue mani, mentre lo spingeva indietro e lo mandava a sbattere contro al muro.
“Tu stavi-“ era senza fiato, soffocata dalla rabbia e dalla memoria. “Tu-tu stavi affogando un ragazzino perché ha provato a rubare alla tua bancarella? Dimmi che sei pazzo, ti prego, e non costringermi a…”
“Alina”, la voce di Vilkas era soffocata, piena di grugniti. “Stanno arrivando le guardie”.
Il dunmer boccheggiò qualcosa che, a giudicare dal labiale, suonava come “dovahkiin”, ma Alina non vi badò. Torse la stoffa dell’elegante tunica nel pugno e trascinò l’elfo verso l’acqua.
“Fai schifo”, sibilò prima di lasciarlo cadere nel canale gelido. Al brusio della folla e alle lamentele sempre più vicine delle guardie si aggiunse lo sputacchiare dell’elfo, ma Alina quasi non lo sentì. Era un altro il suono che le raggiunse l’anima e fece evaporare ogni residuo di furore animalesco. Si voltò di scatto verso Vilkas e lo vide lottare con quello che sembrava un fagotto fradicio arrotolato nel suo mantello.
“Fermo, ragazzino, fermo!” sibilava nel vano tentativo di trattenere quella figurina sgusciante senza farle male.
Alina lo raggiunse in pochi passi affrettati. La breve distanza cancellò ogni istinto omicida, ogni desiderio di violenza; era solo preoccupazione a occuparle la testa e il cuore.
Quando si inginocchiò di fianco a Vilkas l’involto sputacchiante che teneva tra le mani smise per un attimo di agitarsi. Alina scostò un lembo di stoffa e pelliccia.
I capelli zuppi avevano lo stesso colore del pelo di volpe che li ricopriva, ma il visetto che faceva capolino tra le braccia di Vilkas era esangue. Il bambino sgranò due occhi tondi e immensi nel volto smunto e lurido; doveva essersi morso il labbro durante la colluttazione con il mercante, perché una sottile striscia di sangue gli colava lungo il mento.
“Ragazzino, stai bene?” chiese Alina stringendogli quelle che a occhio e croce dovevano essere le spalle. Com’erano ossute!
Non ottenne nessuna risposta; il labbro inferiore del bambino iniziò a tremare più del resto del corpo. Vilkas sciolse lento la presa attorno al piccolo prigioniero e si sedette sui talloni.
“Come ti chiami?” riprovò con il tono più incoraggiante che le riuscì di produrre. Dentro di sé spero tanto che le vecchie cicatrici e la cresta di capelli neri non lo spaventassero troppo. “Io sono Alina, e lui è Vilkas. Non anneghi, stai tranquillo”.
“G-G-G…”
Il bambino si strozzò con un singhiozzo senza lacrime. Alla fine riuscì a esalare un “Gael” appena udibile. Su, in piazza, i vari “permesso, lasciateci passare, non c’è niente da vedere” delle guardie si stavano facendo più vicini.
Alina gli prese il viso tra le mani. Sembrava non esserci carne sotto quella pelle diafana, solo paura, freddo e fame.
In un lampo che le fece trattenere il fiato il viso del bambino si fece più rotondo, i capelli neri, il naso a patata… all’ombra di una figura grassa. Alina dovette chiudere gli occhi e scrollare la testa per allontanare l’immagine del Mercante.
No, non è altro che un piccolo mendicante, il Mercante è morto. Non ha vissuto quello che hai passato tu.
Ma crederlo non era facile.
“Allora, basta! Via dalle scale, fateci passare!”
Gael prese a respirare in fretta. Alina riaprì le palpebre e lo vide ansimare, le piccole spalle sollevate e contratte.
“Va tutto bene, Gael. Sono le guardie, non ti succederà niente di male”, provò a dire con un sorriso. Ma Gael stava ricominciando ad agitarsi sotto l’enorme mantello di Vilkas.
“No… no…”
E come lo conosceva bene, Alina, quel cieco terrore, quel sentirsi in trappola e voler solo fuggire. Fu un desiderio che non aveva mai provato prima a farle sollevare la mano per sfiorargli la guancia; Vilkas, lì dietro, fu più deciso e prese il bambino per un braccio. Il dunmer sguazzava furibondo poco distante.
“Sta’ calmo, ragazzo”, disse rude. “Non c’è niente che-ahi!”
Con un guizzo da serpe Gael si voltò e gli morse la mano. Vilkas si ritrasse quel tanto che bastava per lasciare uno spiraglio tra le braccia, e il bambino scalciò via il mantello. In un istante era corso via, scalzo e gocciolante, verso una delle grate che si aprivano vicino ai pontili.
Alina fece un mezzo movimento per fermarlo, ma quella grata le era familiare; il labirinto di cunicoli, cisterne e passaggi segreti cui conduceva era un mistero per tutti. A parte per i ladri che vi abitavano.
“Andiamo a prenderlo”, disse Vilkas deciso, nonostante il chiaro segno dei denti che gli incideva il dorso della mano.
Si scambiarono una rapida occhiata. Alle loro spalle le guardie stavano scendendo le scale.
“Sì, andiamo”.
Il Ratway li accolse con le sue tenebre e i suoi segreti.
Alina si lasciò abbracciare del buio.
 
 
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A volte ritornano. Alina e Vilkas, certo, ma anche i ricordi. Morti mai dimenticati, città con cui non si riesce a far pace, brutti ricordi.
Alina non riesce a cambiare troppo, testa calda era e testa calda rimane, nonostante congiure, maledizioni e draghi. Potrebbe volerci proprio un bambino coi capelli rossi per metterla il riga!
Grazie a tutti voi che siete passati e avete dato un’occhiata al capitolo: è il mio primo tentativo di sequel e sono un po’ in ansia.
Ma io sono in ansia anche quando oblitero il biglietto del treno, quindi forse non conta!
A presto!

Val
 







 
   
 
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