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Autore: SenseAndSensibility    15/09/2008    1 recensioni
«L'atmosfera è densa e scura come fumo nella Parigi che dall'alto non si vede. Frammenti di passato cristallizzati in aria, fantasmi e anime illustri che vagano di luce in luce.
Quale particella è di nebbia, quale di anima? Tutto sembra confondersi nel grigio della notte parigina.
Notte di teatro spettrale, di riunioni, di libri, di lumi a olio. Notte di anime in decadenza e di profumo di cucina.»
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Che cosa si nasconde nelle profondità oscure della città dei fiori?
Siamo sicuri che Parigi sia abitata solo da uomini?
..O forse qualcuno nell'ombra reclama attenzione da troppo tempo?
»Un racconto che è quasi un mosaico, dove ognuno ci parla della sua storia. Una raccolta di capitoli a sé stanti, collegati dal tema di una rappresentazione teatrale..alquanto particolare.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note iniziali: Ed eccomi di nuovo! Questo è il terzo capitolo di questa mia storia un po' sconnessa. Prima di cominciare, un breve appunto. Grazie, davvero, grazie a tutti coloro che hanno commentato questa storia, che l'hanno inserita tra i preferiti, o che l'hanno semplicemente letta! Sono così felice!
Scusate l'attesa per questo capitolo, ma ho avuto qualche problema, e di conseguenza l'ispirazione è venuta a mancare. Ma ora eccolo, e spero vi piaccia.
A presto!

Capitolo 3. Les Amants.


Diamo ancora uno sguardo all'aria luminosa del teatro. Colette ha terminato il suo racconto: il primo fiore di questa notte è sbocciato, al suono di arpe e violini, è sbocciato nel verde delle foglie dei meli, nel velo di tristezza dorata che copre Parigi.
Colette si inchina al suo fatuo pubblico, facendo tremare l'aria intorno a sè di particelle argentate e fiamme aranciate di candela, e si allontana. Timida e oscura come era arrivata, le mani nascoste dai pizzi del vestito, gli sfregi rivelatori occultati nel broccato. Porta il pesante fardello di un amore ebbro di morte per il resto dell'eternità, ma i suoi tagli, profondi fino al cuore, quelli li può vedere solo Parigi. E se ne va, folle nella sua semplicità, e tanto, tanto semplice nella sua follia.

Il palco polveroso attende quindi nuove parole, nuove musiche, nuovi profumi. Ancora amore, ancora nebbia, ancora perle, notte e argento.
Anne e Maximilien sono pronti ad offrirglieli. Sono pronti ad offrire a Parigi, alla sua anima traboccante e vischiosa, ogni cosa. Prima fu il loro amore, poi la loro vita. E adesso, la loro storia.

Una piccola ragazza si fa avanti, scivolando sulle assi del piccolo palco di periferia. E' Anne, gli occhi brillanti, i gesti veloci, i capelli nerissimi. Il suo sguardo sporge sull'infinito, contempla un mondo di reliquie, di gioielli, una stagione verde rame. Contempla un mondo di pietra, di erba che cresce sulle tombe, un mondo di cuori appoggiati su una bara, misterioso, ambiguo e oscuro come lo era stata la vita, polveroso, sghembo, scintillante come l'oro sotto la fuliggine come era stato l'amore.
Contempla il mondo dall'alto, osservando le guglie, le cupole, i tetti della vita con una sorta di inquieto distacco, creando, illuminando, distruggendo la città immaginaria nata dalle corde del suo cuore.
Dietro di lei di solo pochi passi, c'è Maximilien. Il volto attento di timida concentrazione, le mani intrecciate alla ricerca di un contatto di un argenteo fulgore, gli occhi ambrati, di caramello e miele, fissi sulla ragazza. Incontrata un giorno, baciata un attimo, amata per sempre.
Ancora la notte freme e la luce della luna trema nell'attesa di una memoria, bianchi ventagli del ricordo sollevano l'aria del tempo, diradano la nebbia.
Ed ecco apparire dalla foschia lunare le forme ancora indistinte di una giornata d'acqua, di tombe e di erba verde. Erba soffice e leggera sotto i piedi di una ragazza inseguita da un ricordo, alla ricerca di un'ombra e dello scintillare dell'oro in mezzo alla danza delle nuvole su Parigi.

"Ricordi come pioveva, quel giorno, Maximilien? Il cielo lasciava cadere su Parigi le sue lacrime con l'impeto di una madre disperata. E l'acqua scivolava nelle fessure, nei canali, picchiettava sul fiume lento, sollevava e acuiva gli odori della città, mentre, allo stesso tempo, la nascondeva alla vista dietro una cortina argentea, scintillante di piccoli fuochi freddi.
Ed ecco tutto quello che rimaneva della grande Parigi, barocca, stramba e decadente alla luce dei suoi lumi sempiterni. Solo... un odore.
Mi sembrava di dissolvermi ad ogni passo che compivo nella foschia piovosa, di lasciare che la me stessa che camminava tra i vicoli di pietra si trasformasse in odore, un profumo di quelli che un giorno ti sfiorano i pensieri con un tocco fugace, da catturare, nella certezza che no, non tornano più.

