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Autore: Nike93    19/09/2008    5 recensioni
- Cosa… che cosa vuoi? – lo aggredì la voce di Bill, mentre il suo proprietario rimaneva incollato alla porta.
- Io sono… beh… tornato… - farfugliò Tom. Non si era aspettato che Bill gli saltasse in braccio dopo tre anni di completo silenzio, però neanche che gli rivolgesse quello sguardo. – Volevo solo… sapere come state, ecco… Tu, Haylie, la… - Deglutì, incapace di continuare. Bill lo aveva fulminato con lo sguardo, e quegli occhi sembravano tanto carichi di odio da stroncare le sue parole sul nascere [...]
- Haylie è morta! – ringhiò, subito prima che Tom lo vedesse scomparire, accompagnato da uno schianto. Furono necessari un paio di secondi perché si rendesse conto che Bill gli aveva chiuso la porta in faccia.
Genere: Song-fic, Mistero, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La canzone usata è sempre “Nessuno” di Raf.

 

Capitolo 2 - Ritorno

 

“Come cercar di fissare un punto sul fondo del mare

non mi rimane nemmeno un ricordo che possa spiegare…”

 

Tom cacciò in fretta il cellulare in una delle tasche dei suoi abbondanti e consunti jeans.

Sarà stata la confusione che regnava nel campo d’atterraggio, si disse, sarà stata l’improvvisa consapevolezza di non avere effettivamente un letto dove dormire quella notte, ma chiamare sua madre era stato un gesto istintivo. E infatti adesso si trovava lì, diretto al ritiro bagagli, a scontrarsi con la metà della gente che riempiva l’aeroporto perché troppo preso dai suoi pensieri per fare attenzione a dove mettesse i piedi.

Sua madre era stata contenta di sentirlo, in effetti. Non che potesse darle torto. In quegli ultimi tre anni non si erano visti neanche una volta: per quanto Simone avesse tentato più volte di convincerlo a tornare, lui non era mai andato oltre l’ormai consueta telefonata settimanale. Certo, non poteva pretendere che lei capisse.

Lui non poteva tornare.

E invece eccolo proprio al centro dell’aeroporto di Amburgo, intento a trafficare con la valigia che non sembrava volersi scollare dal nastro trasportatore. Certo non era una novità, per Tom: quando i Tokio Hotel erano in giro per concerti, era sempre lui a dover scarrozzare anche la notevole quantità di bagagli di Bill, pur di non sentirlo sbuffare e lamentarsi.

Bill…

Chissà cos’aveva fatto, in tutto quel tempo. Tom non aveva osato provare a mettersi in contatto con lui, ma neanche suo fratello si era mai preso il disturbo di farlo. Risultato: quelli che per ventidue anni erano stati amici per la pelle, complici dei disastri più disparati, due persone che semplicemente ritenevano inconcepibile qualsiasi tipo di distacco, ora non erano altro che due gemelli estranei l’uno per l’altro. Un controsenso, vero?

Tom cercò di ricordare cosa immaginasse, da piccolo, che avrebbe fatto a venticinque anni. Scalare le classifiche di tutto il mondo, viaggiare senza sosta, salire su tutti i palchi esistenti sulla Terra insieme a suo fratello e alla sua band…

I venticinque anni c’erano. Di viaggiare, beh, aveva viaggiato. Ma di palchi e classifiche aveva addirittura perso la nozione. Senza i Tokio Hotel e con la sua sola Gibson non poteva –e nemmeno voleva- arrivare ai livelli che si era preposto.

Già, a chi voleva darla a bere? Non era dei Tokio Hotel che sentiva la mancanza. Era Bill a mancargli. E anche Haylie.

Sua madre non si era certo risparmiata i tentativi di riappacificazione mediata. C’era da dire che Simone non conosceva abbastanza bene la storia per azzardare mosse del genere. Sì, lo sapeva che Bill e Haylie erano stati molto innamorati, ma che poi lui si era lasciato prendere un po’ troppo dal lavoro proprio quando lei era incinta. Lo sapeva, che la relazione clandestina con Tom era andata avanti per mesi e che Bill aveva sofferto come un cane quando l’aveva scoperto. E sapeva anche che Tom aveva preferito mettersi da parte nel modo meno doloroso per tutti.

