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Autore: Piebavarde    05/08/2014    1 recensioni
Francesca Molinari è una ragazza con la testa sulle spalle, una dose incredibile d'orgoglio e iattanza e la nomina di rappresentante di classe della IV C. Snob, selettiva, nevrastenica e acida come un limone, Francesca ha sempre mostrato alla gente una maschera di superbia e indifferenza.
La sua saccenteria verrà però contrastata dal nuovo professore di letteratura italiana: Marco Fanti.
Marco è quel che il mondo definisce lo "scapolo d'oro": amato dalle sue alunne e invidiato dai suo colleghi, il professore sembra esser la saggezza fatta uomo. La mente tra i libri e le riviste d'auto sportive, e le parti bassi sempre tra le gambe di qualche donna; questo è il tipo d'uomo rappresentato dal professore tanto ambito tra le lenzuola, che tenterà di frenare la spocchia della sua alunna sognatrice.
Se i principi della fisica iniziassero ad intervenire sulla vita di questi due individui?
Se Newton avesse avuto ragione?
Cosa accadrebbe se una forza F agisse inconsapevolmente su una massa M, provocando un'accelerazione A?
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo IV
Azioni e reazioni
“No, la zazzera no”
 
 

 
 
 

 Quando l’individuo canterino abbassò il finestrino scuro dell’auto, Francesca desiderò con tutto il cuore d’essere in un altro posto, anche a bordo di una Ferrari guidata da Andrea Bocelli.
 
In autostrada.
 
A 350 km/h.
 
Ma non lì.
 
Non sicuramente lì.
 
La ragazza intravide prima dei ciuffi biondicci, che la luce del lampione schiariva lievemente.
 
Ed esitò.
 
Infatti portò il piede destro indietro, come presagendo.
 
Quando poi, avendo abbassato completamente il finestrino, l’individuo si voltò verso di lei, notò quegli occhi arcigni di un verde folgorante e non ebbe dubbi.
 
Le sopracciglia arcuate dell’uomo erano notevolmente espressive.
 
Annunciavano un gigantesco e spocchiosissimo “Ma che minchia vuoi?”, che l’uomo in questione avrebbe pronunciato, se solo non si fosse ritrovato davanti la sua alunna spreferita: Francesca Molinari.
 
Il professor Fanti la guardava curioso, sorpreso e scazzato al contempo. Sorreggeva sulle gambe un esemplare femmina di “poco di buono” dai capelli ramati e un carico ombretto azzurrognolo sulle palpebre; la tizia in questione non si era ancora accorta di nulla, poiché aveva gli occhi chiusi, e continuava pertanto indisturbata il suo lavoro, lasciando dei baci poco casti sul collo dell’uomo.
 
La sua alunna, invece, abbagliata dal lampione che aveva innanzi, contemplava inebetita gli occhi chiari dell’insegnante.
 
In quel momento ebbe un pensiero poco consono.
 
Un pensiero che, in realtà, non si sarebbe mai sognata di avere.
 
Pensò, infatti, che Marco Fanti fosse l’uomo più bello che lei avesse mai visto.
 
Perlomeno in quel momento.
 
Gli occhi verdi erano lucidi, acquosi e pregni di alcune sfumature rossastre. A renderli ancora più belli erano le folte e brune sopracciglia che, con quello sguardo così chiaro, creavano un delizioso contrasto da mozzare il fiato, anche a chi di fiato non ne aveva già di suo.
 
Tipo ad un tizio con l’asma, ecco.
 
La barba gli fasciava dolcemente le gote scavate, in quel momento immortalate in una posizione ferrea e scultorea; a dir poco perfetta.
 
Le sue labbra erano rossastre, lucide e gonfie,  evidentemente morsicchiate. Ed erano dolorosamente invitanti.
 
Il naso, ch'ella riscoprì essere leggermente alla francese, ovvero un tantino all'insù e finemente scolpito quando lo si osservava frontalmente, sembrava fissarla con alterigia. Sì, proprio quel naso conferiva un'espressione infastidita e accigliata a quell'uomo così tanto bello che in quel momento le parve un dio greco.
 
Lo fissò stupita di quella bellezza che scoprì appieno soltanto in quel frangente di tempo.
 
A stonare, ad imbruttire cioè quell’aitante adone, erano i capelli.
 
Cioè Marco Fanti non aveva i capelli.
 
Aveva una zazzera.
 
Un inguardabile cespuglio di capelli tendenti al biondo.
 
Un nido per allodole.
 
Una spugna per scrostare il grasso dai tegami.
 
Una matassa.
 
Una balla di fieno.
 
La ragazza osservò quel particolare con una smorfia delusa.
 
Improvvisamente la poco di buono, che se ne stava arpionata al professore come un koala al bambù, si accorse della rigidità dell’uomo e alzò gli occhi incuriosita.
 
Fu così che la tizia notò Francesca.
 
E fu finalmente così che Francesca si riprese dalla sua contemplazione e realizzò il tutto.
 
Lei stava fissando il suo professore.
 
Il suo professore che se la faceva con una tizia.
 
Il professore che aveva i capelli scompigliati.
 
Che aveva uno sguardo omicida.
 
Che aveva del rossetto sul collo.
 
Che aveva una donna sulle gambe con la camicetta aperta.
 
E…
 
Francesca strabuzzò gli occhi.
 
Aguzzò la vista e osservò un particolare, contro il proprio volere.
 
Non poteva essere.
 
Ricadde nell’esame attento dell’uomo e mise in standby il cervello per una seconda volta.
 
-Ma che cazzo vuole questa?-, gracchiò la poco di buono.
 
Francesca non riusciva a dir nulla, concentrata ancora su quel particolare.
 
Il professore aveva la patta aperta.
 
