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Autore: Audrey_e_Marilyn    09/08/2014    2 recensioni
Gli uomini sognano, ma i sogni non hanno alcun valore quaggiù e ciò che prima era un luminoso raggio di speranza, adesso è una lunga notte d'agonia. Questo è il principio della fine, è stato concesso tempo a sufficienza, ma nei meandri della terra ancora giace in attesa l'eredità degli angeli, un'eredità macchiata di sangue e bruciata dal fuoco.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Atto Primo:  La Base Rossa

 
Il sole illuminava mite le campagne senesi che si estendevano infinite intorno a casa sua, il freddo pungente di Febbraio incombeva sulle piante di sua zia, avvolgendole in una morsa letale. Clelia era seduta in cucina con in mano una tazza di caffè e il gatto che le faceva le fusa per avere qualcosa di cui mangiare.
 «Clelia!» esclamò sua zia dalla cucina «è tornato!»
La ragazza rovesciò il caffè sul tavolo e corse fuori in giardino a gran velocità. Nel vivaio c’era un uomo dalla grande stazza, le spalle ampie e le braccia possenti; il volto  incorniciato da una barba ispida e marcato da una profonda cicatrice sulla guancia sinistra che si estendeva fino alla tempia; la grande bocca carnosa si aprì in un ampio sorriso e le sue braccia si schiusero per abbracciarla. Clelia gli saltò al collo e lo strinse a sé con forza.
  «Zio Vasco!» esclamò lei contenta «mi sei mancato!»
«Anche tu tigre» le accarezzò i capelli e la squadrò per qualche secondo «sei cresciuta ancora mentre ero via? Sei una pertica!»
 «Effettivamente ho preso un paio di centimetri» scherzò lei, lo zio le scompigliò i lunghi capelli biondi.
Uscì anche sua zia in giardino che corse subito ad abbracciare il marito, lo strinse a sé e gli diede un bacio sulla cicatrice. Sua zia era una donna molto elegante, dai capelli ricci e corvini, con un gran paio di occhi smeraldini che sapevano scrutarti dentro. Sistemò il colletto della camicia al marito e sorrise contenta: «allora? Come è andata quella cosa?» domandò la donna a bassa voce cercando di non farsi sentire dalla nipote, invano.
 «È andata Dafne… » sussurrò lui tenendosi sul vago, accortasi del buon udito della ragazzina. Lanciò un’occhiata silenziosa alla moglie, che non domandò più alcun che. «Vuoi venire a fare un giro nei boschi, nel mentre la zia prepara da mangiare.»
 «Sì, okay.»                                                                                         
Uscirono dai cancelli della casa e presero una stradina scoscesa che portava ad una fitta boscaglia. Rimasero in silenzio finché non arrivarono  nel cuore del bosco: uno spiazzo d’erba circondato da querce secolari che lasciavano trasparire una luce sfusa che illuminava l’ambiente. Si sdraiò sull’erba, ne mise un filo in bocca e inspirò profondamente quell’aria fresca. Era il suo posto preferito, l’unico luogo in cui davvero trovava la pace.
 «Ho fatto un sogno zio…» cominciò la ragazza guardando il piccolo spiraglio di cielo che si intravedeva fra le fronde.
«Che genere di sogno?»
 «Un sogno molto realistico, quasi come se davvero fosse accaduto… cioè, Giovanna d’Arco è esistita davvero, ma… era un sogno così strano zio non so quasi come descriverlo.»
«Credevo fossi abituata alle stranezza, è il tuo lavoro ucciderle… o sbaglio?»
  «No, non sbagli, ma questi non sono mostri zio, questa è una questione di tutt’altra natura.»
«E che hai sognato, la Madonna?» scherzò lui.
  «No lei no, solo i quattro arcangeli.»
Vasco si fece più interessato e le chiese di spiegarle per filo e per segno ciò che aveva sognato, lo fece. Descrisse particolari e sensazioni, i dubbi e le domande che le avevano afflitto la testa tutta la notte.
 «Alquanto bizzarro come sogno… non raccontarlo agli altri, giù alla base, non capirebbero e chi ci riuscirebbe ti reputerebbe folle.»
«Zio, tu ci credi?»
