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Autore: RiceGrain    16/09/2008    0 recensioni
Janine non ricorda niente del suo passato. Il terrore per una donna dai capelli rossi, l'odio per il caramello e un sogno che la perseguita sono le uniche cose rimastele di quel passato dimenticato. Ma chi è in realtà Janine?
Ambientata durante Twilight, ma con la storia principale ha poco a che fare, è più che altro un background per contestualizzare la mia storia.

Cercando di non dare peso alla sensazione di nausea alla bocca dello stomaco, presi la barretta e la gettai nel cestino. L’odore del caramello mi faceva venire da vomitare.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: Incompiuta
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Mi svegliai di soprassalto, spalancando gli occhi in preda al terrore e mi drizzai a sedere tra le coperte, lo sguardo vagante

Mi svegliai di soprassalto, spalancando gli occhi in preda al terrore e mi drizzai a sedere tra le coperte, lo sguardo vagante per la camera, sicura di trovarmi nel mezzo di un bosco ombroso.

Ma non c’era. Quello che riuscivo a vedere nell’oscurità della mia tranquilla camera erano soltanto mura, qualche vestito buttato alla rinfusa sul pavimento, e la scrivania col portatile.

Niente di più rassicurante, pensai. Quindi calmati Janine, davvero.

Mi passai una mano tra i capelli e li trovai bagnati di sudore attorno alla fronte.

Onestamente, non poteva continuare ancora per molto quella storia.

“Tesoro, magari ti aiuterebbe parlarne con qualcuno…un esperto forse…” la voce di mia madre era stata incerta quando qualche tempo prima a colazione aveva accennato l’argomento. La notte precedente mi aveva trovata accovacciata sulle mattonelle del bagno che piangevo a dirotto.

Mio padre aveva alzato lo sguardo preoccupato e mi aveva posato una mano calda sul braccio. “Non ci sarebbe niente di male Janine…magari ti aiuterebbe a capire qualcosa in più…”

A quel punto aveva lasciato cadere la conversazione. Sapeva di aver toccato un tasto dolente. Chi fossi io era un mistero per chiunque, compresa me stessa.

Il mio primo ricordo risaliva all’età di 5 anni, ed era il viso di mia madre bello e sorridente che mi guardava e mi prendeva in braccio.

Prima di ciò non c’era niente.

Un po’ troppo recente come primissimo ricordo in assoluto. Voglio dire, non avevo nemmeno flash o sprazzi di ricordi degli anni precedenti. Solo oscurità. Come se fossi stata nascosta nel buio e all’improvviso qualcuno avesse acceso la luce.

Il fatto è che io sono stata adottata e quindi la spiegazione più plausibile era che prima che qualcuno mi portasse all’orfanotrofio di Seattle e i Leaving mi prendessero con sé, io abbia subito una qualche specie di trauma che abbia spento la luce su quella primissima parte della mia vita. L’unica cosa che mi era rimasta erano i sogni. E di quelli ne avrei fatto volentieri a meno.

Non succedevano spesso per fortuna, e nemmeno con una qualche logica. Non c’erano ricorrenze particolari, o stati d’animo ben precisi che mi portavano a farli…semplicemente a volte capitavano.

Non riuscivo a spiegarmi il perché di quei sogni perché apparentemente erano senza motivo. C’era un bosco, o forse un giardino, ed io che mi trovavo a correre per scappare da qualcosa di indefinito e poi c’era lei…

E lì in genere mi svegliavo urlando.

Comunque stavo cominciando a migliorare. Non avevo neanche urlato adesso, limitandomi a squadrare l’oscurità circostante.

C’erano state volte, quando ero piccola, che non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine della donna dai capelli rossi che mi arrivava alle spalle e mia madre doveva tenermi la mano per tutta la notte e accarezzarmi i capelli perché riuscissi a tranquillizzarmi.

Forse è davvero il caso che vada da uno strizzacervelli. Mi alzai dal letto e scesi in cucina a prendere un bicchier d’acqua.

La casa era silenziosa e l’unico rumore che si sentiva era quello della pioggia fine che batteva sui vetri delle finestre. Un rumore in qualche modo confortante, che sapeva di casa.

