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Autore: ManuFury    22/08/2014    6 recensioni
"Andrà tutto bene, tesoro." Mia madre tendeva a dirmelo spesso... peccato che si sbagliasse.
Pseudo Song - Fic.
Parte Prima ~ "Vivo in una gabbia di palazzi, di quelli senza fiori sui terrazzi."
Parte Seconda ~ "Vivo in una favola tragica, dove Papà è un orco."
Parte Terza ~ "Lividi che lasciano furia e umiliazione, i vicini sentono, ma alzano il volume della televisione."
Parte Quarta ~ "Non mi parlate ancora, non vi ascolto. Altre promesse false, non le sento."
(Terza Classificata al Contest: "Petali di lacrime!" indetto da DarkElf13)
(Vincitrice del Premio Speciale: "Petali di lacrime" per la storia più commovente)

(PRIMA CLASSIFICATA al Contest: "Why are you telling me lies?" indetto da Xxthe recklessxX e giudicato da gufetta1989)
(Il Professor Emil Radislav Timofeev ha vinto l'Oscar come MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA al Contest: "Oscars EFPiani" indetto da Frandra & Co.)
(Quarta Classificata al Contest: "Child!characters Contest" indetto da gnarly)
(Quarta Classificata al Contest: "Cento giorni di introspezione, fantasia e romanticismo" indetto da WahtHadHappened e vincitrice del Premio Speciale: "Miglior storia Introspettiva")
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fratres in Armis'
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PARTE QUARTA: Non mi parlate ancora, non vi ascolto. Altre promesse false, non le sento.
 
 
Mi sistemo meglio la coperta sulle spalle e sprofondo nel calore che mi cede.
Poliziotti e altre persone in divisa fanno avanti e indietro da casa mia, sembrano tante formiche per come si muovono, ma in realtà non li vedo veramente. Lo sguardo è fisso a terra e a malapena sento brandelli dei loro discorsi, parole del tipo: “Droga. Alcool. Prostituzione. Abuso di minore. Violenza. Puttana.
Gli agenti si scambino queste parole con disgusto, senza badare a me, come se fossi invisibile ai loro occhi; vorrei che fosse così, se fossi veramente invisibile, potrei nascondermi al mondo per non dover più sentire le bugie degli adulti: i bambini non possono dirle, ma i grandi sì. Loro possono mentire sul significato di una parola, su un gesto, su un’azione che fanno, i bambini no.
Sì, vorrei essere invisibile come ora: perché non sono mai stato in mezzo a tanta gente, sentendomi però così solo.
Faccio vagare lo sguardo per il cortile, guardando l’erba schiacciata e quella pagina di giornale dove c’è la foto di Emil, che è morto prima di riuscire a mantenere la sua promessa. Penso a lui con una forte nostalgia: è stato con me solo per una sera, eppure ha fatto più di chiunque altro; quando ripenso a lui e ai suoi occhi azzurri come i miei… ho desiderato essere suo figlio, così mi avrebbe portato al suo osservatorio a vedere le stelle e nessuno dei due sarebbe stato così solo.
Gli occhi spaziano, alzandosi lentamente fino al recinto dell’orto della signora Larissa: nel caos generale parte della plastica verde è stata strappata e vedo cosa c’è all’interno, solo erbacce alte e una piccola viola dal colore inteso. Chissà perché l’anziana l’ha sempre tenuta nascosta, avrebbe potuto farla vedere a tutti, coltivarne altre e metterle sui balconi, con un po’ di colore, questi palazzi sarebbero sembrati un po’ meno una prigione.
Alzo ancora lo sguardo, ai tre scalini di pietra che portano a casa sua: la porta è aperta e lei è lì, immobile sulla soglia come una statua, a guardarmi con quei suoi occhi verdi e tristi mentre parla lentamente con un’agente. Credo che sia stata lei a chiamare la polizia quando mi ha sentito urlare di fronte alla finestra, vestito solo dei lividi che Papà mi ha lasciato addosso. Nonostante questo, non mi sento di ringraziarla, poteva chiamare prima che mi accadesse tutto questo, molto prima. Perché lei sapeva cosa succedeva a casa nostra.