 «Sì Clelia, sfortunatamente ci credo» suo zio si incupì e si sedette affianco a lei. «Quella spada esiste, se mio fratello non avesse perso tempo a cercarla oggi forse sarebbe qui con te.»
«Mi avevate detto che erano morti in un incidente stradale…»
  «Io e la zia non siamo stati del tutto sinceri con te, scusa. I tuoi genitori, beh loro, lo sai, erano della tua stessa stoffa… cavalieri e di alto rango, un giorno tuo padre s’intestardì nel voler cercare la spada di fuoco, ma fu la sua rovina. Sua, tua, di tua madre… non cercare quella spada Clelia, i tuoi sono stati uccisi per averla, è qualcosa che va oltre ogni fantasia.»
«Sono… sono stati uccisi?»
 «Sì, durante una missione, sedici anni fa, a Parigi. Sono stati ritrovati sotto un cumulo di vetri appuntiti, i giornali e le telecronache hanno bollato il caso come suicidio, ma io so che non è stato così. No, mio fratello non ne avrebbe avuto motivo, aveva te e Ginevra…» le accarezzò la guancia «qualcuno ha voluto tagliare il filo per loro.»
Il cielo si rannuvolò sopra le loro teste e lo zio aiutò Clelia ad alzarsi. La prese per le spalle e insieme tornarono a casa, dove la zia Dafne li aspettava con la tavola imbandita.  Il pranzo trascorse tranquillo, tra risate e battute, ma Clelia ancora sentiva il gusto amaro della verità. I suoi genitori erano stati uccisi per lo stesso oggetto che aveva visto più e più volte in quel sogno, ma non l’avevano mai trovata. Solo leggende, si disse, eppure quelle leggende avevano ucciso i suo genitori.
 «Allora glielo hai detto?» domandò d’un tratto la zia, rivolta al marito. Vasco scosse il capo, il comportamento così evasivo degli zii preoccupò non poco Clelia che, però, rimase in silenzio facendo finta di nulla.
Si alzò dalla tavola e andò in camera sua senza proferir parola, chiuse la porta alle sue spalle e si appoggiò con la schiena allo stipite della porta. Guardò la sua stanza e la foto dei suoi genitori sul comodino affianco al letto. Due uomini, giovani e sorridenti, felici stringevano fra le braccia una bambina di al massimo un anno. Si alzò, prese in mano la cornice e accarezzò il volto sorridente di suo padre come se fosse vivo, come se potesse davvero sentire il tocco delle sue dita attraverso quel freddo vetro. Somigliava molto a sua madre: gli stessi occhi cristallini, chiari come le acque dei caraibi, i lunghi capelli mossi e biondi, le labbra piene e carnose, il sorriso, le lentiggini e la corporatura; tuttavia il carattere impetuoso, scaltro e frenetico lo aveva preso tutto da suo padre.
 Bussarono alla sua porta, lo zio la aprì un poco e si affacciò nella camera della nipote: «tigre, dobbiamo andare…»
 «Arrivo, tu aspettami all’auto.»
Prese la sua divisa dall’armadio e la mise disordinatamente dentro la tracolla, insieme al cellulare e al lettore mp3. Corse al piano inferiore, sua zia le sorrise e le schioccò un bacio sulla guancia.
 «Piccola fai attenzione» la strinse forte in un abbraccio.
«Zia ho diciassette anni e poi sono la migliore nel mio lavoro, non ho bisogno di raccomandazioni» borbottò lei cercando di divincolarsi dalla stretta della donna.
 «Sarai sempre la mia piccina, anche quando sarai sposata.»
«Avanti zia!» la lasciò andare e corse all’auto, dove suo zio la stava già aspettando. «Eccomi, zia Dafne non mi mollava più» si accomodò davanti e allacciò la cintura.
  «Con il lavoro che facciamo ci vuole sempre cautela, vuole solo vederti tornare a casa piccola.»
Accese il motore e partirono alla volta di Siena. Il cielo e l’aria presagivano un imminente temporale, il vento soffiava convulso facendo addirittura piegare i cipressi, ma nell’auto l’aria condizionata riscaldava le mani di Clelia e la musica del cd rimbombava nelle sue orecchie tenendola sveglia.
