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Autore: _Kiiko Kyah    05/08/2014    2 recensioni
{ storia ad oc | vagamente ispirata alla serie “One Piece” | iscrizioni chiuse }
♦ AU | Giallo/Arancione | Avventura, un po’ di violenza, Mistero | Het, Shonen-ai ♦
Lo so, sono pazza e una stupida per cominciarne un’altra, ma c’è un motivo e ve lo spiego dentro.
| Al che lei alzava le spalle e tratteneva il barlume di malinconia che era solito apparire nei suoi occhi, poi prendeva fiato e replicava con ostentata serenità che il suo papà era sotto -all’incirca- tre metri cubi di terra, in quanto era stato impiccato, condannato a morte solo perché era un pirata la cui taglia equivaleva a circa un qualche milione di danari.
[...]
Midway Village era sempre stata una cittadina allegra e piena di vita. Appunto, era stata.
[...]
Ormai tutti avevano perso speranza nella Marina Militare, perché quelli non erano affatto gli eroi che lasciavano intendere di essere.
|
Entrate se volete, ho tanta voglia di lavorare.
Quindi ci si becca dentro, magari ♥
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo sesto
-
right and wrong


-Longue Town, ore 11:20-

La prigione di Longue Town brulicava di mormorii, e puzzava tremendamente di morte. Le macchie d’umido sul pavimento e sul soffitto non stonavano affatto con la ruggine che divorava alcune delle barre di ferro che recludevano i carcerati al resto del mondo. I prigionieri, vestiti di stracci di tela, sporchi e rovinati, erano divisibili in due categorie: coloro che, appoggiati alle suddette sbarre, osservavano con odio tutto ciò che passava loro davanti, e quegli altri che, sbracati nelle loro celle, lasciavano nascosto quell’odio.
Era raro che dei membri della Marina Militare attraversassero quei lunghi e bui corridoi, tastando con mano e osservando con i propri occhi il modo inaccettabile in cui anche i comunissimi ladri venivano trattati. Men che meno comune era l’idea che ad un soldato della Marina interessasse minimamente cosa quei disgraziati pensassero di loro.
Eppure, a Tsubaki importava. Un po’. Forse era per questo che fra i suoi colleghi, nessuno la sopportava. La ragazza dai lunghi capelli rossi -che quest’oggi aveva raccolto in una coda alta sulla testa- ebbe la tentazione di coprire il proprio sguardo color cioccolato con il berretto bianco e blu della sua divisa. Non lo fece, e rimase semplicemente semi nascosta dietro l’ufficiale che la stava scortando chissà dove.
Non le aveva dato indizi, il comandante della nave con la quale era salpata in città, quando le aveva ordinato -intimato era decisamente il termine più esatto- di seguirlo senza fare domande. Oh, lei di domande ne avrebbe avute, tuttavia aveva obbedito ed era rimasta in silenzio per tutto il tragitto, seguendo cautamente il proprio capo.
Non le era mai piaciuto granché, lui- sempre schivo e silenzioso, mai una volta che rivolgesse una parola gentile a qualcuno; non era propriamente cattivo -beh certo, se uno dei prigionieri di quella prigione avesse dovuto rispondere a quella domanda, probabilmente non avrebbe decantato la sua bontà- era semplicemente molto stoico e, diciamocela tutta, si vedeva lontano un miglio che non aveva preso in simpatia -come nessuno finora, d’altronde- la talentuosa guardiamarina che camminava alle sue spalle.
Quest’ultima dovette trattenere faticosamente e a stento un sonoro sbuffo annoiato. Alla lunga, persino ricevere occhiatacce dai carcerati -non che ci fosse abituata, d’altra parte una guardiamarina non spende gran parte del tempo coi delinquenti, no?- diventava estremamente noioso. Come tutto quello che le capitava sotto gli occhi. A volte le era capitato di chiederselo, se smettere di fare il soldato avrebbe reso la sua vita più interessante. Non aveva mai avuto veramente voglia di provare, però.
