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Autore: Belinda Nero    22/08/2014    1 recensioni
C'era una volta una palude. Ed un bambino veggente. Questa è la sua macabra storia.
“Chi sei?” domandò flebilmente Vanth, rivolgendosi alla figura femminile che avanzava verso di lui senza che i piedi affondassero nel terreno divenuto lattiginoso.
“Riesci già a vedermi?” replicò lei, sorridendo: ma aveva una guancia sfregiata in putrefazione, per cui riuscì solo ad inclinare gli angoli delle labbra in un ghigno spaventoso. “Sono morta” aggiunse con la voce femminile, metallica “hai paura?”.
No, Vanth non provava paura; era stato cresciuto nella simile prospettiva che un giorno anche lui avrebbe visto e parlato ai morti."
Genere: Dark, Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dassen impiantò la pala nel duro terreno.
Aveva scelto la notte per scavare. La buca adesso era molto fonda e le narici erano impregnate dell'odore della terra umida e smossa.
La sua fronte era imperlata di sudore, così si passò il dorso di una mano sopra al viso, per arginare le gocce salate.
Sentiva i battiti del cuore rimbombargli nella cassa toracica e l'eco risuonare in un cupo rumore fino alle orecchie. La testa gli martellava forte.
Non era stato semplice trovare la tomba del padre, perché non ricordava di averne avuto uno.
In effetti una mattina si era svegliato prendendo atto di avere anche una moglie.
Si era ritrovato davanti agli occhi una donna in sovrappeso con la vista miope, il grembiule sempre infarinato e l'abitudine di mettergli le mani addosso in continue carezze ed abbracci: lo irritavano.
Le sue figlie, giovani donne sgraziate, erano in età da marito ma nessun uomo aveva avanzato nei loro confronti proposta di matrimonio, così le ragazze vivevano ancora nella casa natia.
Non ricordava nulla di loro.
Si era sentito lo stomaco bruciare e la testa vorticare. Un mostro a divorargli il cuore.
Così era scappato, sapendo che in qualche modo doveva raggiungere
la terra della veggente.
Un solo nome nella testa e non quello della moglie, ma
Queen Merleen.
Aveva bisogno di incontrare quella donna e parlarle. Sentiva che solo lei sarebbe stata in grado di dare una risposta a tutto.
Aveva usato quella consapevolezza come una bussola, percorrendo la propria strada in lungo ed in largo, alla ricerca di qualcuno che gli indicasse la via.
L'aveva trovata, rimanendo tuttavia deluso. La donna apparteneva all'aldilà, ormai.
Al suo posto il figlio di Queen Merleen. Nient'altro che un bambino. Che gli aveva domandato di procurarsi l'osso di un morto. Di un famigliare per la precisione, meglio se il padre.
Così era tornato indietro, nella terra che non sentiva propria, nella patria in cui sua moglie lo aveva atteso angosciata per la sua scomparsa, ma speranzosa di rivederlo.

Oh sia lodato il cielo, sei tornato!” aveva esclamato, per poi aggiungere “cosa? il nome di tuo padre? Oh povero Dassen, possibile che non ricordi neppure questo?”.
Voglio sapere anche dove è seppellito” aveva aggiunto l'uomo “per portargli dei fiori..”.
Non era vero, una menzogna.
La notte stessa si era avventurato fra lapidi di legno scuro, fino a trovare quella desiderata su cui era inciso “Paull Hartmen”.
Si era inginocchiato. Con gli occhi fissi al terreno, aveva appoggiato la pala affianco le proprie ginocchia.

