Mi svegliai di
soprassalto, spalancando gli occhi in preda al terrore e mi drizzai a sedere
tra le coperte, lo sguardo vagante per la camera, sicura di trovarmi nel mezzo
di un bosco ombroso.
Ma non c’era. Quello che
riuscivo a vedere nell’oscurità della mia tranquilla camera erano soltanto
mura, qualche vestito buttato alla rinfusa sul pavimento, e la scrivania col
portatile.
Niente di più
rassicurante, pensai. Quindi calmati Janine, davvero.
Mi passai una mano tra i
capelli e li trovai bagnati di sudore attorno alla fronte.
Onestamente, non poteva continuare ancora per molto
quella storia.
“Tesoro, magari ti
aiuterebbe parlarne con qualcuno…un esperto forse…” la voce di mia madre era
stata incerta quando qualche tempo prima a colazione aveva accennato l’argomento.
La notte precedente mi aveva trovata accovacciata sulle mattonelle del bagno
che piangevo a dirotto.
Mio padre aveva alzato lo sguardo preoccupato e mi
aveva posato una mano calda sul braccio. “Non ci sarebbe niente di male
Janine…magari ti aiuterebbe a capire qualcosa in più…”
A quel punto aveva
lasciato cadere la conversazione. Sapeva di aver toccato un tasto dolente. Chi
fossi io era un mistero per chiunque, compresa me stessa.
Il mio primo ricordo
risaliva all’età di 5 anni, ed era il viso di mia madre bello e sorridente che
mi guardava e mi prendeva in braccio.
Prima di ciò non c’era
niente.
Un po’ troppo recente
come primissimo ricordo in assoluto. Voglio dire, non avevo nemmeno flash o
sprazzi di ricordi degli anni precedenti. Solo oscurità. Come se fossi stata
nascosta nel buio e all’improvviso qualcuno avesse acceso la luce.
Il fatto è che io sono
stata adottata e quindi la spiegazione più plausibile era che prima che
qualcuno mi portasse all’orfanotrofio di Seattle e i Leaving mi prendessero con
sé, io abbia subito una qualche specie di trauma che abbia spento la luce su
quella primissima parte della mia vita. L’unica cosa che mi era rimasta erano i
sogni. E di quelli ne avrei fatto volentieri a meno.
Non succedevano spesso
per fortuna, e nemmeno con una qualche logica. Non c’erano ricorrenze
particolari, o stati d’animo ben precisi che mi portavano a farli…semplicemente
a volte capitavano.
Non riuscivo a spiegarmi
il perché di quei sogni perché apparentemente erano senza motivo. C’era un bosco,
o forse un giardino, ed io che mi trovavo a correre per scappare da qualcosa di
indefinito e poi c’era lei…
E lì in genere mi
svegliavo urlando.
Comunque stavo
cominciando a migliorare. Non avevo neanche urlato adesso, limitandomi a
squadrare l’oscurità circostante.
C’erano state volte,
quando ero piccola, che non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine della
donna dai capelli rossi che mi arrivava alle spalle e mia madre doveva tenermi
la mano per tutta la notte e accarezzarmi i capelli perché riuscissi a
tranquillizzarmi.
Forse è davvero il caso
che vada da uno strizzacervelli. Mi alzai dal letto e
scesi in cucina a prendere un bicchier d’acqua.
La casa era silenziosa e
l’unico rumore che si sentiva era quello della pioggia fine che batteva sui vetri
delle finestre. Un rumore in qualche modo confortante, che sapeva di casa.
Arrivai in cucina e preso
un bicchiere aprii il rubinetto dell’acqua corrente. Lo sguardo mi cadde su una
barretta mangiucchiata di “Caramello”, lo snack preferito di mio padre, che si
era dimenticato sul ripiano della cucina. Cercando di non dare peso alla
sensazione di nausea alla bocca dello stomaco, presi la barretta e la gettai
nel cestino.
L’odore del caramello mi
faceva venire da vomitare.
***
“Non hai fame?” alzai gli occhi dal mio piatto
stracolmo e li rivolsi in quelli di Chenille.