Dopo l’interminabile camminata all’interno della prigione, finalmente Lune -era questo il nome del comandante, Asurei Lune- si era fermato lentamente davanti ad una delle celle. L’uomo, sulla cinquantina, si tolse il cappello dalla testa, facendo respirare i suoi capelli verde menta -non che respirassero aria molto pura, lì dentro- e aspettò con calma che Tsubaki analizzasse l’interno della cella con il suo giovane e curioso sguardo.
La ragazza fu in grado di definire, nonostante il buio, che la cella non fosse molto più grande di una comune camera da letto. Un surrogato di letto smunto e rovinato era presente, e questo era tutto ciò che c’era lì dentro. Eccetto, appoggiata al muro opposto rispetto alle sbarre piene di ruggine, una figura ripiegata su sé stessa, nascosta nelle prominente ombra che oscurava la fioca luce della prigione.
«Karver.» chiamò secco Lune, dopo aver atteso qualche secondo. «So che sei viva.»
Karver?, ripeté mentalmente Tsubaki, sbattendo un paio di volte le palpebre. Nel frattempo, la figura reagì a quel richiamo con un violento e preoccupante colpo di tosse che scosse violentemente tutto il suo corpo. La donna spostò con un gesto stanco la lunga chioma bruna dal proprio viso, per mostrare ai due soldati i suoi grandi ma socchiusi, rovinati da lacrime e ferite, eppure ancora vispi ed espressivi, occhi dal doppio colore -verde acido il sinistro, rosso sanguinolento il destro.
La guardiamarina sussultò; mentre si chiedeva se quel rosso acceso fosse naturale o semplicemente fosse mutato con il tempo per via del dolore che regnava dentro quello sguardo, non poté fare a meno di notare che questa prigioniera le ricordava molto quella ragazzina che aveva incontrato, qualche notte prima, al molo. I tratti erano simili, per quanto si potessero analizzare bene i tratti di una morta di fame, ovviamente.
«E’ Kaze.» sputò con fastidio l’interpellata, prima di tossire una seconda volta. Pur non trattandosi di una donna molto giovane, dall’espressione sul suo viso si poteva leggere tutta l’energia che una quindicenne avrebbe potuto avere. Un’energia che gli anni di reclusione non era riusciti del tutto a portarle via, evidentemente.
«Non legalmente, Karver.» domandò severo il comandante, corrucciando le sopracciglia per accentuare il suo disgusto alla sola idea. La più giovane dei tre spostava delicatamente le iridi scure dalla donna all’uomo e viceversa, per seguire meglio la conversazione appena cominciata.
Kaze-   Karver si appoggiò pesantemente al muro. «La vita si basa solo sulla legalità, per voi soldati.» ritorse con apparente sarcasmo e una palpabile punta di retorica. «Dopotutto,» si interruppe per tossire di nuovo, ripiegandosi su sé stessa, cercando inutilmente di nascondere il grande dolore che stava provando nel petto, «io amavo Haru.» riprese con un filo incrinato di voce.
«Allora avresti dovuto sposarlo prima che si facesse impiccare.» Asurei afferrò senza alcun problema la piccola lama, simile ad una punta di freccia, che era arrivata a pochi millimetri dal suo occhio destro nel momento esatto in cui aveva terminato quella crudelmente, spietatamente fredda ed indifferente frase. «Perdi colpi, Karver.»
No, non era vero. Tsubaki non era un’esperta, ma sapeva che se quel colpo fosse stato diretto a lei, probabilmente avrebbe perso metà del suo bel viso. Non si era neanche accorta del lancio. Se la donna non fosse stata malata e ferita, neanche il comandante sarebbe riuscito a fermare quella lama.
Questa persona è pericolosa, pensò tra sé e sé la ragazza, squadrando l’oggetto dei suoi pensieri. Non le faceva paura, comunque. Era più interessata che intimorita, il giovane soldato. Ancora aveva inoltre moltissimi interrogativi; primo fra tutti, perché il comandante Lune l’aveva portata ad assistere a quello spettacolo?
«Io l’ho sposato.» ignorò quel commento, non sviando il discorso principale. Accentuò la forza del suo tono sul verbo avere, cosa che probabilmente le provocò abbastanza dolore alla gola da costringerla a tossire ripetutamente per una buona manciata di secondi.