La città di Siena era animata dal carnevale e dai bambini che giravano per le strade vestiti nei modi più stravaganti, i festoni e i coriandoli coloravano le strade e animavano i rioni. Vasco e Clelia entrarono nel duomo, salutarono gli addetti per nome, attraversarono la ampia cattedrale e si avvicinarono all’altare. Aprirono le piccole ante del tabernacolo, al suo interno una croce d’argento puro, adornata da preziosi rubini e con sopra inciso: “ Milites autem Crucis”.  Prese il mano la croce e la portò dietro il coro, ove c’era una piccola serratura, grande come la croce. Inserì la croce e la girò tre volte verso destra e scattò la porta, immergendosi nel muro e lasciando spazio ad una lunga schiera di ripide e scoscese scale. Clelia prese la grossa fiaccola che stava sistemata al muro, la porta alle loro spalle si chiuse con un cigolio sinistro lasciandoli al buio, illuminati solo dalla flebile luce della torcia. Scesero cautamente le scale fino ad arrivare ad una camera sotterranea che assomigliava ad una palestra, solo che al posto dei pesi vi erano varie tipologie di armi, da quelle bianche a quella da lancio.
 «Clelia! Sei arrivata!» esclamò una ragazzina dal poligono di tiro, le corse incontro e andò ad abbracciarla. Era una ragazza minuta, dal fisico asciutto e allenato, i capelli biondissimi e spettinati lasciati al vento e i chiari occhi grigi che la fissavano felici. «Ti stavamo aspettando, come è andato il weekend?»
 «Non c’è male, ma non vedo l’ora di andare in missione» disse. «Tu e Tommy?»
«Non ci lamentiamo, anche la missione è carina.» sorrise lei. Alle sue spalle comparve un ragazzo alto, biondo scuro e dai grandi occhi castani, lo sguardo magnetico metteva sempre Clelia in soggezione, ma alla fine lui era una delle persone più simpatiche della base.
 «Sì, Emilia ha ragione, sarà bellissimo girare per la Russia alla ricerca di un grosso e peloso lupo mangia uomini!» ridacchio il ragazzo «a Febbraio poi!... Ciao Clelia!» esclamò salutandola con la loro stretta di mano personale. Nessuno avrebbe mai scambiato Tommaso ed Emilia per due gemelli, erano così diversi, eppure così in simbiosi l’uno con l’altra. Lo zio di Clelia continuò il percorso e andò verso la sala grande della base, lasciandola con i suoi due amici. «Ragazzi, è tornata la master!» gridò Tommy e altri amici corsero a salutarla, prima tra tutti Giselle.
 «Oh che bello vederti!» esclamò entusiasta «Non vedo l’ora di farti vedere quello che ho imparato!» Giselle era stata l’ultima ad unirsi ai cavalieri, ma aveva un futuro brillante come tiratrice, aveva battuto ogni record con i coltelli da lancio. Era tanto brava che tutti alla base l’avevano soprannominata occhio d’aquila, sapeva tirare un coltello e fare centro ad una distanza di duecento metri.  Si tirò su i capelli rossi e li legò in una coda mal fatta, sorrise e guizzò con quei suoi occhi azzurri ed impertinenti.
Comparve anche il suo partner, Shane, lui  invece era un membro anziano dell’Ordine, ma non abile quanto Clelia, seppur fosse un grande combattente. Sorrise felice e le diede un cinque : « ecco la mia compagna di scherma» scherzò.
  «Ti batterò sempre Shane, non hai alcuna speranza.»
«Mai dire mai, arriverà qualcuno che riuscirà a stracciarti e quando accadrà ti riderò in faccia» scherzò lui scompigliandole i capelli. Shane era alto, molto alto, e anche se lei di certo non era bassa la faceva sentire piccola ed insignificante, poi con quei due glaciali occhi verdi aumentava quel senso di inadeguatezza. Tuttavia lui non riusciva mai a batterla in niente e quindi riusciva sempre ad essere un passo avanti a lui.
 «Vado a vedere il tabellone delle missioni, dopo facciamo una sfida?» domandò al ragazzo.
«Massì, perché no, questa volta ti anniento bionda.»
 «Non ci conterei troppo!»