Lei sapeva!
Sposto subito lo sguardo, infuriato, deluso, triste e tante altre emozioni assieme che sento premermi al centro del petto, come se volessero sfondarlo per uscire.
Con quel gesto brusco del capo mi accorgo che qualcuno si sta avvicinando. È un poliziotto, lo riconosco dalla divisa, dal distintivo in bella mostra e dalla pistola, che osservo attentamente, sembra quella che mamma teneva nel comodino, quella con cui ho giocato tante volte da piccolo. L’uomo si avvicina con calma e si siede al mio fianco, distante solo una spanna da me e sembra accorgersi del mio interesse per l’arma. Mi sorride rassicurante come faceva Emil.
“La vuoi vedere da vicino?”
Sollevo gli occhi chiari verso i suoi, che sono scuri come il buio. Scuoto la testa, so com’è fatta una pistola senza che me la debba mostrare. Lui ridacchia appena.
“Sì, forse è meglio così, sono brutte cose, le armi. – Fa una breve pausa, prima di porgermi un bicchierino di plastica dal quale, subito, sale un profumo squisito: quello di cioccolata calda appena fatta. – Vuoi? È cioccolato. L’ho preso per te.”
Le mie mani emergono dalla coperta, mostrando i lividi ora violacei che contornano i polsi come braccialetti, ora che guardo meglio, il colore dei lividi è molto simile a quello della viola nell’orto della signora Larissa. Si vedono anche le unghie rotte dalle quali non sono ancora riuscito del tutto a lavare via il sangue benché mi sia fatto due docce e abbia sfregato ogni centimetro dal mio corpo con la spugna ruvida che mamma usa per lavare i piatti, quando si ricorda di lavarli, ovviamente. Stringo avidamente le dita attorno al bicchierino, sentendo il calore e il profumo del cioccolato.
Vedo l’espressione del poliziotto cambiare leggermente a vedere i segni che ho addosso, si stupisce, credo, e si rattrista a quella visione.
Il primo sorso è il migliore: il cioccolato è bollente e sfiora le labbra secche e rotte, cancellando il sapore del sangue che avverto tutte le volte che ci passo sopra la lingua; mi entra poi in bocca e da lì mi scivola in pancia, riscaldandomi tutto il corpo.
Sospiro soddisfatto per aver assaggiato questa delizia.
“È buono?” S’informa gentilmente il poliziotto.
Io solo annuisco e prendo un secondo sorso, pensando che forse, adesso, le cose potrebbero andare un po’ meglio.
Ed è in quel momento, in cui ho ritrovato almeno in parte la calma, che portano fuori di casa la mamma: è scortata da un uomo corpulento in divisa e da una donna dai lunghi capelli scuri, raccolti in una coda di cavallo; ma al confronto con la mamma, mi pare brutta; benché mamma si sia rovinata molto con la sua medicina che, in realtà, non le faceva altro che male. La tengono per le braccia, sorreggendola quando le gambe minacciano di cederle. Mamma non si agita, si guarda attorno con occhi grandi e vuoti, come quelli di un pesce esposto su una bancarella del mercato, sembra che per lei ogni cosa sia nuova, come una bambina che per la prima volta esce di casa e scopre il mondo.
Ci vuole qualche minuto buono prima che i suoi occhi scuri e sorpresi si scontrino con i miei azzurri che trasmettono il freddo e il ghiaccio che provo dentro, per quello che ha permesso che mi facessero solo per denaro.
Mi sorride. Io non le rispondo.
“Andrà tutto bene, tesoro.” Ripete come un disco rotto, scendendo a fatica le scale, con quella sua voce a metà tra il dolce e l’impastato. Sorride ancora, come se quel gesto bastasse a lavare via tutto il male che mi è stato fatto, come se con un colpo di spugna si potresse lavare via una macchia sul pavimento.
Scuoto la testa e la guardo inespressivo.