La patta aperta.
 
Cioè.
 
Insomma.
 
La patta.
 
Aperta.
 
Il professore.
 
-Ti piace quel che vedi? Be’, questa sera è mio. Quindi smamma!
 
Quando quella specie di Moira Orfei parlò ancora, Francesca si riprese completamente dal proprio stato di incredulità e riuscì a rimettere a lavoro i propri neuroni.
 
Alleluia, era ancora un essere intelligente!
La Molinari non si era ancora trasformata in un macaco!
Deo gratias!
 
Dunque la ragazza elaborò e si guardò bene dal gettare un urlo acuto in stile Wanna Marchi e ignorò persino l’insinuazione della battona arcigna.
 
Doveva essere parecchio scossa per non riuscire a costruire neanche una frase di senso compiuto, pregna di sarcasmo e toni acidi per quella Moira fastidiosa e civettuola.
 
-Mi scusi. Non sapevo fosse lei-, Francesca parlò balbettando al volto quasi assente del professore che la osservava ancora accigliato. –Vado via subito-, specificò infine la ragazza e si voltò per fuggire via.
 
O Dio.
 
Cosa diavolo aveva appena visto?
 
Gettò la birra che aveva tra le mani in un cassonetto e si diresse lentamente, a causa dei tacchi, verso il locale con un’espressione da Picasso mormorando senza fine tanti –Gesù, Gesù, Gesù-, ancora incredula.
 
E mentre lei si allontanava dall’auto, finalmente anche qualcun altro elaborò il tutto e assunse una faccia stile “Urlo” di Munch, portandosi le mani in viso e spalancando la bocca, incredulo.
 
-Marco, chi cazzo era quella? La conosci? E perché ti dava del lei?
 
Marco ignorò le domande di quella donna e le ordinò di sedersi sul sedile passeggero, perché lui doveva scendere: aveva da fare.
 
-Non andrai mica da quella lì!-, esclamò accigliata la pseudo Moira Orfei, quando l’uomo era già sceso dal mezzo con l’intenzione di seguire la Molinari.
 
-Mara, è una cazzo di mia alunna, porca puttana!-, il professore imprecò e chiuse la portiera, di fretta.
 
Moira, che in realtà si chiamava Mara, scese anch’ella e tentò di seguire i passi di Marco. Ma lui si voltò di scatto e la osservò infuriato.
 
Sicuramente comprese soltanto in quel momento quel che era successo: la sua integrità professionale e morale era andata a farsi benedire e canonizzare.
 
-Cosa vuoi?- sbottò lui.
 
-Non se ne fa niente?-, domandò Mara oltraggiata.
 
-Vai a farti fottere, Mara! Ti rendi conto di quel che è successo? E tu mi chiedi se non se ne fa niente!
 
-Ma che stronza…-, sibilò infine l’uomo a denti stretti, dandole le spalle.
 
Dopo una manciata di falcate raggiunse la schiena della Molinari, ignorando gli striduli acuti di protesta di Mara, immobile e umiliata alle sue spalle.
 
Francesca si muoveva con piccoli passettini, rallentata da un dolore allucinante ai piedi e da uno sbigottimento che ancora non la lasciava.
 
Per Marco fu facile raggiungerla in pochi attimi; le afferrò il braccio e la costrinse a voltarsi verso di lui.
 
Lei lo osservò impaurita.
 
L’epiteto “maniaco sessuale” risplendeva come un’insegna dalle luci al neon nella sua testa.
 
Nello stato in cui si trovava, ovvero quasi ubriaca e completamente stordita, Francesca si sentiva terrorizzata da quell’uomo e quando lui le sfiorò la pelle con una presa ben salda, per poco non gli ficcò un tacco dodici negli stinchi.
 
Lui la sentì tremare sotto le sue mani e per un po’ la fissò in quegli occhi scuri, quasi neri nella notte, che si facevano pian piano sempre più tondi e allarmati.
 
-Molinari, sta’ calma-, le sussurrò, accarezzandole dolcemente le braccia, per rassicurarla.
 
Ma calma un ciufolo!
 
Come poteva lei, Francesca Molinari, scontrosa e diffidente per natura, potersi calmare quando aveva appena visto quel che aveva visto.
 
Cioè quello che non le era dato vedere.
 
E poi perché lui l’aveva inseguita?
 
 
Fremette e l’aria gelida di gennaio di certo non l’aiutava; soltanto allora si rese conto di essere senza una giacca, con un vestito poco coprente, in un parcheggio deserto in una gelida notte di inverno.
 
-Ho freddo-, constatò come parlando a se stessa in un flebile sussurro.
 
Il professore si tolse la giacca e gliela adagiò sulle spalle. Lei sentì il giubbotto di pelle accarezzarle il corpo e si strinse nello stesso per cercare un calore che non riusciva in realtà a percepire; subito l’investì l’odore buono dell’insegnante.  
 
-Incosciente di una Molinari, vieni con me-, le prese il polso e tentò di trascinarla con sé, ma Francesca si oppose.
 
-Non ci vengo con lei.
 
Marco suppose che la sua alunna non si fidasse di lui, non dopo quel che aveva visto in macchina.
 
Lei avrebbe potuto interpretare erroneamente i suoi gesti e sospettare quel che in realtà era lontanamente anche solo immaginabile.
 
-Francesca-, il professore la chiamò per nome per quella che le parve la prima volta, ma che in realtà era la seconda; lui tentava così di tranquillizzarla e, deciso nel farlo, adoperò un tono caldo e affabile, -non ho intenzione di farti nulla di male. Devi fidarti di me.
 
Gli occhi verdi dell’insegnante la osservavano carezzandole il volto e, persuasa, lo seguì.
 
Ad una condizione.
 