Salve padre” lo aveva salutato parlandogli, come potesse sentirlo da là sotto “ti ricordi di me? Perdonami perché io invece non ricordo te; ma trafugherò ugualmente la tua bara”.
Agli occhi di un figlio grato, quel gesto sarebbe sembrato empio e sacrilego; ma suo padre non era che un semplice estraneo per lui, ora: quindi perché avrebbe dovuto farsi tanti scrupoli a strappargli dallo scheletro l'ulna o il femore?
Si umettò le labbra e, alla luce di una fiaccola, osservò il baratro che aveva creato: là in fondo, marcito, il legno che conservava il corpo del padre formicolava di vermi e altre disgustose creature. Si calò nella buca, avendo cura di non crepare ulteriormente la cassa con il proprio peso. Alzò il coperchio e scoprì liquame ed ossa più che sufficienti ad un incantesimo maledetto.
Avrebbe condannato il padre ad un limbo eterno? No, il veggente gli aveva giurato che quella pratica non avrebbe intaccato il suo sonno, se non per un breve momento: certo, sempre che l'osso fosse stato rimesso al suo posto, una volta ultimato il rito. Dassen non era certo si sarebbe preso un tale disturbo.
Chiuse il coperchio e, mormorando una preghiera per la pace dell'anima sua piuttosto che del morto, ricoprì della terra accumulata la cassa, fino a ricompattarcela sopra.
Qualcuno avrebbe potuto sospettare qualcosa, il giorno dopo, alla luce del sole; ma chi sarebbe mai andato a controllare la tomba di un uomo morto almeno dieci anni prima?
Dassen infilò l'ulna del padre in un sacco e se ne andò veloce.

Qualche giorno più tardi incontrava Vanth Janas.
Aveva portato con sé tutto l'occorrente: l'osso del morto, un proprio vestito e un'offerta per gli spiriti, la capretta che ora belava spaventata e che aveva faticosamente trasportato in bilico sull'imbarcazione, attraverso la palude.
L'aveva infine issata sulle spalle per salire la scaletta e raggiungere così la palafitta del veggente.
Vanth lo invitò ad avanzare e Dassen ebbe un tuffò al cuore al scorgere gli occhi bianchi dello stregone: senza anima, senza vita, ma lui sembrava presente. O quantomeno, fisicamente. Era spaventoso.

Taja” invocava “Taja”. Vanth non la scorgeva nel limbo dei morti. Tornò indietro, nel proprio corpo. In tempo per vedere che la capretta era riuscita a liberarsi dalla presa dell'uomo, scalciando furiosa.
Dassen aveva un'espressione truce e confusa a tempo stesso sul volto.

Taja?” ripetè l'uomo fra sé e sè. Conosceva quel nome.. ma a chi, a chi apparteneva? E perché percepiva un legame?
Il cuore gli batteva molto forte e non aveva tempo di badare alla capretta che zompettava in giro, sopra il legno consunto della palafitta: inavvertitamente l'animale rovesciò il contenuto di ampolle e flaconi, oltre a sgabelli, libri.
Belò forte, triste, ma Dassen non provò alcun moto di compassione: no, non l'avrebbe salvata dal crudele destino che l'attendeva.
Nella vita precedente che non gli apparteneva più, aveva avuto molta cura degli animali. Non era stato altro che un mite pastore. Con le proprie mani aveva aiutato molte pecore a partorire e salvato decine di agnelli. Aveva permesso al suo gregge di prosperare. Si era nutrito di latte e formaggio, aveva mantenuto la propria famiglia con la lana.
Ora avrebbe sacrificato una capretta a sangue freddo: era questo ciò che gli chiedeva Vanth Janas e non si sarebbe tirato indietro.
Afferrò la testa della capretta con la mano sinistra e con la destra la sgozzò sopra al pavimento stesso.
Il rito aveva inizio.
Le gambe dell'animale cedettero quasi all'istante e il corpo si accasciò su sé stesso.
Con le mani imbrattate di sangue animale, l'uomo prese l'osso del padre e lo gettò nel liquido scuro; in seguitò si taglio il palmo della mano e gettò sopra anche il proprio di sangue. Prese il vestito, gli diede fuoco e gettò anche quest'ultimo incrediente sul legno del pavimento che non bruciò insieme al tessuto.
Aveva obbedito ad ogni ordine di Vanth Janas che ora cadeva in stato di divinazione, gli occhi che diventavano bianchi.
Un fumo acre si era levato in aria. Non alimentate, le fiamme delle candele attorno crebbero da sole, guizzando in aria come lingue rapaci. Calò un freddo innaturale sulla pelle di Dassen che ebbe la percezione di udire voci tutt'intorno.. solo una sensazione?
Scosso da tremiti, Vanth Janas cominciò a fremere sulla poltrona. I movimenti divennero più forti, il suo corpo si agitò finché le sue membra sembrarono scosse da mani invisibili. Era una scena agghiacciante.
Dassen mosse qualche passo indietro, ma la voce del bambino lo raggiunse, intrappolandolo.