Arrivai in cucina e preso un bicchiere aprii il rubinetto dell’acqua corrente. Lo sguardo mi cadde su una barretta mangiucchiata di “Caramello”, lo snack preferito di mio padre, che si era dimenticato sul ripiano della cucina. Cercando di non dare peso alla sensazione di nausea alla bocca dello stomaco, presi la barretta e la gettai nel cestino.

L’odore del caramello mi faceva venire da vomitare.

 

***

 

“Non hai fame?” alzai gli occhi dal mio piatto stracolmo e li rivolsi in quelli di Chenille.

Presi a rimestare svogliatamente nel mio purè. “No, oggi non ho appetito”

Il volto di Dan, accanto a me,  si illuminò. “Dai qua!” afferrò il mio piatto e inizio a svuotarne il contenuto nel proprio.

“Sei proprio un animale” esclamò Chenille schifata e io accennai un sorriso.

Quel giorno mi riusciva difficile dimostrare sentimenti allegri.

Credevo di averci fatto la pelle ormai, ma ogni volta che l’incubo tornava a perseguitarmi, passavo una giornata da schifo. Non tanto per il terrore provato durante il sonno, piuttosto per la frustrazione di non capire perché e la consapevolezza di non arrivare mai a scoprirlo.

“Problemi notturni?” mi chiese Libby, guardandomi preoccupata. Come al solito, lei capiva sempre.

Annuii vagamente e ricambiai il suo sguardo.

Nei suoi occhi scuri era evidente la preoccupazione. Cercai di ricambiare con uno sguardo altrettanto lampante, cercando di farle capire che non era importante, ma purtroppo i miei sguardi non sono mai stati troppo ciarlieri.

“Ti va di parlarne?” continuò lei, il cui tono preoccupato era la perfetta eco del suo sguardo.

Corrucciai le sopracciglia per tentare di sminuire la cosa “No, non c’è niente da dire. Solita storia…brutto sogno, risveglio brusco, mal di testa, non ho appetito.”

Capii che Libby non avrebbe lasciato perdere dal modo in cui annuì. Libby non lasciava mai perdere. Rientrava nelle sue mansioni di migliore amica non lasciare mai perdere. L’adoravo per questo, ma alcune volte avrei preferito solo essere lasciata stare.

Questo non potevo certo dirglielo però. Se talvolta mi comportavo da stronza bisbetica, non era certo colpa di Libby, che cercava invece di comportarsi nel miglior modo possibile nei miei confronti.

Quando andavamo alle elementari non era stato facile avere amici per me. Non che avessi qualcosa di strano, o fossi diversa, ma semplicemente gli altri bambini preferivano evitarmi. Solo Libby, aveva iniziato a sedersi vicino a me, a cominciare a chiedermi cose, a prestarmi le penne e fu così tanto ardita da propormi di entrare a far parte della sua societa segreta, che aveva il proprio covo nella soffitta di casa sua.

Anche se adesso non avevamo più 10 anni e le storie di fantasmi avevano perso gran parte del loro fascino, lasciando il posto alle confidenze di due adolescenti, la sua soffitta era ancora il posto dove ci andavamo a nascondere, quando tutto il resto del mondo faceva schifo. Libby è la classica persona che ti fa credere che le favole siano vere.  Era così quando avevamo 10 anni, ed era così quando ne avevamo 17.

Tra le due è sempre stata lei quella astratta, quella che si inventava le storie più fantasiose, io quella con i piedi ben piantati a terra.

“Hey gente…che facciamo questo week-end?” il tono esuberante di Chenille, riportò l’umore della tavolata a un livello accettabile.

Persino io trovai la forza di sorridere con più entusiasmo.

“Cinema?” propose Mark.

“Ah, ma per favore Stone…non riesci proprio a concepire l’idea di divertimento?” Dan gli dette una pacca scherzosa sulla spalla, mentre noi scoppiammo a ridere.

“Gita a LaPush?” fece Libby. Probabilmente non vedeva l’ora di ritrovarsi in riva all’oceano per trovare nuovi spunti appassionanti al romanzo sui pirati che stava scrivendo.

Stavolta fu il turno di Chenille di storcere la bocca.

“No, direi di no Libby…hai visto le previsioni?”