-Quella Moira Orfei, però, non ce la voglio.
 
Sentì il professore sghignazzare, finalmente sollevato.
 
 
 
 
 
 


Erano in auto.
 
Il professore guidava con lentezza e prudenza, poiché anch’egli aveva ingerito una certa dose di alcol, osservando l’asfalto con sguardo attento.
 
Francesca gli diede le indicazioni per arrivare a casa sua, senza ormai più temere che il suo insegnante le avrebbe un giorno fatto visita in veste di maniaco sessuale o di stalker.
 
La ragazza si era in parte calmata.
 
Non era di certo in macchina con un maniaco.
 
Tuttavia un’altra preoccupazione l’aveva assalita.
 
Lei era però in macchina con un suo insegnante.
 
Cioè, non si fa.
 
È illecito.
 
Immorale.
 
Si voltò verso il professore e si perse per qualche attimo ad osservare il suo profilo. Si domandò cosa ne avrebbe pensato se lo avesse incontrato in qualche altro contesto. Se, per qualche strana ragione e in un altro cosmo, si fosse ritrovata in macchina con quell’uomo.
 
In un altro contesto, si disse con una sorprendente sincerità, gli sarebbe saltata addosso senza pensarci due volte.
 
Ma in un altro contesto lei era solo una ragazza e lui un uomo un po’ più grande di lei. 
 
In quel loro contesto erano, invece, un’alunna e un insegnante. E quelli dovevano essere i loro ruoli, fino alla fine dello spettacolo.
 
Con un sipario ancora non calato, la realtà era quella.
 
-Perché mi stai fissando, Molinari?-, domandò lui d’un tratto, tra l’incuriosito e il divertito.
 
Francesca, colta in flagrante, si morse la lingua per non imprecare.
 
Decise per una bugia, come sempre.
 
-Mi chiedevo perché mi stia accompagnando a casa.
 
Il professore si voltò un attimo a fissarla, con sguardo serio, poi riportò i suoi letali occhi verdi sulla strada:-Volevo fare due chiacchiere con te.
 
Francesca sentì un tonfo al cuore.
Non capì se era paura o altro.
 
-Come dice?-, bofonchiò con gli occhi sgranati, -Di cosa dovremmo mai parlare?
 
-Di te, Molinari-, iniziò l’insegnante con fare perentorio,-che a diciassette anni bevi alcol e te ne stai con questi vestitini striminziti tutta sola in un parcheggio!
 
Francesca lo osservò accigliata.
 
Ma insomma, come si permetteva di farle la paternale?
 
-Punto primo-, replicò stizzita incrociando le braccia,-sono maggiorenne. Ho compiuto gli anni nella prima settimana di gennaio; e no, se lo sta pensando: non sono stata bocciata. Mamma ha semplicemente deciso di non farmi fare la primina. E non ho bevuto alcol. Quella birra l’ho rubata ad un tizio senza neanche accorgermene, fuggendo via dal locale.
 
-Bene!-, esclamò il professore, riportando gli occhi su di lei, interrompendola-La prima questione è stata risolta. Ma mi pare di vedere che indossi ancora un vestito fin troppo corto.
 
-Punto secondo: cosa le interessa? Indosso quel che mi pare.
 
-Molinari, rischi guai conciata così-, l’ammonì cercando di non osservarle la pronunciata scollatura.
 
-Conciata così come, mi scusi? È un normale vestito che arriva al ginocchio. Ho le calze nere invernali anti stupro e un cervello funzionante degno di nota che è in grado di farmi comprendere quando la situazione sta prendendo una piega sbagliata.
 
La Molinari parlava a raffica, senza concedersi un minuto di pausa e il professore intuì.
 
-Molinari, sei una bugiarda.
 
-Come scusi?
 
L’uomo sterzò improvvisamente e con foga e parcheggiò in una piazzola.
 
Francesca sentì un secondo tonfo al cuore.
Neanche questa volta riuscì a comprendere se fosse paura o altro.
 
Marco, spento il motore dell’auto, si voltò verso di lei con calma.
 
Gli occhi verdi sembravano spogliarla persino della pelle, per farsi strada nei meandri della sua mente.
 
Doveva capire.
 
Il professor Fanti le si fece sempre più vicino e Francesca sentiva batterle il cuore all’impazzata. Non riusciva a ritrarsi, a colpirlo, a ficcargli il dito in un occhio per evitare che si avvicinasse ancora.
 
Se ne stava lì, imbambolata, captando un fresco odore forse di menta che proveniva da quel corpo perfetto che le sfiorava oramai la pelle.
 
Lui piegò il capo di lato e sembrò puntare verso le labbra della sua alunna.
 
È immaginabile quel che Francesca stesse pensando in quel momento.
 
Ormai non esisteva più il legale, il lecito, il consono, l’etico, il morale.
 
Non c’erano più le parti da rispettare e l’attesa della fine dello spettacolo era stata mandata a quel paese da un bel pezzo.
 
Desiderava, lei, soltanto afferrargli il volto, far scorrere le dita sulla barba pungente dell’uomo, farselo più vicino e lambire quelle labbra carnose così ben delineate che parevano, al sol fissarle, una delizia per i sensi.
 
Lei sentiva il fiato caldo dell’uomo scorrere sulla sua pelle.
 
Broccolo, broccolo indicibile.
 
Cosa stava facendo?
 
Ma lui cambiò d’un tratto rotta e adagiò il naso sulle labbra ormai schiuse della ragazza inspirando a fondo. Lei divenne rossa in volto e l’unica cosa che riuscì ad elaborare fu un piano malefico per rinchiudere quell’uomo in macchina con l’intenzione di fare cose zozze.
 
Si vergognò di se stessa.
 
Completamente.
 