Ma forse non sapeva quante notti insonni e quanti pugni sbattuti su un tavolo avesse provocato quella relazione. Forse non sapeva quanto Tom potesse essersi disperato nel tentativo di capire cosa Haylie provasse per lui, e successivamente avendo capito che, qualunque sentimento ci fosse da parte della ragazza, non era quello che lui si aspettava. E di certo non sapeva neanche quanto questo avesse influito nella vita di Tom in quegli ultimi anni passati lontano da casa.

Ne aveva girate un po’, di nazioni. Francia, Italia, poi di nuovo Germania. La sua conoscenza delle lingue straniere non poteva certo definirsi eccellente, ma era bastata per assicurargli un certo periodo di tranquillità. Se pochi anni prima si fosse visto a girare da un Paese all’altro, mettendo da parte la chitarra e cercando di darsi una mossa per altri versi, avrebbe scosso la testa con compassione, sentenziando: “Tom, io non ti riconosco più”.

O forse avrebbe semplicemente riso a crepapelle. Chi avrebbe potuto dirlo?

Erano cambiate tante cose, in tre anni. O forse solo poche, ma di un’entità così consistente da fargli credere che la sua vita fosse stata totalmente rivoluzionata.

Guardò l’etichetta attaccata al manico della valigia, in attesa che un taxi si accostasse al marciapiedi. Tom Kaulitz, spiccava a caratteri minuti e disordinati.

Ma era lo stesso Tom Kaulitz che aveva lasciato Amburgo tre anni prima, in cerca di una nuova aria? Era lo stesso Tom Kaulitz che ai concerti si divertiva a scandalizzare il pubblico di una certa età compiendo gesti inconsulti con la sua chitarra? Ma soprattutto, era lo stesso Tom Kaulitz che veniva comunemente chiamato Sexgott, quello che recuperava una o più ragazzine ogni sera e le accoglieva ben volentieri nella propria camera d’albergo? Non che avesse bisogno di andare a cercarsele, certo. Solitamente erano loro a tentare –con successo- l’approccio, o addirittura a passare alla fase successiva.

Poi c’era stata Haylie, e il suo letto non era stato più occupato da nessuna groupie. Non gli importava che il mondo intero lo sapesse, gli bastava averla accanto a sé, anche se, evidentemente, questo non corrispondeva ai desideri della ragazza.

Per mesi, anche se lontano, aveva continuato a tormentarsi e chiedersi se avesse fatto la scelta giusta. Se Bill e Haylie fossero felici insieme. Probabilmente lo erano, anche se in lui restava quel pizzico di orgoglio che gli impediva di ammetterlo serenamente a se stesso. Certo che lo erano. Ovvio. Haylie non aveva amato altri che Bill, nonostante il tempo che le fosse occorso per capirlo. E poi, con una figlia in arrivo…

Se c’era una cosa che Tom non rimpiangeva di aver fatto, era stato andarsene prima che quella bambina nascesse. Aveva chiamato suo fratello quando Haylie aveva cominciato a soffrire in preda alle doglie, se l’era visto passare davanti per poi precipitarsi da lei, praticamente fingendo che lui non fosse presente, aveva aspettato in preda all’ansia finché non era arrivata un’ambulanza. Allora aveva strappato un foglio da un bloc-notes, era rimasto qualche minuto a pensare, e poi aveva scritto di getto quella lettera che non sapeva a chi consegnare. Il borsone era pronto, il biglietto era stato fatto. Non gli restava che lasciare quella busta a qualcuno e scappare il più presto possibile. Non sapeva cosa sarebbe potuto succedere se si fosse presentato in ospedale dopo il parto di Haylie, e nemmeno voleva saperlo. Più che altro, non voleva che nessuno si rovinasse quel momento a causa sua.

Così si era lasciato alle spalle il risentimento di Bill e i sensi di colpa di Haylie, e aveva cambiato vita.

Avrebbe voluto che cambiasse in meglio. Certo, quella vita non era la stessa di quella vecchia, ma non nel modo che lui aveva programmato.

