Dassen
impiantò la pala nel duro terreno.
Aveva
scelto la notte per scavare. La buca adesso era molto fonda e le
narici erano impregnate dell'odore della terra umida e smossa.
La sua
fronte era imperlata di sudore, così si passò il
dorso di una mano
sopra al viso, per arginare le gocce salate.
Sentiva
i battiti del cuore rimbombargli nella cassa toracica e l'eco
risuonare in un cupo rumore fino alle orecchie. La testa gli
martellava forte.
Non
era stato semplice trovare la tomba del padre, perché non
ricordava
di averne avuto uno.
In
effetti una mattina si era svegliato prendendo atto di avere anche
una moglie.
Si era
ritrovato davanti agli occhi una donna in sovrappeso con la vista
miope, il grembiule sempre infarinato e l'abitudine di mettergli le
mani addosso in continue carezze ed abbracci: lo irritavano.
Le sue
figlie, giovani donne sgraziate, erano in età da marito ma
nessun
uomo aveva avanzato nei loro confronti proposta di matrimonio,
così
le ragazze vivevano ancora nella casa natia.
Non
ricordava nulla di loro.
Si era
sentito lo stomaco bruciare e la testa vorticare. Un mostro a
divorargli il cuore.
Così
era scappato, sapendo che in qualche modo doveva raggiungere la
terra della veggente.
Un
solo nome nella testa e non quello della moglie, ma Queen
Merleen.
Aveva
bisogno di incontrare quella donna e parlarle. Sentiva che solo lei
sarebbe stata in grado di dare una risposta a tutto.
Aveva
usato quella consapevolezza come una bussola, percorrendo la propria
strada in lungo ed in largo, alla ricerca di qualcuno che gli
indicasse la via.
L'aveva
trovata, rimanendo tuttavia deluso. La donna apparteneva
all'aldilà,
ormai.
Al suo
posto il figlio di Queen Merleen. Nient'altro che un bambino. Che gli
aveva domandato di procurarsi l'osso di un morto. Di un famigliare
per la precisione, meglio se il padre.
Così
era tornato indietro, nella terra che non sentiva propria, nella
patria in cui sua moglie lo aveva atteso angosciata per la sua
scomparsa, ma speranzosa di rivederlo.
“Oh
sia lodato il cielo, sei tornato!” aveva esclamato, per poi
aggiungere “cosa? il nome di tuo padre? Oh povero Dassen,
possibile
che non ricordi neppure questo?”.
“Voglio
sapere anche dove è seppellito” aveva aggiunto
l'uomo “per
portargli dei fiori..”.
Non
era vero, una menzogna.
La
notte stessa si era avventurato fra lapidi di legno scuro, fino a
trovare quella desiderata su cui era inciso “Paull
Hartmen”.
Si era
inginocchiato. Con gli occhi fissi al terreno, aveva appoggiato la
pala affianco le proprie ginocchia.
“Salve
padre” lo aveva salutato parlandogli, come potesse sentirlo
da là
sotto “ti ricordi di me? Perdonami perché io
invece non ricordo
te; ma trafugherò ugualmente la tua bara”.
Agli
occhi di un figlio grato, quel gesto sarebbe sembrato empio e
sacrilego; ma suo padre non era che un semplice estraneo per lui,
ora: quindi perché avrebbe dovuto farsi tanti scrupoli a
strappargli
dallo scheletro l'ulna o il femore?
Si
umettò le labbra e, alla luce di una fiaccola,
osservò il baratro
che aveva creato: là in fondo, marcito, il legno che
conservava il
corpo del padre formicolava di vermi e altre disgustose creature. Si
calò nella buca, avendo cura di non crepare ulteriormente la
cassa
con il proprio peso. Alzò il coperchio e scoprì
liquame ed ossa più
che sufficienti ad un incantesimo maledetto.
Avrebbe
condannato il padre ad un limbo eterno? No, il veggente gli aveva
giurato che quella pratica non avrebbe intaccato il suo sonno, se non
per un breve momento: certo, sempre che l'osso fosse stato rimesso al
suo posto, una volta ultimato il rito. Dassen non era certo si
sarebbe preso un tale disturbo.
Chiuse
il coperchio e, mormorando una preghiera per la pace dell'anima sua
piuttosto che del morto, ricoprì della terra accumulata la
cassa,
fino a ricompattarcela sopra.