Quel giorno era insolitamente privo di avvenimenti per me. Niente scuola, nessun incontro, nessun appuntamento e niente cibo in frigo. Solo pioggia, tanta pioggia, e un indefinibile sentore di burro e di miele che aleggiava nelle strade, come se, nelle profondità della città, un negozio di caramelle polveroso lavorasse a pieno ritmo, per spandere nell’aria molecole di infinita dolcezza.
Camminavo per dare almeno alle mie gambe qualcosa da fare, l’orlo dei jeans completamente inzuppato di acqua gelida, i capelli gocciolanti, le labbra violacee e screpolate.
Non ero certo nella mia forma migliore, ma non ci pensai. Solo continuai a camminare, i passi decisi e la testa altrove. Chissà se dentro di me sapevo dove mi avrebbe portato quella folle camminata in riva a un baratro, sui marciapiedi sbreccati e deserti.
In ogni caso, prima ancora che mi rendessi conto che il mio viaggio era terminato, poggiai le mani alle sbarre di un cancello di ferro, gelido e scuro, e spinsi per entrare.
I miei piedi - al sicuro dall’acqua in scarpe da ginnastica che mi fornivano tutto il calore necessario - calpestarono la ghiaia bianca di un sentiero e, inspiegabilmente, sentirono freddo.

Mi guardai intorno, osservai il paesaggio che emergeva lentamente dalla foschia umida, e rabbrividii. Lapidi di pietra scheggiata dal tempo, lavate dalla pioggia, stavano immobili sui tappeti d'erba fresca, piccoli monticelli funerei. Non avevo paura di un cimitero. Anzi, passeggiarvi, lasciare fiori e rivolgere un pensiero a tombe e anime sconosciute, era per me preziosa fonte di pace, nelle giornate frenetiche e ansiose.
Ma questo... era così diverso. Tanti piccoli lumi rilucevano fiochi nella nebbia d'argento. Piccole candele ornavano gli altari nascosti dall'ombra bagnata dei cipressi, ragnatele sottili di filo di cristallo si tendevano tra le urne, e i rami scheletrici del sambuco seguivano l'inclinazione delle lapidi erose dall'acqua. Bianche infiorescenze ornavano dipinti scoloriti dal tempo, e sotto la ghiaia bianca luccicava il nero della terra dei morti. Statue di marmo, mai stanche, immobili tendevano le braccia in alto, implorando il perdono dei silenziosi cieli mossi dal vento.

Sai Maximilien? Sulle prime pensai che tu fossi una statua. Seduto su una lapide, lo sguardo rivolto all'alto, le mani intrecciate proprio come le stai tenendo ora. E invece, quando mi avvicinai facendo scricchiolare sotto i miei piedi la ghiaia del sentiero con il suono tintinnante di mille campanelle di tomba, volgesti lo sguardo e, nelle labbra un impercettibile sorriso, mi osservasti.
Non mi squadrasti, e neppure scrutasti nella mi anima o qualcosa di simile. Semplicemente mi guardasti, mi tendesti la mano, e facesti sì che io mi sedessi accanto a te, sulla lapide grigia, tormentata nell’eternità dagli avvolgimenti ansiosi di edera e rami di sambuco.
Facesti sì che io mi sedessi ad osservare il cielo gonfio di pioggia, in attesa di redenzione, accanto a te incurante delle gocce che si impigliavano nelle tue ciglia, distorcendoti la visuale e rendendo il mondo un unico globo acquoso, dai contorni indefiniti.

Ecco come passammo la nostra prima -e ultima- giornata insieme. Seduti in bilico su di una pietra, l’odore di terra, erba e fumo di candela che si mescolava a quello del miele, dolce come il peccato e tagliente come una lama.

Quando il buio cominciò ad allargare la sua mano intrisa di stelle sopra la città, ci alzammo. Leggermente intorpiditi, completamente bagnati. I nostri corpi erano così freddi...
Non c’era stato bisogno di parole, durante quelle ore di acqua, e non ce ne fu bisogno neppure in quel momento. Non sapevo neppure come ti chiamassi, chi tu fossi, o quanti anni avessi, ma ti seguii, persa nelle profondità di zucchero dei tuoi occhi. Ancora una volta la città e i suoi profumi fecero da sfondo al mio cammino, adesso non più solitario.
Oh, la mia Parigi! Eterno fondale della mia vita, sempre nei miei occhi, nelle mie orecchie, nella mia testa. Si, è assolutamente impossibile liberarsi di questa città. Ti cattura con i suoi artigli imbevuti di miele, ti tormenta dolcemente nelle sere fresche al suono della vita, ti spinge a danzare in cerchio ammaliata dall’odore di incenso dei luoghi sacri che si mischia a quello profano del cibo in tutte le sue forme e qualità. Tende a righe, tovaglie a scacchi, candele dei cafè, angoli sbreccati e panni stesi... Ogni singola particella di Parigi ti seduce senza pietà alcuna.