Tom non era mai riuscito a sapere come fossero andati avanti i Tokio Hotel. Nella sua lettera aveva chiaramente specificato che non voleva che Bill si fermasse con la band –e, per quanto suo fratello gli serbasse  una certa dose di rancore, sapeva che avrebbe potuto fare qualcosa del genere se nessuno l’avesse spronato a fare il contrario. Chissà se avevano trovato un altro chitarrista o se erano rimasti in tre. Raramente aveva acceso la televisione o la radio, e adesso la curiosità si era fatta più forte, insieme a tante altre. Chissà che faccia aveva la figlia di Haylie e Bill, chissà come era cresciuta, chissà se era stata resa partecipe della vita movimentata di suo padre.

A Tom riusciva difficile immaginare suo fratello nelle vesti di genitore, soprattutto considerato che, quando erano piccoli, era stato lui a far quasi da padre a Bill. Ma Haylie, che sicuramente adesso era serena e tranquilla accanto a lui, doveva essere una madre meravigliosa. Dolce e comprensiva com’era sempre stata.

Dopo di lei non c’era stata nessuna storia seria, per Tom. Semplicemente, aveva bisogno di smaltire a poco a poco la delusione che gli aveva provocato quel suo primo –per quanto dubbio- amore, ma, dopo qualche mese, aveva cominciato a pensare che qualcuna delle sue solite avventure da una notte e via non sarebbero state male per mettere da parte i brutti ricordi.

Non che ne sentisse veramente il bisogno, delle sue storielle. Solo, ricordava che quello era stato il suo pallino, per i primi anni in cui aveva cominciato ad essere popolare tra le ragazze, e pensava che questo potesse in qualche modo aiutarlo.

Solo che, a quel punto, Tom aveva dovuto mettere in pratica quello che un tempo, per lui, sarebbe stato impensabile: se voleva un’avventura, doveva essere lui a cercarsela.

Dopo un po’ di tempo passato lontano dalla band che aveva portato il suo nome sulla bocca di tutti, la fama era venuta meno, e questo Tom l’aveva messo in conto. Ma non aveva mai pensato che, a neanche un anno dal suo allontanamento, avrebbe notato la differenza persino entrando in un locale. Era meno frequente che una ragazza gli si buttasse addosso tanto spontaneamente, sebbene quasi nessuna avesse rifiutato le sue poco discrete avances. Ma la differenza la notava anche la mattina dopo, quando apriva gli occhi e si trovava accanto a una ragazza che, a giudicare dall’espressione confusa, non doveva aver adoperato una certa dose di lucidità nello scegliere colui che le avrebbe regalato il divertimento di una notte di fuoco. Quasi sempre la ragazza in questione mormorava confusamente qualcosa, si scusava, recuperava i suoi vestiti borbottando che la sera prima doveva essere un po’ ubriaca, e poi se ne andava con un sorriso di circostanza e un’alzata di spalle. Al risveglio, non aveva più trovato occhi adoranti o mani tese in cerca di soldi. Quasi gli mancava, tutto questo. La consapevolezza di avere un cuore e, quindi, anche dei sentimenti, faceva male oltre l’immaginabile.

Tom Kaulitz non aveva mai creduto nell’amore eterno, quello delle fiabe in cui a trionfare era sempre una giustizia falsa o comunque temporanea, e la storia con Haylie aveva ampiamente confermato la sua tesi. Certo, lei era caduta tra le sue braccia per forza di cose, per solitudine, ma prima… prima erano stati semplicemente amici. E spesso Tom si era trovato a rimpiangere quei tempi, desiderando di non essersi mai intromesso nelle faccende di Bill. Quando lui e Haylie erano soltanto amici, parlavano di tutto senza problemi. Era sempre stato così, ma quella loro relazione clandestina aveva rovinato tutto.

E se il numero di ragazze che si lasciavano sedurre dal Sexgott era direttamente proporzionale alla sua fama, beh, allora forse non esisteva neanche l’amore di una notte. O forse non esisteva per lui.

Così erano finite anche le notti brave. Svanite insieme ai suoi sogni da bambino idealista.