“No, non è vero. Non parlarmi ancora, tanto non ti ascolto. Non voglio altre promesse false.” Sono le prime parole che pronuncio da parecchio tempo e sono così fredde e secche che alcuni poliziotti si voltano verso di me mentre il sorriso scompare dal viso di mia mamma. Vedo le sue labbra carnose tremare appena e gli occhi farsi di colpo presenti e lucidi, ma non per le sue medicine, sono lucidi di lacrime.
“Tesoro mio…” Sussurra così piano che mi è difficile sentirla, il suo tono è basso, lamentoso e disperato come non l’avevo mai sentito.
Per un attimo ho la sensazione che i ruoli si siano invertiti: che mia madre sia una bambina sperduta ed io un uomo adulto che prova una vena di compassione per quegli occhi grandi e spaventati. Questo pensiero mi fa uno strano effetto che non riesco a identificare come totalmente buono o totalmente cattivo. Forse… è questo il grigio, quello di cui mi ha parlato Emil quella sera, quando cercava di spiegarmi cos’era il mondo dei grandi.
“Addio.” Affermo serio, guardando mia madre per un’ultima volta, prima di girare il viso dalla parte opposta, stringendo il bicchierino con la cioccolata calda così forte da farne fuoriuscire un po’ dai bordi. La bevanda mi scivola tra le dita, bruciandole, ma non m’interessa: sento tanto freddo e tanto vuoto dentro che non avverto cosa succede attorno a me.
Sento a stento mamma che, al mio addio, si agita, si dimena e cade. La sento gridare. Urla come me prima, ma allora era troppo fuori di sé, troppo stordita dalla sua “vodka” per sentirmi.
Ed io voglio fare come ha fatto lei… ignorarla.
Grida promesse: che tutto andrà bene, che ogni cosa tornerà al proprio posto, che noi torneremo assieme, che saremo una vera famiglia; promette di cambiare vita, lavoro, abitudini. Promette di cambiare lei stessa.
Le sue parole non mi sfiorano, sono promesse false, bugie su bugie che non voglio più sentire.
Sento una mano sulla spalla e automaticamente mi ritraggo, schifato da quel contatto che mi ricorda quello di Papà, a fatica trattengo un urlo in gola.
“Calma, ragazzo, calmo. – Mi assicura il poliziotto di prima, quello seduto vicino a me. Ha alzato subito le mani al cielo, in un gesto di resa. – Guarda, non ti tocco, intesi? Non lo farà nessuno, se non vuoi.”
Annuisco piano, guardandolo; adesso credo che dovrei avere gli occhi lucidi, ma li sento stranamente asciutti.
“Molto bene. Sai, sei proprio un ragazzo coraggioso. – Mi sorride ancora, abbassando le mani. – Se te la senti, vorrei parlare con te: di quello che è successo oggi e anche gli altri giorni, starò ad ascoltare tutto quello che vorrai dirmi. Il tuo aiuto ci sarà prezioso per trovare l’uomo che ti ha fatto del male.” Parla con calma per essere certo che io capisca tutto, ma lo fa senza filtri.
Per un attimo le sue parole mi colpiscono come un pugno nello stomaco, perché sento che dovrò raccontare di nuovo tutto quello che mi è successo; avverto lo stomaco fare una piroetta e annodarsi, un conato mi fa tremare per un attimo le spalle. Poi, guardando l’uomo, mi rendo conto che tutto questo è necessario, che la paura non se ne andrà da sola se non sarò io il primo a combatterla.
E allora capisco un’altra cosa: questo poliziotto dai modi gentili non mi sta trattando come un bambino come faceva Emil, mi sta trattando da adulto; mettendomi a conoscenza del fatto che il mondo non è un bel posto, che non vivo in una favola, ma nella cruda realtà. Sento che da questo momento in poi non ci saranno più frasi del tipo: “No, sei troppo piccolo per capire. No, sei solo un bambino.” Più niente di tutto questo.
Adesso sono grande anch’io.