Qualcuno
avrebbe potuto sospettare qualcosa, il giorno dopo, alla luce del
sole; ma chi sarebbe mai andato a controllare la tomba di un uomo
morto almeno dieci anni prima?
Dassen
infilò l'ulna del padre in un sacco e se ne andò
veloce.
Qualche
giorno più tardi incontrava Vanth Janas.
Aveva
portato con sé tutto l'occorrente: l'osso del morto, un
proprio
vestito e un'offerta per gli spiriti, la capretta che ora belava
spaventata e che aveva faticosamente trasportato in bilico
sull'imbarcazione, attraverso la palude.
L'aveva
infine issata sulle spalle per salire la scaletta e raggiungere
così
la palafitta del veggente.
Vanth
lo invitò ad avanzare e Dassen ebbe un tuffò al
cuore al scorgere
gli occhi bianchi dello stregone: senza anima, senza vita, ma lui
sembrava presente. O quantomeno, fisicamente. Era spaventoso.
“Taja”
invocava “Taja”. Vanth non la scorgeva nel limbo
dei morti. Tornò
indietro, nel proprio corpo. In tempo per vedere che la capretta era
riuscita a liberarsi dalla presa dell'uomo, scalciando furiosa.
Dassen
aveva un'espressione truce e confusa a tempo stesso sul volto.
“Taja?”
ripetè l'uomo fra sé e sè. Conosceva
quel nome.. ma a chi, a chi
apparteneva? E perché percepiva un legame?
Il
cuore gli batteva molto forte e non aveva tempo di badare alla
capretta che zompettava in giro, sopra il legno consunto della
palafitta: inavvertitamente l'animale rovesciò il contenuto
di
ampolle e flaconi, oltre a sgabelli, libri.
Belò
forte, triste, ma Dassen non provò alcun moto di
compassione: no,
non l'avrebbe salvata dal crudele destino che l'attendeva.
Nella
vita precedente che non gli apparteneva più, aveva avuto
molta cura
degli animali. Non era stato altro che un mite pastore. Con le
proprie mani aveva aiutato molte pecore a partorire e salvato decine
di agnelli. Aveva permesso al suo gregge di prosperare. Si era
nutrito di latte e formaggio, aveva mantenuto la propria famiglia con
la lana.
Ora
avrebbe sacrificato una capretta a sangue freddo: era questo
ciò che
gli chiedeva Vanth Janas e non si sarebbe tirato indietro.
Afferrò
la testa della capretta con la mano sinistra e con la destra la
sgozzò sopra al pavimento stesso.
Il
rito aveva inizio.
Le
gambe dell'animale cedettero quasi all'istante e il corpo si
accasciò
su sé stesso.
Con le
mani imbrattate di sangue animale, l'uomo prese l'osso del padre e lo
gettò nel liquido scuro; in seguitò si taglio il
palmo della mano e
gettò sopra anche il proprio di sangue. Prese il vestito,
gli diede
fuoco e gettò anche quest'ultimo incrediente sul legno del
pavimento
che non bruciò insieme al tessuto.
Aveva
obbedito ad ogni ordine di Vanth Janas che ora cadeva in stato di
divinazione, gli occhi che diventavano bianchi.
Un
fumo acre si era levato in aria. Non alimentate, le fiamme delle
candele attorno crebbero da sole, guizzando in aria come lingue
rapaci. Calò un freddo innaturale sulla pelle di Dassen che
ebbe la
percezione di udire voci tutt'intorno.. solo una sensazione?
Scosso
da tremiti, Vanth Janas cominciò a fremere sulla poltrona. I
movimenti divennero più forti, il suo corpo si
agitò finché le sue
membra sembrarono scosse da mani invisibili. Era una scena
agghiacciante.
Dassen
mosse qualche passo indietro, ma la voce del bambino lo raggiunse,
intrappolandolo.
“Non
puoi più andare via” decretò il
veggente “ti inseguirebbero!”
ed erano parole che sapevano di maledizione. Il suo viso fine,
elegante di fanciullo, ora era deformato dal ghigno sulle sue labbra.
Il suo
corpo prese a scomporsi sulla poltrona.
Le
finestre chiuse si spalancarono all'istante e il vento impetuoso
soffiò dentro all'ambiente in cui il sangue del capretto
aveva già
cominciato a scomparire, assorbito dall'assetato legno del pavimento.