Tom sospirò, guardando per la millesima volta il foglietto su cui aveva rapidamente scarabocchiato quel numero e quell’indirizzo che mai si sarebbe sognato di chiedere a sua madre.

Se sperava che dall’altra parte qualcuno rispondesse, allora forse sì, era davvero solo un bambino idealista.

 

 

Bill sospirò pesantemente, lasciando cadere i cataloghi uno sopra l’altro sulla scrivania e stiracchiandosi all’indietro sulla scomoda sedia di plastica. Gli sarebbe venuto il sedere quadrato, un giorno o l’altro. Non che questo gli cambiasse la vita, certo, ma poteva anche essere considerato come un interessante diversivo alle sue giornate, ormai più monotone e ripetitive di quelle di una gallina.

Ecco cosa si sentiva. Una gallina costretta a vivere in un pollaio troppo piccolo, accanto ad altri pennuti estranei e puzzolenti.

Esaminò tristemente le pile di fogli e cartelle disposte in bilico sulla scrivania. Come aveva potuto ridursi a quel punto? Come era potuto arrivare a non voler neanche fare i conti con se stesso quando la gente gli chiedeva cosa facesse ora che aveva smesso di cantare nel suo gruppo? Quasi si vergognava, anzi no, non quasi, si vergognava enormemente di annunciare – per giunta con disinvoltura- che, ebbene sì signore e signori, Bill Kaulitz adesso lavora nell’agenzia di viaggi gestita da sua madre.

Gli suonava così tristemente patetico che cercava sempre di tergiversare quando si arrivava alla domanda fatidica.

Si sentiva un verme a provare quel senso di disagio anche solo quando pensava a che cosa si era ridotta la sua esistenza. In fondo, sua madre lo aveva fatto per lui. Le era anche grato, in qualche modo, anche se non c’era bisogno che le dicesse che non era quella, la vita che voleva: Simone poteva capirlo benissimo da sé, guardandolo ogni giorno. In realtà, la vita che avrebbe realmente voluto era lontana anni luce, era un desiderio intangibile, quindi, tanto valeva fare almeno qualcosa. Era anche vero che sua madre glielo aveva fatto notare nel modo più gentile possibile: non poteva abbrutirsi tutto il giorno, sepolto dai ricordi, doveva cambiare aria, aveva bisogno di tenersi occupato, di distrarsi, eccetera eccetera.

Come se fosse stato un bambino in attesa all’ospedale, un bambino che non doveva rendersi conto di quello che stava per succedergli.

No. Lui, da quell’ospedale, non sarebbe uscito mai più.

Due mani si posarono sulle sue spalle, stringendole con delicatezza. – Sei stanco? – Bill riaprì gli occhi e si irrigidì.

- Un po’, sì – borbottò, cercando di sottrarsi alla stretta di sua madre senza destare obiezioni. D’accordo, le era grato, ma tutta quell’apprensione gli faceva montare in corpo un’irritazione tale che sovente si trovava a chiedersi se un giorno non avrebbe perso le staffe.

- Dài, ti manca meno di un’ora – la sentì dire con tono accondiscendente. Fantastico, solo un’ora. Come se quello potesse cambiare le cose.

- Lo so – ribatté, stavolta senza curarsi di non apparire scontroso. Riaprì il catalogo che aveva messo da parte poco prima, come a dire “ho da fare, lasciami in pace”. Seguì una breve pausa di silenzio alle proprie spalle.

- Ok, allora… magari avvisami, quando stai per andare – concluse Simone, in tono un po’ meno allegro.

- D’accordo – tagliò lui senza voltarsi. Rimase immobile per qualche secondo, in attesa. Silenzio, poi rumore di passi che si allontanavano, e poi un vocio poco più distante.

Si lasciò andare a un lungo sospiro, appoggiandosi allo schienale. Qualche volta avrebbe voluto mordersi la lingua. Sua madre era l’unica con cui, ogni tanto, riuscisse a parlare. L’unica che gli infondesse un po’ di tranquillità. Magari non bastava a farlo dormire la notte, ma si accontentava di poco. La serenità rientrava nell’elenco di cose che gli mancavano del tutto, dunque non poteva lamentarsi. Ma anche con Simone, spesso e volentieri, Bill non riusciva ad aprirsi più di tanto. Il parlare con lei non era altro che una distrazione, un’occasione per non rimuginare.