Un briciolo, un mollichina, ecco, di buon senso, le condusse le mani sul petto di lui, per allontanarlo con fretta e anche un po’ controvoglia.  
 
-Cosa sta facendo?-, squittì accigliata con voce nervosa e accaldata.
 
-Sei ubriaca, Molinari.
 
Gli occhi dell’uomo erano freddi e così i suoi toni.
 
Le sue parole erano una sentenza che non ammetteva repliche.
 
Lei era oramai andata all’altro mondo per quel che era appena successo e di repliche non ne avrebbe neanche sapute elaborare.
 
Il fatto, inoltre, che quel che era successo fosse successo, il fatto ovvero che avesse permesso a quell’uomo che tanto odiava di farsi così vicino e di sfiorarle le labbra con quel tocco così intimo, non poteva che essere la degna e lampante prova della sua colpevolezza.
 
La Molinari era ovviamente ubriaca.
 
O non avrebbe mai permesso ad un individuo come Marco Fanti di fare quel che aveva fatto.
 
Ma neanche un individuo come Marco Fanti si sarebbe permesso di fare quel che aveva fatto, se anch’egli non avesse peccato dello stesso crimine cui accusava la sua alunna.
 
Era evidentemente ubriaco anch’egli, o non si sarebbe mai neanche lontanamente immaginato di fare quel che aveva invece appena fatto.
 
-E con ciò?- riuscì a domandare Francesca con un filo di voce.
 
-Potrebbero approfittarsi di te.
 
La fissava con le sopracciglia corrugate, che s’adagiavano pertanto su quegli occhi verdi così intesi e ancor più stranamente belli quando colmi di disappunto. Le labbra schiuse, contratte, invitanti come non erano mai state. Il petto gli si gonfiava ripetutamente per il freddo e la stretta maglia nera a mani corte lasciava intravedere le braccia atletiche e le vene dei muscoli in tensione.
 
Il corpo erculeo dell’uomo invitava la Molinari a peccare di lussuria, e le parole che l’insegnante pronunciò di certo non aiutavano a restare pii e lontani da ogni trasgressione.
 
Vi fu dunque un terzo tonfo al cuore grazie al quale la ragazza comprese che quella non era paura, era altro.
 
Lo fissava inebetita.
 
Perché lui era uno gnoccone, porca merda.
 
E gli ormoni li aveva anche lei, Francesca Molinari, seppur sepolti sotto strati e valanghe di cinismo e indifferenza.
 
E poteva mai resistere a quegli occhi chiari?
 
-Da chi stavi fuggendo?-, domandò lui arcuando ancor di più le sopracciglia e osservandola con una disarmante intensità.
 
-Un tipo…-, rispose vaga la Molinari.
 
-Ti dava fastidio?
 
-Mi era antipatico.
 
Il professore sbuffò, divertito.
 
Poi si voltò e riaccese il motore; tutto finì così in un breve istante.
 
Riprese a guidare in silenzio picchiettando ad ogni semaforo sul volante, finché non arrivarono a casa di Francesca.
 
Si salutarono formalmente, come un professore e un’alunna, con un consueto “Buonanotte”.
 
Quando però Francesca stava per scendere dal mezzo, il professore la bloccò posandole una mano sul braccio.
 
Lei si sentì scottata e voltò il capo con sorpresa, mista ad una strana e inadeguata aspettativa.
 
Doveva smetterla.
 
Dovevano smetterla entrambi.
 
Lui, soprattutto, doveva smetterla di essere così gnocco, e che diamine!
 
Francesca rimpianse le renne psichedeliche quando gli occhi dell’insegnante si posarono sui suoi.
 
-Tutto questo non è mai successo. Non hai mai visto quel che hai visto e non sei mai salita sulla mia auto, intesi? Conto su di te, Molinari: devi custodire questo nostro segreto.
 
 
 
 
 



Come poteva Francesca Molinari custodire un segreto?
 
Come poteva farlo, se il mondo collaborava contro di lei?
 
Quella domenica mattina, Matilde aveva bussato alla sua porta. Le aveva chiesto se fosse disposta ad accompagnarla dalla parrucchiera, perché aveva deciso di spuntare le sue doppie punte.
 
Francesca, che aveva aperto la porta con una faccia da mummia, accettò di buon grado, con l’intento di svagare. Con l’intento ovvero di pensare a tutto ciò che non fosse Marco Fanti.
 
Perché, finché fosse stata sola, non avrebbe pensato ad altro.
 
Si era alzata con le parole del professore che le vorticavano nel cervello; il fatto, poi, che un nostro le vorticasse attorno da un bel pezzo, in grassetto e a caratteri cubitali, non era di certo un buon segno.
 
Insomma, lei aveva qualcosa di suo con il professor Fanti.
 
Era lecito?
 
Ormai la vecchia Francesca era tornata alla ribalta, aveva gettato in un cestino della spazzatura quella vecchia e ubriaca che era salita nell’auto di un insegnante, ed aveva iniziato ad analizzare ogni particolare della precedente serata.
 
Aveva passato la prima parte della mattinata domandandosi se fosse stata lecita e accettabile questa o quell’altra cosa che aveva compiuto, rispondendo ai suoi quesiti sempre con la stessa e unica sentenza.
 
No.
 
No.
 
E ancora no.
 
Non c’era niente di giusto in quel che aveva fatto quel sabato sera, se non sgattaiolare via da Cristiano Mori.
 
Ma qualcosa l’aveva portata a seguire il prof Fanti.
 
Cos’era? Celato interesse?
 
Robe del tipo “chi disprezza compra”?
 
Gli ormoni che davano un happy hour nel suo corpo?
 