Emilia accompagnò Clelia nell’atrio della base, i tavoli circolari erano posizionati a file di tre nella stanza e sui muri erano appesi gli stendardi dell’Ordine. Erano dei grandi vessilli in seta argentea con al centro ricamata con una croce rossa, rossa come il sangue che i loro fratelli avevano sparso per proteggere gli altri uomini, e il numero della base. Erano a migliaia le basi nel mondo e un centinaio solo in Italia, oltre che essere lo stato più prosperoso per l’Ordine era anche il più importante, solo i migliori arrivavano in Italia e venivano selezionati dalle basi di tutto il mondo. Siena era la più importante tra le basi, dopo Roma, e conosciuta solo dai confratelli. È chiamata da tutti Base Rossa, ma anche detta Base 2 ed era relativamente la più grande, nonché quella con più cavalieri.
Vide suo zio intento a fissare il tabellone delle missioni, a braccia conserte, in silenzio. Si avvicinò a lui e guardò i vari incarichi: una missione in Russia già prenotata dai gemelli, una in Spagna… ma se l’erano accaparrata Shane e Giselle. Tutte le missioni erano state prenotate, tranne una. Clelia aveva affrontato mostri ben più sanguinari e senza necessitare di un partner come tutti gli altri cavalieri. Andare a Venezia per uccidere un Gargoyle sarebbe stata una sciocchezza, aveva già svolto innumerevoli volte quel genere di missioni ed era un po’ stanca, voleva qualcosa di nuovo… qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Scrisse il suo nome affianco alla casella della missione, con aria di sufficienza.
 «Mi spiace Clelia, se fossi ritornato prima da Roma avresti potuto scegliere quella migliore» disse lo zio.
  «No, va bene così» disse lei «sarà uno scherzo, più sono grossi e più sono stupidi… e poi tu sei il Gran Maestro zio, è ovvio che ripongano maggiore fiducia in te.»
«Sei molto in gamba Clelia, ma i Cavalieri Templari non lavorano da soli… »
  «Parlano di uno che invece, da che è stato introdotto, ha sempre lavorato in solitudine, lo descrivono come un angelo della morte.»
«Clelia… »
 «Ho sempre lavorato da sola, mi sono fatta strada da sola fra tutti i membri di questo ordine,  ho superato anche i più anziani e tu sai che se sono una dei più grandi Cavalieri Templari del mondo è stato solo grazie alla mia determinazione. Io credo di essere pronta per missioni più pericolose, intendo quelle in nero.»
  «Quelle in nero?! Clelia quelli sono segreti che vengono consegnati solo ai Gran Maestri, nessuno le ha mai aperte a parte i tuoi genitori ed io!»
«Non ti sei mai sentito pronto? Pronto per fare qualcosa anche se il mondo è certo del contrario?»
  «Non è quello tigre, non si tratta di tempra, per quello sei pronta da anni… io parlo di mentalità, hai ancora molto da imparare.»
«Perché non ti fidi di me?»
 «Se non mi fidassi di te piccola non ti lascerei mai da sola con la zia» la abbracciò «sei una grande guerriera, ma per essere la migliore hai bisogno ancora di qualcosa.»
«Cosa mi manca?»
  «A Venezia troverai tutte le risposte di cui hai bisogno» sorrise «forza mettiti la divisa e vai ad allenarti con gli altri.»
Andò negli spogliatoi, si fasciò le mani con delle bende e mise la divisa. Era un abbigliamento molto antiquato, ma era più per le cerimonie e gli allenamenti che non per le missioni vere e proprie. La camicia era bianca e le maniche lunghe finivano a sbuffo e cadevano morbide sui suoi palmi, strinse il corsetto finché le forme dei suoi fianchi non vennero rivelate e i seni messi in risalto dalla scollatura della camicia; una collana argentea e tempestata di rubini scendeva lungo il seno rinfrescandole la pelle con la sua fredda superficie, tirò su i pantaloni di pelle che le risaltavano le gambe e legò alla cintura tutte le sue armi. Fece velocemente una treccia e salì al piano superiore, tutti erano in fila a recitare il motto dell’Ordine. Davanti i membri giovani, gli iniziati, in centro i coloro che erano stati trasferiti da poco e al fondo quelli come lei che erano lì da quasi una vita, o comunque un tot di anni sufficienti per essere reputati di classe superiore alla norma. Era una regola che i Cavalieri, prima di ogni allenamento, recitassero il loro inno in memoria dei confratelli che avevano dato la vita per far risorgere questo Ordine dalle ceneri e dal limbo in cui era piombato. Un motto di onore, sacrificio, dolore, sangue… di certo non poteva essere la filastrocca della vispa Teresa, pensò Clelia analizzando la storia del loro Ordine. Finito, suo zio li congedò e li intimò ad allenarsi con ciò che sapevano maneggiare meno bene. Per Clelia era un consiglio un po’ sprecato, lei sapeva usare qualsiasi genere di arma e suo zio l’aveva addestrata al meglio. Shane le andò vicino e sorrise… voleva sfidarla, ancora.