Ormai bastava poco per farlo cedere al nervosismo, e Bill non faceva nulla per cambiare. Aveva già fatto più che abbastanza, e se al mondo non andava bene il nuovo Bill Kaulitz, beh, che andassero tutti…

Driiin.

Bill spostò bruscamente la pila di cataloghi e si allungò sulla scrivania nel disperato tentativo di raggiungere il telefono. Afferrò la cornetta prima che le sue manovre causassero la rovinosa caduta dell’apparecchio, e la trasse repentinamente a sé. – Agenzia Trümper, buona sera – esalò, ancora steso per metà sulla scrivania.

Gli giunse alle orecchie un’allegra voce femminile e un cognome che doveva aver già sentito da qualche parte.

- Ah, sì – disse con voce piatta. A un orecchio ben esercitato, quella sarebbe risultata una chiara simulazione, ma la donna dall’altra parte del filo non sembrò prestarvi attenzione. – Mi dica –

- Avevo chiamato la settimana scorsa ed eravamo rimasti un po’ in sospeso, si ricorda? –

- Certo – proseguì Bill, senza muoversi di un centimetro. Però, garrula, la signora…

- Ecco, volevo appunto fissare per quel viaggio che le dicevo la settimana scorsa – Gli sembrò quasi di vederla sorridere. – Sa, quando ci siamo sposati, io e mio marito non abbiamo avuto la possibilità di andare in luna di miele, così adesso che c’è anche il bambino, vorremmo goderci un piccolo stacco… -

Presumibilmente la donna continuò a parlare, ignara che, all’altro capo del filo, nessuno la stava più ascoltando, anche se il ricevitore era ancora stretto in una mano pallida e tremante.

 

Haylie sorrideva, guardandolo di sottecchi e giocherellando con un angolo del lenzuolo.

Era semplicemente adorabile. Una bambina… la sua bambina.

Bill scivolò al suo fianco, passandole un braccio intorno alla vita. Erano passati quattro mesi da quando erano tornati alla loro vita e non si era mai sentito così felice. – Ma lo sai che sei bellissima? – le sussurrò all’orecchio, sorridendo sornione senza curarsi del tono quasi infantile della sua domanda.

Haylie ridacchiò, scuotendo la testa. – E tu lo sai che sei sdolcinato da morire? – Bill si finse meravigliato.

- Tesoruccio, cosa vai a pensare? – cantilenò. – Se mi dici questo mi ferisci a morte, luce dei miei occhi! –

A quel punto, Haylie scoppiò a ridere, tirandogli una cuscinata sulla testa. – Ehi, che ho detto?! – protestò lui, mettendo su un finto broncio.

- Niente, mi prendi solo in giro! – Bill spalancò gli occhi, portandosi una mano sul petto.

- Io? Prendere in giro te? Per carità! – Haylie gli fece una smorfia, poi lo abbracciò all’altezza della vita e si accoccolò contro di lui.

- E la sai un’altra cosa? – Bill sorrise, scuotendo la testa. – Ti amo –

- Sei sdolcinata da far schifo – ribatté, simulando un’espressione disgustata. Haylie sorrise, appoggiando l’orecchio sul suo petto nudo.

- Sento il tuo cuore… - mormorò, mentre la sua mano sfiorava i fianchi di Bill. Il ragazzo non poté trattenersi dal sorridere, accarezzandole i capelli mentre lei restava lì ad ascoltare quei battiti lievi e regolari.

Lei era più della ragazza che amava, era più della persona con cui voleva passare il resto della sua vita. Lei era un dono del cielo, lei era l’essenza di tutti i suoi desideri.

Le baciò dolcemente la fronte. C’era un pensiero che gli frullava in testa da qualche tempo, una domanda che gli martellava nel cervello e che avrebbe voluto porle. Non sapeva come mettere insieme le parole, aveva paura che Haylie le interpretasse nel modo sbagliato. Come se potesse pensare che lei non gli bastasse, o come se lui volesse rievocare ricordi poco felici. Ma non era così.