Presi a rimestare svogliatamente nel mio purè. “No,
oggi non ho appetito”
Il volto di Dan, accanto a me, si illuminò. “Dai qua!” afferrò il mio
piatto e inizio a svuotarne il contenuto nel proprio.
“Sei proprio un animale” esclamò Chenille schifata e
io accennai un sorriso.
Quel giorno mi riusciva difficile dimostrare
sentimenti allegri.
Credevo di averci fatto la pelle ormai, ma ogni
volta che l’incubo tornava a perseguitarmi, passavo una giornata da schifo. Non
tanto per il terrore provato durante il sonno, piuttosto per la frustrazione di
non capire perché e la consapevolezza di non arrivare mai a scoprirlo.
“Problemi notturni?” mi chiese Libby, guardandomi
preoccupata. Come al solito, lei capiva sempre.
Annuii vagamente e ricambiai il suo sguardo.
Nei suoi occhi scuri era evidente la preoccupazione.
Cercai di ricambiare con uno sguardo altrettanto lampante, cercando di farle
capire che non era importante, ma purtroppo i miei sguardi non sono mai stati
troppo ciarlieri.
“Ti va di parlarne?” continuò lei, il cui tono
preoccupato era la perfetta eco del suo sguardo.
Corrucciai le sopracciglia per tentare di sminuire
la cosa “No, non c’è niente da dire. Solita storia…brutto sogno, risveglio brusco,
mal di testa, non ho appetito.”
Capii che Libby non avrebbe lasciato perdere dal
modo in cui annuì. Libby non lasciava mai perdere. Rientrava nelle sue mansioni
di migliore amica non lasciare mai perdere. L’adoravo per questo, ma alcune
volte avrei preferito solo essere lasciata stare.
Questo non potevo certo dirglielo però. Se talvolta
mi comportavo da stronza bisbetica, non era certo colpa di Libby, che cercava
invece di comportarsi nel miglior modo possibile nei miei confronti.
Quando andavamo alle elementari non era stato facile
avere amici per me. Non che avessi qualcosa di strano, o fossi diversa, ma
semplicemente gli altri bambini preferivano evitarmi. Solo Libby, aveva
iniziato a sedersi vicino a me, a cominciare a chiedermi cose, a prestarmi le
penne e fu così tanto ardita da propormi di entrare a far parte della sua
societa segreta, che aveva il proprio covo nella soffitta di casa sua.
Anche se adesso non avevamo più 10 anni e le storie
di fantasmi avevano perso gran parte del loro fascino, lasciando il posto alle
confidenze di due adolescenti, la sua soffitta era ancora il posto dove ci
andavamo a nascondere, quando tutto il resto del mondo faceva schifo. Libby è
la classica persona che ti fa credere che le favole siano vere. Era così quando avevamo 10 anni, ed era così
quando ne avevamo 17.
Tra le due è sempre stata lei quella astratta,
quella che si inventava le storie più fantasiose, io quella con i piedi ben
piantati a terra.
“Hey gente…che facciamo questo week-end?” il tono
esuberante di Chenille, riportò l’umore della tavolata a un livello
accettabile.
Persino io trovai la forza di sorridere con più
entusiasmo.
“Cinema?” propose Mark.
“Ah, ma per favore Stone…non riesci proprio a
concepire l’idea di divertimento?” Dan gli dette una pacca scherzosa sulla
spalla, mentre noi scoppiammo a ridere.
“Gita a LaPush?” fece Libby. Probabilmente non
vedeva l’ora di ritrovarsi in riva all’oceano per trovare nuovi spunti
appassionanti al romanzo sui pirati che stava scrivendo.
Stavolta fu il turno di Chenille di storcere la
bocca.
“No, direi di no Libby…hai visto le previsioni?”
“Sì che le ho viste! Il vento che urla forte, le
onde che si infrangono poderose sugli scogli, la pioggia che picchietta la
sabbia, il fragore dei tuoni…” a questo punto del suo discorso, Libby aveva gli
occhi che brillavano.