Non puoi più andare via” decretò il veggente “ti inseguirebbero!” ed erano parole che sapevano di maledizione. Il suo viso fine, elegante di fanciullo, ora era deformato dal ghigno sulle sue labbra.
Il suo corpo prese a scomporsi sulla poltrona.
Le finestre chiuse si spalancarono all'istante e il vento impetuoso soffiò dentro all'ambiente in cui il sangue del capretto aveva già cominciato a scomparire, assorbito dall'assetato legno del pavimento.
La casa era viva. O lo erano gli spiriti, in quel momento.
Vanth Janas si ritrovò catapultato sulla spiaggia del limbo. Al sottile confine fra vita e morte. Di nuovo e da solo.
Scrutò l'orizzonte bianco, fumoso e lattiginoso. Intravide sagome grige chiaro, muoversi al di là della barriera che lo separava dal non ritorno.
Il suo corpo era sulla poltrona. Ma lui era altrove. Il suo spirito si era levato e aveva raggiunto la dimensione dove normalmente Taja lo attendeva. Ma lei non c'era.
Tutti, lì intorno, erano in agitazione almeno quanto aveva visto lei l'ultima volta.
Sua madre l'aveva messo in guardia: rischioso muoversi nel limbo senza guida. Avrebbe dovuto obbedirle, ancora una volta; eppure sentiva un forte richiamo. Il suo destino, ne era certo, lo stava spingendo in quella direzione: a sfidare i moniti materni.
Doveva proseguire, quella era la sua strada. Avrebbe osato avventurarsi fra i morti, questa volta. Come un tempo aveva fatto Lane Eusten.
Uno spettro gli si avvicinò. Non distinse le fattezze, ma l'odore sì. In qualche modo.. famigliare..?

Dov'è la tua guida, veggente?”
Era un'anima tormentata, molto pericolosa.

Non è qui” replicò Vanth, raccogliendo la concentrazione sufficiente a mascherare l'agitazione.
E chi cerchi nel limbo, ragazzo?
Noi possiamo aiutarti”.
Il plurale non lo confuse: non era insolito che uno spettro ne facesse uso per indicare se stesso. Nell'aldilà la consapevolezza di essere stato un tutt'uno svaniva e lasciava spazio ad una pluralità di coscienze; e a volte accadeva che diverse anime si fondessero in una sola. Il principio era quello di rafforzarsi e completarsi. Quello era il caso.
Vanth Janas sapeva che doveva servirsi di quell'essere: in mancanza di Taja, poteva approfittare di un altro spettro desideroso di compiacerlo.. ma a quale prezzo? Del resto era ormai fatuo domandarselo.
Anche fosse tornato indietro, quello spirito lo avrebbe inseguito e perseguitato. Si erano fiutati a vicenda e Vanth aveva percepito una grande aura intorno allo spettro: abbastanza forte da potersi imporre come una guida per un giovane veggente.
Non c'era tempo per riflettere molto: intorno a loro si stava già radunando un coro di voci imploranti. Sentiva il collegamento con il proprio corpo farsi labile ogni minuto di più. O tornava indietro rischiando l'ira dello spettro o sarebbe presto trapassato.

Paull Hartmen”.
So dove trovarlo. Lo condurrò a te” decretò lo spettro. Non camminava. Si spostava da un punto all'altro con continue apparizioni.
In una di quelle apparizioni, Vanth fu certo di aver visto lo spettro dividersi in tre parti, prima di ricompattarsi come una goccia di mercurio. Era dunque un essere piuttosto giovane poiché faticava a rimanere perfettamente unito nelle sue triplici anime.

Quale offerta ripagherebbe la tua gentilezza?” domandò Vanth. Il bambino sapeva ormai bene che nessun spettro offriva servigi senza ottenere nulla in cambio.
A quella domanda, intorno a lui vorticarono tre emozioni contrastanti. Era lo spettro a provarle: rancore, invidia e.. compassione.

Il tuo destino” pretese il triplice essere “che sta per compiersi".
La presenza scomparve con una risata spettrale.
Vanth fu ricacciato a forza nel proprio corpo. La sensazione era quella già provata, la stessa di sempre, ma ugualmente violenta e dolorosa. I movimenti frenetici delle sue membra contorte si arrestarono. Tornò in sé.
Riaprì gli occhi che erano stati chiusi fino a quel momento, lentamente. Con la vista bianca focalizzò l'uomo che era rimasto tutto quel tempo fermo, in silenzio, la gola secca.
Qualche secondo e il bambino ebbe la percezione di un'altra anima nella stanza.