Proprio perché la amava voleva chiederglielo. Era una domanda impegnativa, sì. Niente proposte di matrimonio, certo, ma comunque qualcosa su cui riflettere.

Bill riuscì a decidersi solo quando Haylie riaprì gli occhi e gli rivolse quel sorriso che non mancava mai di mandarlo fuori di testa. Mise una mano sulla sua, ancora appoggiata sul suo petto.

- Tesoro, volevo dirti… - Lei annuì, sorridendo ancora. Ecco, il coraggio era tornato. Bill prese un bel respiro…

 

Dall’altra parte del filo, non si sentì altro che un tonfo sordo.

- Tutto bene? –

Bill si lasciò sfuggire un rantolo, e quasi non vide il catalogo che aveva fatto cadere giù dalla scrivania. – Io… sì… - balbettò a mezza voce, rendendosi conto di non poter neanche più reggere la cornetta, tanto era sudata la sua mano. – Mi scusi, ho… un imprevisto… non… La richiamerò io… -

- Non… non si preoccupi – fece la voce della donna, alla quale però seguì solo un prolungato tuu-tuu. - Pronto? E’ ancora lì? Pronto! –

Ma il ricevitore era già stato sbattuto al suo posto con violenza, e la sedia dietro la scrivania era vuota.

Bill si lasciò cadere con la schiena contro la porta d’entrata dell’agenzia, subito dopo aver mollato la cliente al telefono ed essere praticamente scappato fuori. Si prese la testa tra le mani, ansimando come se avesse corso per chilometri.

Il cuore andava a mille, poteva sentirlo rimbombargli nel petto. La fronte era madida di sudore, le mani gli tremavano ancora. Bill si appoggiò con le braccia al muro dietro di lui, chiudendo gli occhi e continuando a buttar fuori l’aria con un certo affanno.

Deglutì e rimase immobile, aspettando che il respiro si regolarizzasse. Doveva imparare a controllarsi, non poteva mettersi a ricordare durante le telefonate dei clienti… Ma perché doveva essere sempre lui a prendere le telefonate di certi clienti?!

Quando gli parve di essere tornato più o meno presentabile, si staccò faticosamente dalla parete e rientrò in agenzia, sorreggendosi alla porta. Sospirò e si passò una mano tra i capelli, cominciando a chiedersi se non soffrisse anche di claustrofobia.

- Bill! – Perfetto. Ci mancava solo sua madre. – Bill, che hai? – Simone lo raggiunse a passo svelto, una nota di angoscia nella voce.

- Niente…! Tranquilla, non… non è successo niente – Lui stesso si rese conto di risultare poco credibile.

- Chi era al telefono? – gli chiese infatti Simone. Bill strinse i pugni, sospirando stancamente. Non aveva le energie necessarie per difendersi da quell’attacco di iperprotezione.

- Non lo so, ho dovuto chiudere. Non mi sento bene –

A sua madre, ovviamente, non bastò. – Bill, cosa… -

- Posso andarmene adesso? – la interruppe debolmente lui. Simone lo guardò interdetta per qualche secondo.

- Certo – disse infine. – Certo… vai pure – Bill produsse uno dei suoi finti sorrisi, e fece per andarsene senza aggiungere una parola. – Mi raccomando, Billy… -

- Lo so – tagliò corto lui, mentre il sorriso scompariva dalle sue labbra. – Lo so, mamma. Ci vediamo domani –

E uscì senza attardarsi di un solo secondo, perché altrimenti sua madre avrebbe assistito in diretta alla seconda crisi di panico.

Casa, casa, casa. Voleva solo tornarsene a casa.

 

 

Tom si grattò nervosamente la testa, rigirandosi tra le dita il foglietto ormai mezzo sbrindellato. Si sentiva incredibilmente idiota a star fermo lì, davanti a quella che, secondo l’indirizzo che gli aveva dato sua madre, doveva essere la porta dell’appartamento di Bill.

Le possibilità erano due: o si decideva subito a bussare, o se ne tornava indietro senza lasciar traccia.