Se quest’ultima fosse stata la vera ragione, lei doveva assolutamente proibire ogni “ormoni pride” e ibernare ogni singolo centimetro di pelle in presenza del professore.
 
Il suo cervello funzionava ancora, bisognava soltanto rimetterlo in movimento e riprendere l’attività sospesa per una sera del footing quotidiano dei neuroni.
 
Ma in quel momento si trovava dalla parrucchiera.
 
E la parola parrucchiera, nella mente della Molinari, corrispondeva o, se non altro, veniva il più delle volte collegata alla parola gossip.
 
E, se venissero addizionate la parola parrucchiera e la parola gossip, il risultato sarebbe uno soltanto: spifferare i segreti.
 
Ora, lei aveva un segreto.
 
Un segreto con il professor Fanti.
 
Alla sua destra sostava la sua migliore amica, Matilde, che finché si fosse limitata a sfogliare riviste di moda, come stava facendo in quel momento, sarebbe risultata innocua.
 
Francesca si sfregò le mani, sempre più nervosa.
 
Sentiva gocce di sudore freddo percorrerle la fronte.
 
Scrutò con la coda dell’occhio Matilde.
 
La sua migliore amica avrebbe potuto mantenere il segreto?
 
Magari avrebbe insistito per dirlo anche a Gaetano.
 
Gaetano forse se lo sarebbe fatto scappare con la sua fidanzata.
 
Poi la fidanzata di Gaetano l’avrebbe spifferato senza preoccupazioni a qualcun altro, magari a qualche sua amica.
 
E di conseguenza un’interminabile catena di Sant’Antonio sarebbe nata.
 
Avrebbe corso il rischio?
 
Si morse le labbra.
 
Lei moriva dalla voglia di dirlo. 
 
Perché se quel che era accaduto con il professore la sera precedente fosse rimasto soltanto loro, Francesca non avrebbe avuto nessuno cui parlarne.
 
Nessuno cui chiedere delucidazioni.
 
Spiegazioni.
 
Nessuno con cui avrebbe potuto condividere apertamente le sue emozioni.
 
Perché lei voleva chiarezza.
 
Era ovvio che a lei quell’uomo non interessasse: era conscia dei rischi e pericoli che sarebbero sopraggiunti se solo avesse pensato a lui come ad un uomo avvicinabile, accalappiabile e scopabile, ecco.
 
Ed era dunque preoccupata per i pensieri poco casti che aveva fatto su di lui quand’era ubriaca.
 
Francesca aveva sempre creduto al vino veritas.
 
Il suo caso era l’eccezione che confermava la regola?
 
Si disse che sì, lo era.
 
Perché lei, fondamentalmente, quell’uomo l’odiava, davvero.
 
Lui tentava di metterle sempre i piedi in testa e screditarla; lavorava elaborando piani malefici affinché lei facesse la figura dell’imbecille davanti a tutti. La riprendeva continuamente, la richiamava all’attenzione, anche se era innocente, e le affidava infine stupide commissioni come se cercasse sempre una scusa per mandarla via dalla classe.
 
Non poteva fare pensieri di quel tipo su un uomo del genere.
 
Lei voleva soltanto che lui fosse la sua prima e ultima vittima.
 
Voleva strappargli le budella e usarle come addobbo natalizio.
 
-Cosa hai fatto ieri sera? Sembri stanca…
 
Francesca quasi saltò sulla sedia quando sentì d’improvviso la voce di Matilde e, soprattutto, la sua domanda.
 
Maledisse le sue occhiaie da panda che non erano andate via nonostante i chili di fondotinta che vi aveva applicato e che potevano ben rappresentare, pertanto, la sua serata in discoteca.
 
Cosa le avrebbe detto?
 
Poteva optare per la mezza verità.
 
Poteva dirle che aveva guardato un film con Luigi Tenco.
 
Il che era vero. Relativamente.
 
La questione si sarebbe comunque risolta in pochi attimi.
 
Matilde e Caterina non si conoscevano, se non di vista; le possibilità che avrebbero parlato e confrontato le loro versioni sulla serata erano poche come i centimetri di collo visibili di Maurizio Costanzo.
 
Tuttavia Francesca non riusciva a mentire a quegli occhi azzurri così buoni e comprensivi.
 
-Sono stata in un locale con Caterina-, rispose vaga alzando le spalle e afferrando anch’ella una rivista di moda.
 
Matilde fece un verso d’approvazione, poi chiese: -Qualche conquista? Le tue occhiaie mi dicono che hai avuto una serata lunga e abbastanza movimentata.
 
Francesca rispose con un risolino di scherno e un –No, ma ti pare-, che pronunciò con ovvietà.
 
-Caterina ha caricato delle foto su Facebook. Non le hai viste?
 
-Mati, questa mattina mi son svegliata per disperazione. Il letto mi sembrava un rovo di spine e in testa avevo una specie di martello pneumatico. Con tutto il nervosismo che mi ha accompagnata durante la colazione, secondo te possedevo la forza sufficiente per accedere a Facebook? Con il rischio che qualcuno rompesse le scatole di prima mattina in chat o inviandomi richieste su Candy Crush Saga?
 
Matilde alzò le mani in segno di resa ridacchiando:-Ha immortalato te e Cristiano Mori in una posa abbastanza, come dire?...ehm, intima, direi.
 
Francesca osservò la biondina con gli occhi sgranati e un’espressione ebete.
 
Appena avrebbe acciuffato quella Lady Oscar, le avrebbe tirato via a morsi la criniera!
 
-Perché non mi dici nulla? Perché non hai confessato? Parla! Perché hai segreti con me? Non devi avere segreti con me!
 
-Segreti?-, domandò nervosa la Molinari, che appena udì la parola“segreti” subito pensò al prof Fanti e al loro, di segreto;-Non si tratta di un segreto: non è successo nulla.
 