«Molto bene, campo di battaglia?»
  «Ho voglia di fare due tiri con la spada, ti va?»
«Perfetto.»
Percorsero il corridoio di destra, ammirando i ritratti dei grandi Cavalieri che percorrevano con loro il buio e angusto androne. Arrivarono nella più grande stanza della base, illuminata dalla luce fioca e sinistra delle torce che davano all’ambiente un’aria cupa.
 Shane si diresse al centro della sala, estrasse la sua spada, uno stocco francese settecentesco e innalzò la lama: « sto aspettando madame.»
 Clelia invece scelse una sciabola spagnola, poiché il ferro spagnolo era ben più resistente di quello inglese e francese; la lama era a doppio filo, lunga e sottile, l’elsa era ricoperta con uno strato di cuoio nero e la guardia le nascondeva la mano dietro ad un elaborato fregio in oro. «Enguarde!»
Le loro lame si abbassarono fino a sfiorarsi, per qualche secondo rimasero immobili a fissarsi. D’un tratto Shane tentò un affondo, ma Clelia lo respinse schivando il colpo velocemente. Conosceva bene la tattica di Shane, si basava soprattutto sull’attacco che non sulla difesa, quando colpiva di punta era più pericoloso perché metteva più forza nelle braccia, ma se erano laterali erano facili da parare e le aprivano un varco per disarmarlo. Provò ad affondare ancora, ma la colpì alle spalle, lei respinse il colpo deviandolo con la spada, che aveva velocemente portato lungo la schiena. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente, la vista non era l’unico senso che serviva in battaglia. Sentì la spada fendere l’aria con un fruscio metallico, senza guardare seguì i movimenti della spada di Shane e la parò con gli occhi chiusi e poi, con gesto fulmineo, riuscì a disarmarlo e ad impossessarsi del suo stocco.
 «Ora posso dire di riuscire a batterti ad occhi chiusi» ridacchiò lei.
«Quando hai imparato a fare una cosa del genere?» domandò lui sbalordito.
  «È un po’ che mi alleno per affinare l’udito, è la prima volta che lo metto in pratica e devo dire che non è andato per niente male!» esclamò lei contenta passandogli la spada.
«Sono sbalordito, migliori di giorno in giorno… prima o dopo dovrai dirmi come fai.»
  I due ritornarono nella sala principale, si salutarono e  andarono ognuno nei loro spogliatoi. Clelia si fece una doccia, era da sola e nessun genere di rumore, solo il silenzio e il leggero fruscio della doccia che le rammentava quel sogno così realistico, la pura che aveva provato e la sensazione del fuoco che le lambiva la pelle.  Quando si stava rivestendo, Emilia e Giselle stavano facendo ritorno dai loro allenamenti.
 «Clelia, ti stava cercando tu zio» le disse la bionda.
«Sì, ha detto di dirti che è urgente» continuò la rossa.
 «Grazie, ci vado subito.»
Corse per le scale e trovò lo zio nel suo ufficio, intento a firmare carte e rinnovare passaporti per tutti i ragazzi della base. Il suo era uno studio piccolo, con una grande libreria dove anche solo un libro in più l’avrebbe sfondata; la scrivania era ampia, ma piena di chincaglierie e fogli volanti, il volto dello zio era illuminato solo da un vecchio lume ad olio, che risaltava la sua bruttissima cicatrice. Lui non le aveva mai detto come se l’era procurata, si rifiutava di dirglielo o si teneva sul vago. Un proiettile, diceva, ma come poteva un proiettile sfregiargli il volto in quella maniera? I medici erano in grado di estrarli senza troppi danni.