La
casa era viva. O lo erano gli spiriti, in quel momento.
Vanth
Janas si ritrovò catapultato sulla spiaggia del limbo. Al
sottile
confine fra vita e morte. Di nuovo e da solo.
Scrutò
l'orizzonte bianco, fumoso e lattiginoso. Intravide sagome grige
chiaro, muoversi al di là della barriera che lo separava dal
non
ritorno.
Il suo
corpo era sulla poltrona. Ma lui era altrove. Il suo spirito si era
levato e aveva raggiunto la dimensione dove normalmente Taja lo
attendeva. Ma lei non c'era.
Tutti,
lì intorno, erano in agitazione almeno quanto aveva visto
lei
l'ultima volta.
Sua
madre l'aveva messo in guardia: rischioso muoversi nel limbo senza
guida. Avrebbe dovuto obbedirle, ancora una volta; eppure sentiva un
forte richiamo. Il suo destino, ne era certo, lo stava spingendo in
quella direzione: a sfidare i moniti materni.
Doveva
proseguire, quella era la sua strada. Avrebbe osato avventurarsi fra
i morti, questa volta. Come un tempo aveva fatto Lane Eusten.
Uno
spettro gli si avvicinò. Non distinse le fattezze, ma
l'odore sì.
In qualche modo.. famigliare..?
“Dov'è
la tua guida, veggente?”
Era
un'anima tormentata, molto pericolosa.
“Non
è qui” replicò Vanth, raccogliendo la
concentrazione sufficiente
a mascherare l'agitazione.
“E
chi cerchi nel limbo, ragazzo? Noi
possiamo
aiutarti”.
Il
plurale non lo confuse: non era insolito che uno spettro ne facesse
uso per indicare se stesso. Nell'aldilà la consapevolezza di
essere
stato un tutt'uno svaniva e lasciava spazio ad una pluralità
di
coscienze; e a volte accadeva che diverse anime si fondessero in una
sola. Il principio era quello di rafforzarsi e completarsi. Quello
era il caso.
Vanth
Janas sapeva che doveva servirsi di quell'essere: in mancanza di
Taja, poteva approfittare di un altro spettro desideroso di
compiacerlo.. ma a quale prezzo? Del resto era ormai fatuo
domandarselo.
Anche
fosse tornato indietro, quello spirito lo avrebbe inseguito e
perseguitato. Si erano fiutati a vicenda e Vanth aveva percepito una
grande aura intorno allo spettro: abbastanza forte da potersi imporre
come una guida per un giovane veggente.
Non
c'era tempo per riflettere molto: intorno a loro si stava
già
radunando un coro di voci imploranti. Sentiva il collegamento con il
proprio corpo farsi labile ogni minuto di più. O tornava
indietro
rischiando l'ira dello spettro o sarebbe presto trapassato.
“Paull Hartmen”.
“So
dove trovarlo. Lo condurrò a te”
decretò lo spettro. Non
camminava. Si spostava da un punto all'altro con continue
apparizioni.
In una
di quelle apparizioni, Vanth fu certo di aver visto lo spettro
dividersi in tre parti, prima di ricompattarsi come una goccia di
mercurio. Era dunque un essere piuttosto giovane poiché
faticava a
rimanere perfettamente unito nelle sue triplici anime.
“Quale
offerta ripagherebbe la tua gentilezza?” domandò
Vanth. Il bambino
sapeva ormai bene che nessun spettro offriva servigi senza ottenere
nulla in cambio.
A
quella domanda, intorno a lui vorticarono tre emozioni contrastanti.
Era lo spettro a provarle: rancore, invidia e.. compassione.
“Il
tuo destino” pretese il triplice
essere “che sta per compiersi".
La
presenza scomparve con una risata spettrale.
Vanth
fu ricacciato a forza nel proprio corpo. La sensazione era quella
già
provata, la stessa di sempre, ma ugualmente violenta e dolorosa. I
movimenti frenetici delle sue membra contorte si arrestarono.
Tornò
in sé.
Riaprì
gli occhi che erano stati chiusi fino a quel momento, lentamente. Con
la vista bianca focalizzò l'uomo che era rimasto tutto quel
tempo
fermo, in silenzio, la gola secca.