-Sì, sì, bugiarda. Dai, voglio i dettagli!
 
Francesca si alzò alla svelta per disperazione, marciando verso la parrucchiera per evitare di affrontare quel discorso con Matilde.
 
Poiché lo sapeva: se avessero continuato a parlare della sera precedente, lei avrebbe certamente svelato a Matilde quel loro segreto.
 
E non poteva.
 
Lei aveva promesso.
 
Aveva bisogno di un taglio netto ai pensieri che le vorticavano in testa.
 
E perché non iniziare dai capelli?
 
 
 
 
 
 
 
 

Francesca Molinari adorava il suo nuovo taglio di capelli.
 
Le arrivavano appena sotto le spalle ed erano più mossi e voluminosi che mai.
 
Perfetti.
 
Da quando si era svegliata non aveva fatto altro che specchiarsi e rispecchiarsi in specchi e vetrine ripetendo al suo riflesso, alle volte in mente, altre a bassa voce, “sei una gnocca, sei una grandissima gnocca”.
 
Arrivò a scuola puntuale come un orologio svizzero e, giunta in classe, marciò verso l’unico individuo presente già a quell’ora in aula: Gaetano Borbone.
 
-Tano, guarda!-, squittì attirando l’attenzione del suo migliore amico, ch’era chino su un libro, mentre si massaggiava i capelli bruni, -Non sono perfetti? Sono bellissimi! Non sono bellissimi?
 
Gaetano alzò gli occhi dal libro di filosofia visibilmente incuriosito. Quando incrociò il viso di Francesca, spalancò la bocca in un’espressione di sorpresa e contentezza:-Wow!-, seppe solo esclamare.
 
Quante soddisfazioni le dava il suo migliore amico.
 
-Se ti vedesse Gianluca, tornerebbe indietro!
 
Ecco, questa magari poteva anche risparmiarsela.
 
Il sorriso giulivo di Francesca si spense di colpo, ritornando alla solita smorfia cinica che indossava ogni giorno come se fosse un accessorio.
 
-Scusa, Fra. Non volevo…
 
Gli occhi color caramello di Gaetano s’incupirono colmi di rimpianto; poche volte aveva visto la sua migliore amica sorridere in quel modo ed entusiasmarsi così tanto per motivi vanesi e collegati all’aspetto esteriore.
 
Francesca era una che spesso non si piaceva. O che, meglio, non badava al farsi o meno piacere. Lei camminava con quel passo da gazzella non curandosi dei giudizi che avrebbe avuto la gente su di lei, eppure assumendo un’aria baldanzosa, come ad essere comunque conscia dell’arsenale che sbandierava camminando per le strade.
 
In cuor suo però non si piaceva mai.
 
Agli altri faceva pensare di piacersi e convinceva spesso anch’essa di farlo.
 
Ma alle volte, la verità affiorava, e dolorosamente.
 
Perché Francesca aveva un difetto che neanche un intervento estetico avrebbe potuto sanare: lei aveva gli occhi soli.
 
Il suo sguardo scuro sprizzava spesso solitudine.
 
Disordine.
 
Perdizione.
 
Come se si fosse persa il mondo stando rinchiusa in una gabbia.
 
Francesca fece un vago gesto con la mano:-Non preoccuparti.
 
Gli sorrise poi rassicurante sedendosi davanti a lui.
 
 
 
 
 
 



-Quando nell’interazione tra due corpi, il corpo A viene sollecitato dal corpo B con una forza FB (azione), esso risponde sollecitando il corpo B con una forza FA (reazione) uguale in intensità e direzione, ma opposta in verso. Se un cavallo tira una pietra legata ad una fune, anche il cavallo è tirato ugualmente verso la pietra: la fune distesa tra le due parti, per lo stesso tentativo di allentarsi, spingerà il cavallo verso la pietra e la pietra verso il cavallo; e di tanto impedirà l’avanzare dell’uno di quanto promuoverà l’avanzare dell’altro.
 
Il professor Remi osservò i suoi alunni in cerca di un qualche segnale di vita.
 
Che non arrivò.
 
I ragazzi erano tutti stanchi e sbuffavano in continuazione e senza ritegno. Si erano, come sempre, aggrappati alla scusa della penultima ora. Erano stati tartassati per tutto il giorno: interrogazioni, spiegazioni, correzioni di esercizi. Bisognava pur comprenderli, poveri pargoli: avevano i nervi a pezzi.
 
Comprensivo e caritatevole, il prof Remi pose fine alla lezione, concedendo agli alunni di occupare gli ultimi quindici minuti con un meritato, si fa per dire, riposo.
 
Francesca poggiò sfinita la testa sul banco.
 
Matilde si era alzata dal suo posto, capendo che la sua amica non era in vena di parlare e cercando così di fare due chiacchiere con qualche altro compagno dirigendosi verso l’ala opposta dell’aula.
 
La Molinari intanto pensava, aiutandosi con i principi della fisica.
 
C’era stata un’azione. Quella di Marco Fanti.
 
Professor Marco Fanti.
 
Ora, la forza F esercitata dal corpo Marco M, andò ad incidere sul corpo F Francesca.
 
Qualunque fosse stata la natura dell’azione del professore, a Francesca comunque non piacque e decise di dover rispondere con una reazione di uguale intensità ma contraria.
 
Il contrario di quel che il professore aveva fatto sarebbe stato il doverlo lasciare solo et pensoso et ubriaco in un parcheggio ad un’ora tarda.
 
Non se ne sarebbe presentata mai l’occasione, di questo Francesca era più che certa.
 
E non avrebbe pur potuto attendere con le mani in mano.
 
Bisognava solo che la fune stesse dalla sua parte.
 