«Non legalmente.» ripeté l’uomo, imperturbabile. Okay. Forse era cattivo.
«Nessuno avrebbe mai sposato legalmente un pirata e una ladra.» commentò con un sospiro la bruna, stanca di quell’argomento. In un certo senso, stava magari solamente prevenendo che le salisse la voglia di uccidere al cervello. «Come sta Kinako?»
Lune digrignò i denti. «Il suo nome tu non lo devi neanche pronunciare.»
«Oh, giusto, tu sei liberissimo di dilaniare la memoria del marito che tu mi hai strappato con l’impiccagione, e io non posso neppure nominare tua moglie?!» Tsubaki guardò da un’altra parte. Perché- Perché le suonava così tanto come se la Karver avesse ragione? Era pur vero che, apparentemente, il suo compagno era stato un pirata, però...
«Non era tuo marito.» insistette l’ufficiale.
«E Nanobana non è più sua moglie...» sussurrò impercettibilmente e senza farci troppo caso la Kino. Ovviamente il suo superiore percepì benissimo quella frase, perché in un attimo la ragazza si ritrovò in ginocchio per terra a cercare di capire quanti organi interni la manata di Asurei le aveva danneggiato...
Mentre si sollevava dal pavimento lurido con l’aiuto delle sbarre a farle da appoggio, la guardiamarina ebbe l’opportunità di incrociare lo sguardo chiaro e dolorante della ladra con il suo scuro e vivido. Le venne una certa nausea- o almeno sembrava che stesse per venirle, fino a che la donna le rivolse un accenno microscopico di sorriso storto e così fugace che fu quasi impossibile notarlo. Quasi come un mormorato Grazie.
«Ha persino smesso di usare il tuo cognome?» si interessò, pur sempre acidamente, la prigioniera. L’uomo dai capelli verdi strinse i pugni. «Oh, caro.»
«Non sono qui per parlati dei miei problemi sentimentali, Karver.» fece rabbiosamente Lune, lanciando anche un’occhiataccia alla colpevole del suo nervosismo. Questa guardò in basso, solo per il tempo necessario all’adulto di dimenticarsi di lei.
L’interpellata prese a giocherellare con una ciocca dei suoi lunghi, lisci, crespi e spettinati capelli nero opaco. «Oh già, sei venuto per discorrere dei miei, giustamente. Di come l’unico uomo che mi abbia mai amata sia stato impiccato, nevvero?»
Quella risposta ironica e piena d’odio non parve scuotere il comandante più di tanto. Anzi. Per niente. «No.» ribatté solo lui. La luce nei suoi occhi diceva il contrario. Chissà cos’era successo, solo il cielo sapeva quanto tempo prima, fra il comandante Lune e la ladra Karver. Chissà cosa recava il primo ad odiare la seconda- che lei odiasse lui era normale.
La donna non era convinta di quella replica. «E di cosa, allora? Vuoi condannare a morte anche me? Sono curiosa di vedere che ragioni snaturate ti son venute in mente.»
«Ci sei andata vicina, ma no, non si tratta di te.» La calma glaciale del suo tono era quasi inquietante; in ogni caso, Tsubaki vi era abituata e la cosa non la toccò granché. «Kino,» si sentì interpellare d’un tratto, e la spina dorsale le scattò dritta in posizione per puro istinto.
«Dite, comandante.» si spostò per non dargli il profilo, dandolo così alla Karver.
L’uomo abbassò a malapena lo sguardo su di lei, e giusto per un secondo. «Quando si concede ricompensa per la consegna di un  ricercato anche morto?» calcò sulla parola “morto” nel momento esatto in cui tirava fuori dalla giacca bianca della divisa dell’esercito un rotolo di carta scolorita. Quella che si utilizzava per i manifesti delle taglie.
«Ciò avviene quando il ricercato, solitamente un pirata, ha commesso crimini degni della pena di morte, signore.» Chiuse piano gli occhi mentre rispondeva; il rotolo di carta scivolò lentamente nella cella fino ad aprirsi davanti allo sguardo semi confuso della ladra.