Qualche
secondo e il bambino ebbe la percezione di un'altra anima nella
stanza.
“Tuo
padre è fra noi, Dassen” sussurrò
debolmente.
Paull
Hartmen apparì nel fumo grigio che si era levato dal tessuto
bruciato. Non era lontano ad assomigliare all'uomo che era stato in
vita. La sua anima aveva trovato la pace del sonno eterno, non
turbato più da alcun sentimento.. almeno fino a quel momento.
Paull
Hartmen era stato un uomo mingherlino, dai grossi baffi neri, con
occhi benevolenti e portamento fiero. Ora era circondato da un alone
dorato.
Non
vedeva, come del resto nessun spirito riusciva a fare. Ma sentiva. E
sembrava disorientato, come da prassi. Tutti gli spiriti, se
richiamati sulla terra, si sentivano spiazzati, persi.
“Perdonami,
gloriosa anima” si rivolse a lui Vanth Janas attraverso la
propria
mente. Aveva gli occhi fissi su un punto imprecisato della stanza,
nonostante lo spettro fosse davanti a lui, visibile nella nube
grigia.
“Il
veggente stregone Vanth Janas ti ha richiamato a sé. Intende
interrogarti e ti prega di rispondere al suo umile appello”.
L'anima
di Paull Hartmen si dimenò nella sua gabbia di fumo.
“Ti ascolto”
replicò ella, semplicemente.
“Percepisci
l'uomo qui, vicino a me? E' tuo figlio. Una disgrazia l'ha colpito e
rammenta ben poco di sé stesso. E io non sono in grado di
scorgere
il suo passato o il suo futuro”.
Lo
spettro si innervosì.
“Quello
non è mio figlio” replicò secco.
La sua
voce, tombale, era salda e sicura: ma la udiva solo Vanth Janas. Le
sue sopracciglia saettarono verso l'alto, nella fronte. Cosa? Non era
suo figlio?
“Non
hai generato tu questo uomo?” insistette Vanth Janas.
“La sua carne è carne
della mia” rispose l'anima di Paull “ma chi
abita il suo corpo non è mio erede”.
A quel
punto, Vanth si sentì spiazzato. Perse sicurezza; ma Queen
Merleen
l'aveva messo in guardia abbastanza bene da sapere cosa fare.
Continuare ad interrogare, scoprire in fretta e reagire.
“Sai
intravedere chi occupa il corpo di tuo figlio?”
domandò ancora
Vanth e Paull annuì.
“Egli
è uno spettro antico e rancoroso. Eliminalo o ti
porterà alla
rovina”.
Scomparve.
Il fumo si dissolse. La testa di Vanth ricadde in avanti, il mento
contro lo sterno nel petto. Le candele tornarono a bruciare
lentamente. Il vento lasciò spazio ad una piacevole brezza.
Il
tessuto smise di bruciare. Tutto si arrestò.
Passò
qualche istante. Immobile, Dassen aveva gli occhi sbarrati e il fiato
corto. La cute pallida e il sudore ghiacciato nella schiena. Aveva..
sentito. Sì, aveva udito un morto parlare! La voce di un
padre che
non era il suo: “egli
è uno spettro antico e rancoroso. Eliminalo o ti
porterà alla
rovina”.
Vanth
riaprì gli occhi e sollevò la testa. Era
intontito ma
sufficientemente lucido da alzarsi in piedi, barcollando.
Ora
capiva tutto. Non aveva potuto leggere la mente di quell'uomo
perché
non era definibile tale. Non aveva scorto ricordi, perché
non ne
aveva di umani. E il futuro di uno spettro in un corpo umano era
precluso ai suoi acerbi poteri. L'anima originale di Dassen?
Distrutta.
Era
senz'altro ciò da cui Taja aveva tentato di metterlo in
guardia. La
fonte della grave agitazione nel limbo. Uno spettro reincarnato: era
davanti a lui.
Alzò
di scatto la mano destra, quella che tanti anni prima era stata
tagliata dalla madre e che ora si era rimarginata in una cicatrice
spessa e bianca.
Aprì
le dita a ventaglio, in direzione di quell'uomo che celava in
sé uno
spettro dalla natura misteriosa. Mormorò parole in lingua
arcaica,
sconosciuta, nera.
Non
abbastanza velocemente.