A lei serviva quella reazione uguale e contraria.
 
Doveva riportare le cose al punto di partenza.
 
All’odio puro e viscerale che provava per quell’uomo sempre così stronzo con lei.
 
Non poteva sentirsene attratta.
 
Non doveva fargli credere di esserne attratta.
 
Non poteva, né doveva, né voleva dargli l’impressione di essere un’oca giuliva, preda degli ormoni e coltivatrice di malsane aspettative.
 
-Molinari?-, si sentì chiamare improvvisamente dal prof Remi.
 
Alzò il capo dal banco e osservò l’insegnante stordita:-Sì?
 
-Stavi per caso dormendo, Molinari?-, domandò con divertito sarcasmo, per poi subito aggiungere:-Ti cerca il professor Fanti.
 
Soltanto allora Francesca notò il bidello sulla soglia della porta, che svolse certamente il ruolo di messo per il professore di letteratura. Così si alzò curiosa e seguì l’inserviente fino all’aula dei docenti.
 
Nell’aula vi era un insegnante di sostegno con un alunno e, ovviamente il professor Fanti. Poi il deserto.
 
Francesca rimase spiazzata quando notò un particolare.
 
No.
 
E ancora no.
 
No all’infinito.
 
Dov’era quella maledetta zazzera?
 
Perché il professore aveva deciso di potare l’unico elemento al quale la Molinari si aggrappava per provare la sua poca figaggine?
 
Perché?
 
No, la zazzera no.
 
La zazzera doveva rimanere lì dov’era sempre stata.
 
Zazzeretta, non andare via.
 
Francesca canticchiò, in mente, con rammarico, quel motivetto sulle note di una canzone di Baglioni, storpiandone il testo.
 
Come avrebbe fatto Francesca d’ora innanzi?
 
Lui non poteva essere perfetto.
 
Non doveva.
 
Non nel covo dell’adolescenza, degli ormoni in festa e dei primi bollori.
 
Che qualcuno gli rendesse la zazzera, perdinci!
 
-Molinari-, la salutò lui con un sorriso affabile sulle labbra appena la notò imbambolata sulla porta; le fece segno di avvicinarsi per prendere posto al suo fianco.
 
Francesca fece come l’era stato suggerito e si sedette, ancora indecisa sul da farsi.
 
Le serviva un’immediata reazione.
 
E soprattutto doveva chiudere gli occhi e immaginare quella zazzera che se ne stava ancora lì.
 
Perché la zazzera l’aveva sempre aiutata a non balbettare dinanzi a cotanta bellezza.
 
L’aveva aiutata a giudicare il prof Fanti un uomo passabile. Un tantino accettabile.
 
Ma ora, senza la zazzera, ogni forza dell’intelletto poteva annullarsi.
 
La zazzera era la sua cavolo di ancora di salvezza!
 
Il prof Fanti frugò nella ventiquattrore e tirò fuori della carta straccia che mise subito sotto il naso di Francesca.
 
Era un elenco della spesa.
 
Francesca arricciò il naso e lo osservò accigliata.
 
Più che altro perché tra l’elenco vi era l’elemento “assorbenti interni”.
 
Cioè.
 
Che il prof fosse trans?
 
Tanto meglio per la sua sanità mentale.
Si intende quella di Francesca.
 
Magari la presenza di una, come dire, cavità al posto della proboscide l’avrebbe salvata completamente, prendendo il posto della zazzera nel ruolo di “salva Molinari da tempesta ormonale” e migliorando le cose del 110%.
 
L’ipotesi che avesse una donna a casa era molto più plausibile e probabile.
 
Ma Francesca era ottimista, e la scartò, sperando che il professore fosse un transessuale.
 
L’insegnante portò un indice sul foglio, per poi bisbigliare:-Devono credere che io ti stia spiegando qualcosa, che ti stia chiarendo un qualche dubbio su un compito-, fece comprendere a Francesca, indicando leggermente con la testa gli altri due individui presenti nell’aula.
 
Alla Molinari la situazione parve abbastanza stramba e i piani che elaborava quell’uomo lo erano ancora di più; volle ridere, ma le risate vennero frenate dalla preoccupazione.
 
Di cosa voleva parlarle, esattamente?
 
-Hai detto a qualcuno di quel che…
 
Francesca non gli diede il tempo di concludere la frase, poiché scosse la testa.
 
-Ottimo-, riprese il professore, -meglio così. Mi devi comunque scusare, Molinari, per il mio comportamento. Se ti hai qualche ricordo dell’altra serata, potrai facilmente dedurre che ero ubriaco anch’io.
 
Francesca annuì, non avendo la forza di parlare.
 
Osservava quell’uomo ora così perfetto e così vicino e così intoccabile.
 
Non poteva essere un transessuale, perdinci.
Quell’uomo spirava mascolinità da ogni poro!
 
Ed era a due centimetri da lei, che sentiva la stoffa della sua camicia accarezzarle il braccio coperto.
 
Le labbra dell’uomo si muovevano lentamente e i suoi occhi erano seri e leggermente preoccupati.
 
-Bene, non ho niente altro da aggiungere se non chiederti per una seconda volta di dimenticare ogni cosa.
 
Francesca stava per annuire, ma la necessità, il dovere, quasi l’obbligo di trovare un’adeguata reazione all’azione del professore, la portò ad immobilizzarsi.
 
Fissò l’insegnante con uno sguardo incerto; come poteva dimenticare?
 
Ad occhio esterno, poteva sembrare che non fosse successo niente.
 
Niente sarebbe successo per alcune ragazze.
 
Per altre ancora sarebbe successo anche troppo.
 
Ma per una come la Molinari qualcosa era certamente successo.
 
Ed era successo che lei aveva provato dell’attrazione fisica per quell’uomo.
 