C’erano diverse cifre sopra la scritta in caratteri neri, DEAD OR ALIVE. Sopra le lettere e sopra i numeri, che la donna non ebbe forza di leggere, la foto di un ragazzo dai lunghi capelli del colore del caramello, un coltello in bocca e la carnagione chiara. Uno dei suoi affilati occhi verde acido era strizzato in un occhiolino, quasi in posa per quella foto.
Melanie -Melanie era il suo nome, avrebbe presto imparato la ragazza dai capelli rossi- si coprì la parte inferiore del viso con le mani, sgranando le palpebre. «Koji.» esalò stupita, forse fiera che Koji avesse seguito le orme di suo padre, anche se al contempo spaventata all’idea dei rischi a cui il ragazzo correva incontro. «Perché-»
«Perché ti mostro la taglia di tuo figlio, Karver, ti stai chiedendo?» la interruppe bruscamente Lune, l’espressione trasformata ancora in una di rabbia pura. «Per farti capire cosa si prova.» ammise duramente.
La corvina sollevò gli occhi su di lui. «Non è colpa mia se Fei ha preso il mare insieme a Koji, quel giorno!» gli ricordò, e in cambio ricevette la stessa lama che poco prima aveva lanciato verso il Marine. Il sangue scorse come un ruscello giù per la sua gamba, fino ai piedi, inondando l’aria dell’acre odore ferreo che si mischiò a quello già sgradevole del posto in cui i tre si trovavano.
«Fei non è affare che ti riguardi.» Non gli costò apparente fatica ignorare la ferita che aveva appena provocato alla donna.
La guardiamarina non riusciva a capire del tutto la situazione. Conosceva certamente l’identità di Fei, e anche quella del pirata la cui foto era stampata su quel manifesto. Non era difficile dimenticare la Joker Raim, in special modo dopo che la ciurma del capitano Kaze aveva fatto affondare cinque navi della flotta della Marina in una sola settimana.
«Kino.» la chiamò ancora il comandante, distraendola dai propri pensieri. Le sbarre della cella si aprirono lentamente, sotto la spinta del braccio di Asurei, che le aveva aperte con la chiave che gli era stato permesso di prendere. «Legala.» ordinò, ammiccando con il mento a delle catene situate non lontano da Melanie.
«Cosa hai in mente?» Mentre eseguiva reclutante la missiva del superiore, la Marine si ritrovò un poco sollevata nel sentirsi togliere la necessità di correre il rischio di porre lei stessa quella domanda. La Karver scrutava con sospetto il nemico, furiosa.
L’uomo assottigliò gli occhi fino a farli diventare due fessure. «Eccetto sua sorella, sei la persona che ama di più sul pianeta. Sarà più facile catturarlo con te insieme a noi.» Che era un modo fine per dire che era appena diventata ostaggio di coloro che avevano tutta l’intenzione di giustiziare suo figlio senza tanti complimenti.
«Hai preso anche mia figlia?» ringhiò furente la donna, frattanto che Kino la sollevava da terra, sorreggendola. Questo era l’amore di una madre. L’idea di preoccuparsi per sé stessa non le era neanche passata in mente. La cosa più importante erano i suoi figli.
«No. Non l’abbiamo trovata.»
«Vuol dire che se la trovassi, rapiresti anche lei, che non ha mai fatto niente?!» l’eco di quel grido rimbombò intorno a loro per qualche attimo. I carcerati nelle celle vicine cominciarono a sbraitare a loro volta; non avevano capito nulla di certo, tuttavia la comprensione non era cosa necessaria per sostenere un collega prigioniero.
Lune la squadrò dall’alto in basso. «Tu e Nana siete l’unico motivo per cui mi trovo a Longue Town.» confessò senza tanti complimenti. La rossa perse un battito.
Lei non lo aveva mai saputo! Era per questo che erano stati tanti giorni attraccati al porto di quella città? Perché il comandante stava cercando la figlia di questa donna, per usarla come ostaggio?! No... Non era giusto! Non stava bene per niente! Anzi, era orribile!