Perché quello che devo confessare, quello che devo raccontare non è una storia adatta a un bambino… non è una favola di quelle con il lieto fine. È una storia, ma di quelle vere.
Però, per qualche secondo, ci ripenso a quel bambino che fino a qualche sera fa si sedeva sugli scalini di casa, con il naso alzato al cielo ad ascoltare storie fantastiche e a far volare la propria fantasia. Ma allo stesso tempo mi figuro la realtà come un grosso cane rabbioso, pronto a mordere e a dilaniare quel piccolo corpo e a macchiarne il viso sorridente con il suo stesso sangue, come è successo a me con Papà; oppure vedo la realtà come un carro armato, che con un colpo solo può sgretolare tutto quello che si ha attorno: le certezze, la sicurezza di una stanza, perfino il cielo.
Penso a quel bambino: quello bravo che sorrideva, quello che si chiudeva in camera sua oppure stava pomeriggi sotto la pioggia, ad aspettare che sua madre finisse di lavorare; penso a lui e non lo trovo nel profondo della mia anima: lì ci sono solo il buio, il freddo e il silenzio.
Soprattutto il buio, reso tale dalle stelle che hanno smesso di splendere per me, che hanno smesso di proteggermi come guardine. Il freddo che avanza come sentivo Papà avanzare verso di me. E il silenzio, quello che avevo in testa mentre gridavo.
Non sono più un bambino, perché solo un uomo può raccontare la mia storia; in poche ore sono cresciuto di così tanti anni… con tutti i privilegi e i difetti che questo comporta.
“Allora, vuoi parlare con me?” Chiede ancora il poliziotto.
Annuisco con convinzione e poso il bicchierino con la cioccolata calda, non è roba da adulti, quella.
“Molto bene. Io sono Martyn e tu?”
Rimango un attimo interdetto. Io non ho un nome vero e proprio, anche se uno mi passa per la testa con forza, quello dell’unica persona che, vedendomi, ha visto un bambino e, forse, un figlio.
“Emil. Emil R. Timofeev.” Mi presento.
I bravi bambini non dicono le bugie; ma io non sono più un bambino, io sono grande e come tale ho il privilegio di poter mentire.
 
 
***
 
E…
Siamo alla fine! YEEEEEEE! :D
No, beh, ok… con la tristezza che ho infuso in questa storia non c’è proprio niente da rallegrarsi… T^T
Finalmente ho concluso questa mini long da 4 capitoli e spero proprio che qualcuno passi a recensire, mi farebbe veramente felice.
In caso contrario, ringrazio chiunque fosse giunto fino a questo punto e gli do giusto un paio di dritte.
Questo capitolo, oltre che alla canzone che ho citato nel primo capitolo, è parzialmente ispirato alla stupenda canzone cantata da Emis Killa e da Marracash: “Nel Mondo dei Grandi” dove c’è un passaggio stupendo: “Due mondi che dovrebbero stare distanti // quello dei piccoli e quello dei grandi // Mischiarli causa i peggiori danni nei migliori anni // rende piccole vittime, grandi bastardi.” Questo mi ha dato l’incipt per concludere al meglio la storia.
Se poi qualcuno se lo stesso chiedendo, sì… Tesoro, è il Maggiore Emil R. Timofeev presente in un’altra mia storia (“L’Ufficio del Maggiore Timofeev”) dove è cresciuto e si è incattivito per tutto quello che ha dovuto passare prima da bambino e poi da adolescente (ho intenzione di scrivere la storia della sua vita, in un futuro molto prossimo).
Poi… altro da dire… sì, la storia come al solito partecipa alla splendida Challenge: “La sfida dei duecento prompt” indetta da msp17 con il prompt 197) Bugie.
Mi sembrava il più appropriato.
Altro non direi… ringrazio tutti quelli che sono anche solo passati a leggere e le GiudiciE dei rispettivi Contest che mi hanno donato l’ispirazione per scrivere questa storia.
Grazie mille, sul serio!
Alla prossima,
ByeBye
 
ManuFury! ^_^
  
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