Attrazione così sbagliata e malsana, ma che stava per riaccendersi con la scomparsa della deturpante zazzera.
 
Spostò lo sguardo sul petto dell’uomo, come se fosse stata attirata a puntare l’attenzione su quella specifica parte del corpo, e…
 
Che schifo!
 
Storse le labbra, alzò un sopracciglio e guardò l’insegnante negli occhi:-Questo è un altro dei suoi tentativi?
 
Marco portò lo sguardo sulla camicia azzurra che portava aperta sul petto, lasciando intravedere i peli da orso.
 
Molto trash, bisogna dire.
 
Davvero un tocco da tamarro.
 
L’uomo si lisciò il petto con una mano e assunse un’espressione candida, quasi innocente:-Veramente no.
 
Sembrava quasi vergognarsi. Anzi, sembrò offeso dalle parole dell’alunna.
 
Povero pavone vanitoso, qualcuno aveva criticato la sua coda maestosa.
 
-Mi scusi, non avrei dovuto permettermi.
 
Francesca assunse il tono più dispiaciuto dell’universo, ma nella sua mente si faceva i complimenti.
 
3 a 1.
 
Un punto per la Molinari, finalmente.
 
Ecco la reazione uguale e contraria che stava tanto agognando. Ed era arrivata repentinamente e inaspettatamente; quasi non ci credeva.
 
-Hai tagliato i capelli?-, le domandò il professore cambiando argomento, com’era solito fare, e ponendo la questione con fare disinteressato mentre riponeva la lista della spesa nella ventiquattrore.
 
Francesca lo osservò arcigna.
 
Pensava di far le moine a una come lei? Pensava di addolcirsela perché avevano un segreto e aveva paura che lo divulgasse?
 
Era ovvio che avesse tagliato i capelli, perché dover fare una constatazione così stupida?
 
-Anche lei, vedo.
 
Ecco, la Molinari era finanche più stupida di quel broccolo che le stava innanzi.
 
Fu una mossa azzardata, poco delicata. Soprattutto dopo quel che era accaduto.
 
Ma era tutta colpa di quella zazzera.
 
Quella zazzera che era andata via.
 
Francesca la vedeva sporta al finestrino di un treno sbuffante, partire e sventolare un fazzoletto bianco; lei rincorreva invano la zazzera, correndo dietro ad un treno più veloce di lei.
 
Magari avrebbe potuto scoprire dove l’uomo aveva tagliato i capelli, frugare nel cestino del luogo del misfatto, ritrovare la zazzera e incollarla sul cranio del prof con della colla vinilica.
 
O avrebbe potuto sempre rubare i capelli di qualche cadavere per cucirli sulla testa dell’uomo.
 
O avrebbe potuto comprare una parrucca. Semplice, veloce, indolore.
 
O avrebbe potuto ricattare il professore e costringerlo a indossare una bandana che l’avrebbe fatto sembrare un uomo uovo.
 
E avrebbe potuto così far dimettere la sua sanità mentale da un ospedale psichiatrico e farla ritornare a casa, nel suo cervello, e organizzare persino una festa per la bentornata.
 
-Stai davvero bene così-, le disse alzandosi.
 
Fanculo tutti i suoi buoni propositi!
 
Francesca si guardò attorno e vide l’aula deserta; l’insegnante di sostegno e il suo alunno avevano già fatto i bagagli e sgomberato l’area, lasciando il professore e l’alunna da soli.
 
Azione. Reazione.
 
Uguale e contraria.
 
Uguale?
 
Apprensione.
 
Interessamento disinteressato.
 
Contraria?
 
Il professore aveva puntato sulla sanità fisica e mentale della sua alunna, a fin di bene. L’aveva salvata dalle grinfie di un ipotetico molestatore e l’aveva ricondotta sana e salva, seppur ubriaca, a casa, raccomandandole di non bere più e di stare più attenta al suo vestiario.
 
Ottimo.
 
Una reazione uguale.
 
Doveva pertanto utilizzare apprensione e interessamento disinteressato, come aveva fatto con lei il suo insegnante.
 
Ma doveva essere anche contraria.
 
E il contrario di fin di bene, è fin di male.
 
Osservò il corpo atletico dell’insegnante, le sue spalle larghe, la leggera barba sulle guance; osservò tutto, tranne i suoi occhi.
 
Gli occhi di quell’uomo erano letali e non l’avrebbero di certo aiutata nella sua reazione a fin di male.
 
Francesca si avvicinò, per quanto ancora potesse avvicinarsi, e si bloccò a un centimetro dal suo volto.
 
Portò le mani sul petto dell’insegnante e lo sentì irrigidirsi sotto il suo delicato tocco.
 
Chiuse un bottone.
 
Poi un altro.
 
Con lentezza, indugiando.
 
-Adesso sta davvero bene anche lei.
 
Poi si voltò, sparendo in pochi attimi dalla vista quasi ormai annebbiata dell’uomo.
 
Perché la Molinari avesse cercato quella reazione, così contraria ai suoi piani, non lo capì neanche lei.
 
Lo fece e basta, d’istinto.
 
Probabilmente perché una zazzera non c’era più, e questo avrebbe peggiorato molte cose.
 


Ave, popolo!
Mi scuso enormemente per avervi fatto attendere così tanto. Dall'ultimo aggiornamento è passato quasi un mese, chiedo venia, ma non ero a casa e non avevo il pc con me, così non ho potuto scrivere niente.
Confesso che ero titubante, incerta sul cosa scrivere, poi mi son buttata a capofitto sulla prima idea che mi era venuta e l'ho sviluppata.
Spero che apprezzerete il mio lavoro. 
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Alla prossima :) 
 

 
   
   
 
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