Lei e Melanie arrivarono ad un passo dal comandante, prima che la donna sputasse qualche frase con rabbia. «Sai, Lune, Haru era un criminale. Ciò nonostante, tutte le malefatte che compieva, tutte le crudeltà che diceva, tutte le empietà che pensava, lui le mostrava sotto la luce del sole! Persone come te, che si spacciano per grandi eroi, e poi compiono le stesse azioni dei pirati, nascosti agli occhi di tutti... Haru era cento volte più uomo di te!» Il Marine non si disdegnò dal farle perdere l’equilibrio con un sonoro schiaffo. Tsubaki si chinò in fretta per aiutarla a rialzarsi, ma fu inutile; la bruna si scansò da lei in malo modo, guardandola di traverso. «E tu, che esegui i suoi ordini senza fiatare, non sei meglio.» La rossa si morse le labbra. Era vero.
Poteva pensare tutte le cose giuste che voleva, ma finché non avrebbe agito sarebbe stata tale e quale ai Marine che il popolo tanto temeva e odiava. Però non poteva certo favorire una criminale, no? No, no che non poteva.

...Giusto?


-Ukari Town, ore 14:00-

«Poker d’assi!»
«Che cosa?!»
«Ho vinto io! Di nuovo.»
«Accidenti, Mayu! Ne sono sicuro, hai barato!»
Mayu rise divertita all’accusa del suo amico d’infanzia. Era divertente osservarlo inquietarsi ogni volta che perdeva- il che capitava piuttosto spesso. La ragazza spostò una lunga ciocca dei suoi scuri capelli color cioccolata dietro le spalle, senza smettere di sorridere alquanto divertita. Non lo stava prendendo in giro, questo no. Però doveva ammetterlo, si stava divertendo un po’ troppo- e a Gamma non piaceva essere deriso.
«Eh no, caro mio, sei tu che sei scarso!» commentò con una seconda risatina.
Il ragazza dai capelli bianco nuvola si morse l’interno della guancia e spostò il suo sguardo color ghiaccio secco in una direzione qualsiasi che non fosse quella frontale, per non guardare la sua “amica” che se la rideva. Osservò stancamente la nonna Panjī entrare nella stanza, anche lei ridacchiando, portando con sé un vassoio sul quale trasportava una teiera, due tazzine, lo zucchero e dei pasticcini. Non appena quel vassoio fu sul tavolo, un dolcetto alla crema finì rapido fra le labbra chiare di Mayu, che non aveva perso tempo.
«Vi state divertendo?» domandò la dolce e anziana donna, come se i due avessero ancora sette anni e stessero ancora giocando con lo stesso interesse –beh. Mayu lo faceva.
«Certo che—» «—No!» La ragazza si voltò verso colui che l’aveva interrotta.
La smorfia dispiaciuta e lievemente sorpresa che Gamma si ritrovò davanti gli fece crescere dentro il grande desiderio di alzarsi e andarsene. In fretta, anche. Quell’espressione gli stava sui nervi, eccome se gliene dava, e non aveva affatto voglia di sentirsi in colpa. ...Non che ci fosse la più piccola possibilità per lui di sentirsi in colpa, dopotutto non aveva fatto niente altro che dire la verità, no? Senza contare che si stava parlando di Mayu!
«No, Mayu, perdere a poker per dieci volte consecutive non mi diverte.» le comunicò secco, appoggiando i gomiti al tavolo e la testa sui palmi delle mani.
La ragazza sbatté le palpebre dei suoi grandi occhi alla vaniglia, mimando gli stessi gesti dell’amico e mettendosi nella stessa posizione. «E allora cosa ti va di fare?»
L’albino ci pensò seriamente su per un paio di secondi. «Ho voglia di andarmene da qui.» replicò, sollevando le iridi chiare verso il soffitto in legno del salone di casa Kato. La diciassettenne seduta davanti a lui parve alquanto confusa, il che sfortunatamente non lo stupì granché. Eh, che noia...
«Vuoi uscire di casa? Ma fa freddo oggi.» Ecco appunto. Per carità, Mayu non era stupida, né molto ottusa. Solo che a volte, in special modo quando era Gamma a parlare, si comportava come se le parole del ragazzo fossero uscite in modo sbagliato.