“Sì che le ho viste! Il vento che urla forte, le onde che si infrangono poderose sugli scogli, la pioggia che picchietta la sabbia, il fragore dei tuoni…” a questo punto del suo discorso, Libby aveva gli occhi che brillavano.

“Libby…magari un’altra volta, d’accordo?” Chenille stava già immaginandosi in riva all’oceano in mezzo ad una pioggia torrenziale, i capelli liscissimi in condizioni disastrose.

Improvvisamente, la mia attenzione fu catturata da due ragazze che si sedevano nel tavolo accanto al nostro.

Una era mia compagna di classe a Letteratura Inglese…Jessica Stanley, la tappetta ricciolona e pettegola; l’altra non l’avevo mai vista prima.

“Avete visto? E’ quella Isabella Swan!” Dan indicò con la testa la ragazza sconosciuta. “Era nella mia classe di inglese. Yorkie c’ha pure provato!” e scoppiò a ridere scuotendo la testa “Sfigato…”

“Sinceramente non mi pare un granchè…” commentò Chenille guardandola di sottecchi.

“Tutto questo casino per una normalissima ragazza…voglio dire, sono mesi che non si sente parlare d’altro. Sinceramente mi aspettavo che fosse almeno abbronzata…”

“…o bionda!” si inserì Mark, unendosi alla contemplazione della nuova arrivata.

“Esatto!” Chenille sembrò infervorarsi ancora di più nella sua discussione contro Isabella Swan, incoraggiata dal supporto di Mark.

“Non doveva venire da Phoenix?”

Ascoltai a malapena il resto dei commenti dei miei amici sulla nuova ragazza, lasciandoli come mormorio di sottofondo.

A me onestamente, Isabella Swan piaceva.

Ovviamente non era a proprio agio seduta a tavola con quei sette imbecilli degli amici della Stanley, si capiva lontano un chilometro.

Teneva lo sguardo basso e sorrideva quando qualcuno le rivolgeva la parola, sicuramente per cortesia più che per vero desiderio di sorridere.

Per una cosa dovevo concordare con Chenille…non aveva certo l’aspetto di una della “valle del sole”, con quella pelle color avorio e i capelli lunghi e scuri, ma tutto quell’insieme di cose mi piaceva.

Magari saremmo diventate amiche, chi poteva dirlo.

“Oddio che darei per sapermi muovere come Alice Cullen” esclamò ad un tratto Libby, facendomi distogliere lo sguardo dal tavolo affianco.

“Sembra che balli una musica tutta sua” continuò ed io guardai nella sua direzione, giusto in tempo per scorgere Alice che spariva dalla porta secondaria della mensa.

Libby aveva una teoria su Alice e il resto dei Cullen.

Per lei erano alieni.

In genere scherzavo sopra alle sue teorie fantasiose e sconclusionate. Libby vedeva il mistero e il soprannaturale dappertutto.

Tuttavia, su quella teoria in particolare non riuscivo a fare dell’ironia troppo pesante.

 I Cullen erano davvero strani.

Si erano trasferiti due anni prima dall’Alaska e attorno a loro c’era sempre stato un alone particolare, una sorta di campo magnetico negativo che portava chiunque ad allontanarsi.

Un po’ come ero io da piccola.

“A me non sembra così eccezionale…” Chenille riciclò il commento fatto poco prima su Isabella.

“Chenille, onestamente il tuo parere non conta. Per te non esistono ragazze carine all’infuori di te stessa” mi ritrovai a dire, prima che il mio cervello capisse effettivamente cosa stava facendo.

Subito me ne pentii quando mi accorsi del suo sguardo inceneritore, ma ormai il danno era fatto e comunque a Chenille le arrabbiature passavano presto. Mi avrebbe tenuto il muso forse per tutta l’ora successiva.

Non rimasi sopresa quando Mark e Dan non trovarono niente da obiettare al nostro battibecco.

Era evidente che a loro Alice piaceva, voglio dire…a chi non sarebbe piaciuta la sua bellezza devastante? In ogni caso nessuno di loro aveva mai fatto commenti troppo espliciti su nessuno dei Cullen.

Come se quei cinque non facessero veramente parte della scuola e fossero semplicemente un’entità a se’ stante.

Per nessuno i Cullen erano fonte di battute o scherzi.

Per qualche strana ragione la gente preferiva ignorarli.

   
 
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