 «Mi hai fatta chiamare zio?» domandò lei tossicchiando per attirare la sua attenzione.
Alzò lo sguardo dai suoi documenti e tolse gli occhiali da lettura: «sì, è necessario che tu parta subito per Venezia.»
  «Come, ora? Non posso partire domattina presto?»
«No.»
  «Perché no? Non vedo dove sia il problema.»
«Ehm… è questione di tempistiche tigre, devo accompagnare Emi e Tommaso all’aeroporto .»
 «E che centra? Io a Venezia ci sarei andata comunque da sola, ho la moto parcheggiata dietro il duomo.»
«Allora non ti sarà un problema partire questa notte.»
  «Ma…»
«Nessun “ma” Clelia, devi sottostare ai miei ordini, come tutti qui. Io sono il Gran Maestro, tu sei ancora un’allieva e non puoi permetterti di fare di testa tua, anche se sei mia nipote e la mia miglior combattente.»
  «Come vuoi» rispose atona «vado a fare le valigie allora» fece per uscire dallo studio, ma suo zio le fece cenno di fermarsi. «Che altro c’è Maestro?»
«Porta questi con te, la zia mi ha pregato di darteli.» Le porse un sacchetto pieno di vestiti, tra cui uno che sembrava l’abito di una principessa. «Ci sarà il carnevale a Venezia, puoi usare quel vestito per mescolarti tra la folla... è importante sapersi mimetizzare.»
 «Sembra quasi che tu non mi abbia addestrata, zio, so perfettamente come muovermi.»
«Sì, hai ragione, ultimamente ti do poca fiducia.»
  «Ringrazia la zia da parte mia, io vado a prepararmi.»
Uscì dall’ufficio in silenzio e si diresse ai dormitori. Molti dei ragazzi che diventavano Cavalieri erano orfani e molti venivano iniziati fin da piccoli, come Shane. Le camere erano occupate solitamente dai più giovani, ma anche i membri anziani avevano i loro dormitori personali ed erano per lo più stanze singole e dall’ampiezza maggiore. Clelia risalì le scale e ritornò nel duomo, entrò nel chiostro e guardò le stelle  che brillavano fulgide nel cielo color cobalto, mentre la luna illuminava il pozzo al centro del giardino. Attraversò il resto del chiostro e si diresse negli alloggi del clero; una volta davanti alla mensa guardò la statua marmorea dell’arcangelo Gabriele, essa indicava una piccola fessura impenetrabile per un essere umano. Clelia piegò l’indice della statua e il muro dove c’era la piccola fessura si schiuse, lasciando spazio ad un lungo corridoio. Prese la chiave della sua stanza dal quadro e si diresse velocemente verso di essa. Quando aprì la porta tutto era rimasto esattamente come lo aveva lasciato prima di partire per la missione precedente: il letto disfatto, la scrivania in disordine, le armi per terra e le ante dell’armadio aperte.
 «Ho lasciato un po’ di casino…» si disse.
Prese un borsone e cercò di farci stare tutti i vestiti e gli armamenti, quelli piccoli li nascose nelle tasche interne della giacca di pelle. Si mise i pantaloni militari e legò alla cintura una frusta, un paio di pistole e legò un pugnale nel sostegno legato alla coscia. Legò stretti gli anfibi neri e vi nascose la cerbottana, i dardi e i pugnali da lancio erano sicuri della sua giacca… era pronta ad essere scambiata per una macchina da guerra. I vestiti da militare spesso e volentieri eludevano i sospetti e i documenti finti li confermavano, era facile per i Cavalieri mescolarsi fra la gente. Guardò il vestito che la zia le aveva cucito per il carnevale, era un bell’abito nulla da dire, ma come cavolo avrebbe potuto combattere? Lei aveva sempre una soluzione e uno stupido abito non l’avrebbe certo fermata, o intimorita. Lo sistemò nella sacca e uscì una volta per tutte dal duomo con il bagaglio sulle spalle, lo sistemò nel bauletto e mise in moto. Il motore rombò con forza e partì velocemente per Venezia.

 
   
 
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