Erano quasi le dieci di sera e c’erano tutte le premesse perché il suo tentativo fallisse. Ma se non avesse provato, non l’avrebbe saputo mai, quindi si limitò a tirare un profondo respiro, chiudere gli occhi e premere il campanello prima che un qualsiasi agente esterno gli facesse cambiare idea.

Aspettò per secondi che gli parvero ore prima di sentire lo scattare della serratura e un leggero cigolio accompagnare il lento aprirsi della porta. Doveva essere ancora un po’ confuso, fatto sta che tutto quello che riuscì a focalizzare fu una sola informazione: suo fratello, in piedi sulla soglia, lo guardava con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a fessure.

- Tu qui? – lo sentì sibilare, mentre un lieve scricchiolio gli annunciava che Bill si era aggrappato alla maniglia con tutta la forza che aveva in corpo. Non riuscì a fare altro che sorridere nervosamente.

- Ehm… ciao Bill –

Idiota. Sei un emerito idiota. E’ una settimana che ti prepari discorsi degni di un convegno per farti accogliere da tuo fratello, e ora che ce l’hai davanti non sai dirgli altro che “ciao”?

- Cosa… che cosa vuoi? – lo aggredì la voce di Bill, mentre il suo proprietario rimaneva incollato alla porta.

- Io sono… beh… tornato… - farfugliò Tom totalmente spiazzato, il sorriso ancora impigliato tra le labbra. Non si era aspettato che Bill gli saltasse in braccio, però neanche che gli rivolgesse quello sguardo. – Volevo solo… sapere come state, ecco… Tu, Haylie, la… - Deglutì, incapace di continuare. Bill lo aveva fulminato con lo sguardo, e quegli occhi sembravano tanto carichi di odio da stroncare le sue parole sul nascere.

La mano del moro strinse convulsamente la maniglia.

- Haylie è morta! – ringhiò, subito prima che Tom lo vedesse scomparire, accompagnato da uno schianto. Furono necessari un paio di secondi perché si rendesse conto che Bill gli aveva chiuso la porta in faccia. Tutto quello che l’istinto gli suggerì di fare fu di tempestarla di pugni.

- Bill! Bill, apri! – Nessuna risposta. Tom rimase immobile per qualche istante, poi sferrò un calcio alla porta. – Per favore Bill, aprimi! –

Subito dopo, sentì una voce provenire da sopra la sua testa. – Silenzio! Qui c’è gente che dorme! – Non fece neanche in tempo a vedere l’uomo anziano che si era affacciato dal balcone del primo piano, ancora stordito dalle parole con cui Bill aveva troncato la loro –peraltro brevissima- conversazione.

Cosa voleva dire… Haylie è morta?

Tom fece un rapido calcolo, per quando la sua poca lucidità glielo permettesse. Dunque. Bill non aveva ancora smaltito il risentimento nei suoi confronti. Doveva anche essere successo qualcosa con Haylie, qualcosa di serio, perché, d’accordo, quando Bill era frustrato era capace di prodursi nei deliri più disparati, ma… dal delirare a dare una persona per morta…

Perché se fosse morta davvero, Bill non lo avrebbe liquidato così. Era inconcepibile. Semplicemente non era possibile.

Che la sua partenza non avesse giovato alla loro riconciliazione?

Dovevano essersi lasciati… e chissà da quanto tempo. E allora, la bambina? Che fine aveva fatto? Sì, doveva essere successo qualcosa di terribile se Bill era così accanito nei confronti di Haylie. Del resto, non c’era poi tanto da stupirsi se aveva detto che era morta. La sua storia con quella ragazza era stata tormentata fin dall’inizio… Dunque era questo che Bill voleva, cancellarla per sempre dalla propria vita?

Tom voltò le spalle alla palazzina e si avviò in strada, a testa bassa e con il trolley al seguito.

Le domande erano troppe, ma una più di tutte adesso gli premeva: e se sua madre fosse già andata a dormire…?

 

Eppure non son sempre stato nessuno,

perché non mi apre nessuno

che sappia colmare il vuoto che é in me?”

  
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