Tuo padre è fra noi, Dassen” sussurrò debolmente.
Paull Hartmen apparì nel fumo grigio che si era levato dal tessuto bruciato. Non era lontano ad assomigliare all'uomo che era stato in vita. La sua anima aveva trovato la pace del sonno eterno, non turbato più da alcun sentimento.. almeno fino a quel momento.
Paull Hartmen era stato un uomo mingherlino, dai grossi baffi neri, con occhi benevolenti e portamento fiero. Ora era circondato da un alone dorato.
Non vedeva, come del resto nessun spirito riusciva a fare. Ma sentiva. E sembrava disorientato, come da prassi. Tutti gli spiriti, se richiamati sulla terra, si sentivano spiazzati, persi.

Perdonami, gloriosa anima” si rivolse a lui Vanth Janas attraverso la propria mente. Aveva gli occhi fissi su un punto imprecisato della stanza, nonostante lo spettro fosse davanti a lui, visibile nella nube grigia.
Il veggente stregone Vanth Janas ti ha richiamato a sé. Intende interrogarti e ti prega di rispondere al suo umile appello”.
L'anima di Paull Hartmen si dimenò nella sua gabbia di fumo. “Ti ascolto” replicò ella, semplicemente.

Percepisci l'uomo qui, vicino a me? E' tuo figlio. Una disgrazia l'ha colpito e rammenta ben poco di sé stesso. E io non sono in grado di scorgere il suo passato o il suo futuro”.
Lo spettro si innervosì.

Quello non è mio figlio” replicò secco.
La sua voce, tombale, era salda e sicura: ma la udiva solo Vanth Janas. Le sue sopracciglia saettarono verso l'alto, nella fronte. Cosa? Non era suo figlio?

Non hai generato tu questo uomo?” insistette Vanth Janas.
La sua carne è carne della mia” rispose l'anima di Paull “ma chi abita il suo corpo non è mio erede”.
A quel punto, Vanth si sentì spiazzato. Perse sicurezza; ma Queen Merleen l'aveva messo in guardia abbastanza bene da sapere cosa fare. Continuare ad interrogare, scoprire in fretta e reagire.

Sai intravedere chi occupa il corpo di tuo figlio?” domandò ancora Vanth e Paull annuì.
Egli è uno spettro antico e rancoroso. Eliminalo o ti porterà alla rovina”.
Scomparve. Il fumo si dissolse. La testa di Vanth ricadde in avanti, il mento contro lo sterno nel petto. Le candele tornarono a bruciare lentamente. Il vento lasciò spazio ad una piacevole brezza. Il tessuto smise di bruciare. Tutto si arrestò.
Passò qualche istante. Immobile, Dassen aveva gli occhi sbarrati e il fiato corto. La cute pallida e il sudore ghiacciato nella schiena. Aveva.. sentito. Sì, aveva udito un morto parlare! La voce di un padre che non era il suo: “e
gli è uno spettro antico e rancoroso. Eliminalo o ti porterà alla rovina”.
Vanth riaprì gli occhi e sollevò la testa. Era intontito ma sufficientemente lucido da alzarsi in piedi, barcollando.
Ora capiva tutto. Non aveva potuto leggere la mente di quell'uomo perché non era definibile tale. Non aveva scorto ricordi, perché non ne aveva di umani. E il futuro di uno spettro in un corpo umano era precluso ai suoi acerbi poteri. L'anima originale di Dassen? Distrutta.
Era senz'altro ciò da cui Taja aveva tentato di metterlo in guardia. La fonte della grave agitazione nel limbo. Uno spettro reincarnato: era davanti a lui.
Alzò di scatto la mano destra, quella che tanti anni prima era stata tagliata dalla madre e che ora si era rimarginata in una cicatrice spessa e bianca.
Aprì le dita a ventaglio, in direzione di quell'uomo che celava in sé uno spettro dalla natura misteriosa. Mormorò parole in lingua arcaica, sconosciuta, nera.
Non abbastanza velocemente.

   
 
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