«No, caramellina,» roteò gli occhi al cielo lui, «voglio andarmene da Ukari.» specificò non troppo allegramente, appoggiandosi all’indietro sullo schienale della sedia al quale era seduto, afferrando distrattamente un dolcetto dal vassoio.
La castana afferrò una delle tazze che sua nonna aveva appena finito di riempire con uno scuro ma dolce thè alla vaniglia. Portandosi il bordo della tazza di porcellana alle labbra, scrutò incuriosita il viso seccato e annoiato del suo amico. Era proprio solito di Gamma, annoiarsi in fretta e risponderle male a quel modo, però tutto sommato a lei stava bene così. Non era il tipo da arrabbiarsi subito, lei- certo, alla lunga diventava irritante.
«Vuoi fare un altro dei tuoi viaggi.» affermò con calma, cercando una conferma di questa sua supposizione. Bevve un po’ di thè prima di prendere uno dei dolcetti e lasciarlo a mollo nel liquido scuro per un momento, per poi prenderlo con un cucchiaino e infilarselo in bocca.
Gamma osservò quella piccola operazione in silenzio. Poi sbuffò un’altra volta. «No, non esattamente.» alzò le spalle, lanciando un’occhiata a Panjī, e poi di nuovo alla sua coetanea. Sorrise, quasi sornione. «No, io voglio proprio andarmene. Questo posto è noioso, esattamente come le persone che ci abitano. Senza offesa, signora Panjī.» aggiunse, godendosi veramente moltissimo la faccia corrucciata della sua amica d’infanzia.
«Uffa, Gamma, sei proprio un gran antipatico!» sbuffò Mayu offesa, posando la tazzina sul tavolo e incrociando le braccia. Girò il viso in un’altra direzione, gonfiando le gote quasi indignata. L’amico si limitò a ghignare, il che non le lasciò molto altro da fare che sospirare. «Certo che... sarebbe carino vedere com’è il mondo là fuori...» borbottò dopo un po’. Una constatazione abbastanza ovvia. Sicuro, le piaceva Ukari Town, ma...
«Tu? Fuori da qui?» il diciassettenne dai capelli bianchi sollevò con nonchalance una delle sue sottili mani nivee, con aria superiore. «Di sicuro finiresti con il farti ammazzare da qualche pirata. Tu non hai idea di come sia il mondo vero, caramellina.»
L’interpellata sbatté il pugno sul tavolo, pronta a contraddirlo, quando la voce calma -anzi, appariva piuttosto divertita- della nonna la precedette. «Perché non glielo insegni?»
I due adolescenti si voltarono verso di lei all’unisono. «Come prego?» emise il ragazzo, sperando sinceramente di aver capito bene. La signora Kato non stava suggerendo di...?
«Hai ragione a dire che Mayu potrebbe avere difficoltà da sola nel mondo, ma se partisse insieme a te sono sicura che starebbe benissimo.» spiegò gentilmente l’anziana, riempiendo una tazza di thè che poi posò davanti all’albino. «E anche tu, staresti bene con qualcuno con te, non credi?» Ehm, no, avrebbe voluto rispondere l’interlocutore, tuttavia rimase in silenzio, e prese la tazza calda di bevanda alle erbe fra le mani. Scrutò con attenzione il proprio riflesso nel liquido scuro. «Mi piacerebbe molto vedere i disegni che il mondo là fuori ispirerebbero a Mayu; ormai il suo blocknotes è quasi monotono.»
La giovane dagli occhi vaniglia arrossì appena. «Nonna, tu guardi i miei disegni?!»
«Ma certo, mia cara.» replicò quella, come se fosse la cosa più naturale del mondo, sorridendole con delicatezza. Si voltò poi di nuovo verso Gamma. «Che ne pensi?»
Seguì un lungo attimo di silenzio. Una fugace eternità, avrebbe detto Mayu, per poi spiegare che quello scambio di contrasti era una figura retorica di cui Gamma avrebbe comunque presto dimenticato il nome. Portarsi la Kato appresso sarebbe stato come trascinare con sé Ukari Town. Ma non era da quella che voleva allontanarsi? Certo, a pensarci bene, senza lei in giro non avrebbe avuto nessuno da infastidire... anche se lei stessa era un grande fastidio. Huh, effettivamente era una scelta complicata.