“Libby…magari un’altra volta, d’accordo?” Chenille
stava già immaginandosi in riva all’oceano in mezzo ad una pioggia torrenziale,
i capelli liscissimi in condizioni disastrose.
Improvvisamente, la mia attenzione fu catturata da
due ragazze che si sedevano nel tavolo accanto al nostro.
Una era mia compagna di classe a Letteratura
Inglese…Jessica Stanley, la tappetta ricciolona e pettegola; l’altra non
l’avevo mai vista prima.
“Avete visto? E’ quella Isabella Swan!” Dan indicò
con la testa la ragazza sconosciuta. “Era nella mia classe di inglese. Yorkie
c’ha pure provato!” e scoppiò a ridere scuotendo la testa “Sfigato…”
“Sinceramente non mi pare un granchè…” commentò
Chenille guardandola di sottecchi.
“Tutto questo casino per una normalissima
ragazza…voglio dire, sono mesi che non si sente parlare d’altro. Sinceramente
mi aspettavo che fosse almeno abbronzata…”
“…o bionda!” si inserì Mark, unendosi alla
contemplazione della nuova arrivata.
“Esatto!” Chenille sembrò infervorarsi ancora di più
nella sua discussione contro Isabella Swan, incoraggiata dal supporto di Mark.
“Non doveva venire da Phoenix?”
Ascoltai a malapena il resto dei commenti dei miei
amici sulla nuova ragazza, lasciandoli come mormorio di sottofondo.
A me onestamente, Isabella Swan piaceva.
Ovviamente non era a proprio agio seduta a tavola
con quei sette imbecilli degli amici della Stanley, si capiva lontano un
chilometro.
Teneva lo sguardo basso e sorrideva quando qualcuno
le rivolgeva la parola, sicuramente per cortesia più che per vero desiderio di
sorridere.
Per una cosa dovevo concordare con Chenille…non
aveva certo l’aspetto di una della “valle del sole”, con quella pelle color
avorio e i capelli lunghi e scuri, ma tutto quell’insieme di cose mi piaceva.
Magari saremmo diventate amiche, chi poteva dirlo.
“Oddio che darei per sapermi muovere come Alice
Cullen” esclamò ad un tratto Libby, facendomi distogliere lo sguardo dal tavolo
affianco.
“Sembra che balli una musica tutta sua” continuò ed
io guardai nella sua direzione, giusto in tempo per scorgere Alice che spariva
dalla porta secondaria della mensa.
Libby aveva una teoria su Alice e il resto dei
Cullen.
Per lei erano alieni.
In genere scherzavo sopra alle sue teorie fantasiose
e sconclusionate. Libby vedeva il mistero e il soprannaturale dappertutto.
Tuttavia, su quella teoria in particolare non
riuscivo a fare dell’ironia troppo pesante.
I Cullen
erano davvero strani.
Si erano trasferiti due anni prima dall’Alaska e
attorno a loro c’era sempre stato un alone particolare, una sorta di campo
magnetico negativo che portava chiunque ad allontanarsi.
Un po’ come ero io da piccola.
“A me non sembra così eccezionale…” Chenille riciclò
il commento fatto poco prima su Isabella.
“Chenille, onestamente il tuo parere non conta. Per
te non esistono ragazze carine all’infuori di te stessa” mi ritrovai a dire,
prima che il mio cervello capisse effettivamente cosa stava facendo.
Subito me ne pentii quando mi accorsi del suo
sguardo inceneritore, ma ormai il danno era fatto e comunque a Chenille le
arrabbiature passavano presto. Mi avrebbe tenuto il muso forse per tutta l’ora
successiva.
Non rimasi sopresa quando Mark e Dan non trovarono
niente da obiettare al nostro battibecco.
Era evidente che a loro Alice piaceva, voglio dire…a
chi non sarebbe piaciuta la sua bellezza devastante? In ogni caso nessuno di
loro aveva mai fatto commenti troppo espliciti su nessuno dei Cullen.
Come se quei cinque non facessero veramente parte
della scuola e fossero semplicemente un’entità a se’ stante.
Per nessuno i Cullen erano fonte di battute o scherzi.
Per
qualche strana ragione la gente preferiva ignorarli.