Avanzando lentamente tra le vie deserte, in strano contrasto con i negozi scintillanti di vita e di calore, riflettevo, senza accorgermi che la mia personalissima ode alla città si andava trasformando in amore incondizionato per quel ragazzo sconosciuto, che Parigi mi aveva offerto su un piatto d’argento.
Arrivammo piano al mio appartamento. Mi accorsi senza il necessario stupore che mi ci avevi portato tu. Dunque conoscevi già ogni crepa dell’intonaco di questa mia modesta casa, ogni suo rumore notturno, ogni odore di tiepido dei miei maldestri - ma sentiti -pranzi in cucina. Mi aspettavi, Maximilien?

Ancora una volta lasciai che tu mi guidassi in quella serata, ancora una volta senza parole, solo con l’ombra del sorriso, lo stesso che mi lasciasti sulla pelle e nell’anima.
Ancora bagnati, i nostri capelli che gocciolavano sulla modesta moquette che copriva il pavimento, ci baciammo a lungo, e sì, in silenzio.
Un silenzio quasi sacro, rotto solo dal tintinnare dei vetri scossi dal vento, e dall’impercettibile rumore di fiamma dei nostri cuori.
Al ritmo dello stesso lieve rumore quella notte ci unimmo.
Infine, senza parola alcuna, al buio acquoso della notte di pioggia della città, fremente spettatrice del nostro amore, ci addormentammo.

Quella mattina, al posto tuo, sulla moquette umida, un semplice fiore e un biglietto vergato con grafia elegante.
Sulla mia tomba, il tuo cuore.”

Uscii di casa tenendo il foglio ingiallito, leggermente profumato di zucchero e cannella -non uno dei miei, sicuramente- stretto al petto.
Aveva smesso di piovere, ma il cielo era ancora grigio, umido e gonfio di lacrime non versate.
E ancora l’odore di burro e miele persisteva, invisibile ed impalpabile: aveva la stessa consistenza del chiaro di luna.
Ancora camminando senza meta, giunsi di fronte ad una piccola edicola ornata di fiori, i rami turgidi di gemme che si arrampicavano intorno ai fogli dei giornali, colorati e patinati, pieni di vita in forma scritta.

Senza curarmene troppo, gettai uno sguardo al giornale in vetrina, avvolto nel cellophane per proteggerlo dalla pioggia che la giornata avrebbe sicuramente riservato.

La sua foto, un nome -Maximilien Dumas- e due date. Una di nascita, e una di morte.
Aveva 19 anni, come me.
Aveva 19 anni, e di più non ne avrebbe avuti mai.
E un incidente, una strada bagnata, alcune rose sparse sull’asfalto e poche parole su carta erano tutto ciò che rimaneva di lui.

Maximilien, quel giorno sei morto, mentre venivi a trovarmi, portandomi i fiori e la colazione.
Quel giorno sei morto, lasciandomi quel biglietto -eterno mistero cittadino il modo in cui mi sia arrivato- scivolato in una pozzanghera quando le mie mani intorpidite si sono aperte dallo stupore.

Quel giorno tu sei morto, e sono morta anch’io, dissolvendo il mio dolore nell’aria della mia amata città.
Anch’io, adesso, sono fiore e odore.

Una folle corsa verso l’ospedale, la promessa strappata per disperazione ad un amico chirurgo, un altro biglietto, con la mia grafia agitata e tremante, e una scatola intarsiata.
Ecco come un’ultima volta in vita, eseguii le tue volontà mute.
Le mie ultime parole in un sussurro.
Strappami il cuore”.

Il giorno dopo, un funerale, nella nebbia densa, vedeva protagoniste non una, ma due bare.
Una grande, sbozzata nella forma mortuaria di un uomo.
L’altra molto piccola, dalla forma di una scatolina intarsiata, poggiata sulla prima, in alto, a sinistra. Al posto del cuore.

Sulla lapide -nello stesso cimitero infiorescente in cui ci eravamo incontrati ci univamo di nuovo- un biglietto già scolorito, ripetizione variata di poche parole.
Sulla tua tomba, il mio cuore”.

Nell’aria un requiem malinconico e sognante si mescolò ad un intenso odore dolce, di miele e burro”.
  
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