Prese a sorseggiare thè con tranquillità, ad occhi chiusi. Socchiuse appena percettibilmente una palpebra per osservare la sua coetanea. La sua espressione lo stupì, tanto che quasi gli andò il thè di traverso. Si vedeva sul volto di Mayu che alla ragazza sarebbe piaciuto molto partire. Con o senza di lui, era giusto pensare -o almeno questa era la sua idea.- Però sì... da sola si sarebbe fatta ammazzare.
«Bah, come se mi importasse. Se proprio vuole venire, che venga.»
Dopo qualche minuto, si ritrovò con Mayu abbracciata al collo, e la cosa gli fece altamente desiderare di non aver mai accettato quella stupida proposta di nonna Panjī.



-Sulla strada per Midway Village, ore 21:05-

Atsuya sbadigliò profondamente, provocando una risatina al maggiore dei gemelli. Il rosato lanciò uno sguardo torvo a Shirou, il quale in tutta risposta gli fece una simpatica linguaccia. I due stavano viaggiando da giorni oramai per raggiungere quella stupida cittadina chiamata Midway Village, e non avevano avuto poi molto tempo per riposare.
Dopo aver lasciato Ukari Town, avevano perso la nave che volevano utilizzare come passaggio, ragion per cui erano finiti a fare gran parte del viaggio a piedi. Atsuya dava tutta la colpa a Shirou che aveva perso tempo. Non era poi molto sicuro di aver ragione, comunque. Beh, ormai il danno era fatto, e anche quasi risolto.
«Speriamo di non star viaggiando a vuoto.» commentò il minore, incrociando le braccia dietro la testa.
Il ragazzo dai capelli argentati sorrise incoraggiante. «Non preoccuparti, sono sicuro che i pirati siano quelli giusti. Non dubitare degli anni che abbiamo speso a cercarli.»
«Non ne dubito,» fece spallucce quell’altro, soffiando. «è solo che dopo tutti questi anni, non posso credere che siamo così vicini a guardare in faccia gli assassini dei nostri genitori.» Il fratello sorrise, anche se non c’era assolutamente niente da sorridere.
«Ci crederai quando sarai lì a pestarli.» commentò semplicemente.
La sicurezza che sprigionava da tutti i pori dava quasi l’impressione che fosse pazzo. Erano solo in due, eppure erano molto sicuri di sé e non avevano mai temuto neppure per un attimo di non riuscire a vendicare i propri genitori, pur sapendo di trovarsi davanti ad un’intera ciurma di pirati che aveva preso in ostaggio una grande città.
«Meh.» sbuffò Atsuya, infilando le mani in tasca. «Cambiando discorso, secondo te la brunetta sa che ci siamo accorti di lei?» ammiccò con i suoi occhi freddi come la neve alla figura minuta che li seguiva nascosta nell’ombra.
Shirou rise nuovamente. «Non penso, ma non sembra malintenzionata.» strizzò un occhio con gentilezza, come ad invogliare il fratello a lasciar perdere. Yurika, pensava in realtà fra sé e sé, è pericoloso starci dietro.








Note di _Kiiko
cHI VUOLE FARMI FUORI? Sotto a chi tocca. No, dico davvero, me lo merito. Vi chiedo scusa se la parte di Tsubaki si è mangiata mezzo capitolo e anche per il fatto che, nonostante tutto questo tempo -mesi, gente, MESI- io abbia inserito solo tre OC -uno dei quali è anche solamente accennato- in questo capitolo. Sono pessima, lo so, sarei da martoriare, oh se lo so, e mi dispiace sinceramente.
L’unica cosa che non voglio è abbandonare questa fic, e anche se forse i lettori saranno veramente stanchi di me non l’abbandonerò; dopotutto, finché anche solo una persona la leggerà, io scriverò per quella singola persona. Però vi chiedo perdono per il tantissimo tempo che ci ho messo ad aggiornare. Davvero... scusatemi.
Ti mando un bacio, chiunque sia tu che ti sei preso/a il disturbo di leggere.

Anna. 
  
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