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La canzone
usata è sempre “Nessuno” di Raf.
Capitolo 2 - Ritorno
“Come cercar di
fissare un punto sul fondo del mare
non mi rimane nemmeno un ricordo che
possa spiegare…”
Tom cacciò
in fretta il cellulare in una delle tasche dei suoi abbondanti e consunti
jeans.
Sarà stata
la confusione che regnava nel campo d’atterraggio, si disse,
sarà stata l’improvvisa consapevolezza di non avere effettivamente un letto
dove dormire quella notte, ma chiamare sua madre era stato un gesto istintivo.
E infatti adesso si trovava lì, diretto al ritiro
bagagli, a scontrarsi con la metà della gente che riempiva l’aeroporto perché
troppo preso dai suoi pensieri per fare attenzione a dove mettesse i piedi.
Sua madre
era stata contenta di sentirlo, in effetti. Non che potesse
darle torto. In quegli ultimi tre anni non si erano visti neanche una
volta: per quanto Simone avesse tentato più volte di convincerlo a tornare, lui
non era mai andato oltre l’ormai consueta telefonata settimanale. Certo, non
poteva pretendere che lei capisse.
Lui non
poteva tornare.
E invece
eccolo proprio al centro dell’aeroporto di Amburgo,
intento a trafficare con la valigia che non sembrava volersi scollare dal
nastro trasportatore. Certo non era una novità, per Tom: quando i Tokio Hotel erano in giro per concerti, era sempre lui a
dover scarrozzare anche la notevole quantità di bagagli di Bill, pur di non
sentirlo sbuffare e lamentarsi.
Bill…
Chissà
cos’aveva fatto, in tutto quel tempo. Tom non aveva osato provare a mettersi in
contatto con lui, ma neanche suo fratello si era mai preso il disturbo di
farlo. Risultato: quelli che per ventidue anni erano stati
amici per la pelle, complici dei disastri più disparati, due persone che
semplicemente ritenevano inconcepibile qualsiasi tipo di distacco, ora non
erano altro che due gemelli estranei l’uno per l’altro. Un controsenso,
vero?
Tom cercò
di ricordare cosa immaginasse, da piccolo, che avrebbe
fatto a venticinque anni. Scalare le classifiche di tutto il
mondo, viaggiare senza sosta, salire su tutti i palchi esistenti sulla Terra
insieme a suo fratello e alla sua band…
I
venticinque anni c’erano. Di viaggiare, beh, aveva viaggiato.
Ma di palchi e classifiche aveva addirittura perso la
nozione. Senza i Tokio Hotel e con la sua sola Gibson non poteva –e nemmeno voleva- arrivare ai livelli
che si era preposto.
Già, a chi
voleva darla a bere? Non era dei Tokio Hotel che
sentiva la mancanza. Era Bill a
mancargli. E anche Haylie.
Sua madre
non si era certo risparmiata i tentativi di riappacificazione mediata. C’era da
dire che Simone non conosceva abbastanza bene la
storia per azzardare mosse del genere. Sì, lo sapeva che Bill e Haylie erano stati molto innamorati, ma che poi lui si era
lasciato prendere un po’ troppo dal lavoro proprio quando
lei era incinta. Lo sapeva, che la relazione clandestina con Tom era andata
avanti per mesi e che Bill aveva sofferto come un cane quando
l’aveva scoperto. E sapeva anche che Tom aveva
preferito mettersi da parte nel modo meno doloroso per tutti.
Ma forse
non sapeva quante notti insonni e quanti pugni sbattuti su un tavolo avesse provocato quella relazione. Forse non sapeva quanto
Tom potesse essersi disperato nel tentativo di capire cosa Haylie
provasse per lui, e successivamente avendo capito che,
qualunque sentimento ci fosse da parte della ragazza, non era quello che lui si
aspettava. E di certo non sapeva neanche quanto questo avesse
influito nella vita di Tom in quegli ultimi anni passati lontano da
casa.
Ne aveva
girate un po’, di nazioni. Francia, Italia, poi di nuovo Germania. La sua
conoscenza delle lingue straniere non poteva certo definirsi eccellente, ma era
bastata per assicurargli un certo periodo di tranquillità. Se pochi anni prima
si fosse visto a girare da un Paese all’altro,
mettendo da parte la chitarra e cercando di darsi una mossa per altri versi, avrebbe
scosso la testa con compassione, sentenziando: “Tom, io non ti riconosco più”.
O
forse avrebbe semplicemente riso a crepapelle. Chi avrebbe potuto dirlo?
Erano
cambiate tante cose, in tre anni. O forse solo poche, ma di
un’entità così consistente da fargli credere che la sua vita fosse stata
totalmente rivoluzionata.
Guardò
l’etichetta attaccata al manico della valigia, in
attesa che un taxi si accostasse al marciapiedi. Tom Kaulitz, spiccava a
caratteri minuti e disordinati.
Ma era
lo stesso Tom Kaulitz che aveva lasciato Amburgo tre anni prima, in cerca di
una nuova aria? Era lo stesso Tom Kaulitz che ai concerti si divertiva a
scandalizzare il pubblico di una certa età compiendo gesti inconsulti con la
sua chitarra? Ma soprattutto, era lo stesso Tom Kaulitz che veniva
comunemente chiamato Sexgott, quello che
recuperava una o più ragazzine ogni sera e le accoglieva ben volentieri nella
propria camera d’albergo? Non che avesse bisogno di andare a
cercarsele, certo. Solitamente erano loro a tentare –con successo-
l’approccio, o addirittura a passare alla fase successiva.
Poi c’era
stata Haylie, e il suo letto non era stato più
occupato da nessuna groupie. Non gli importava che il
mondo intero lo sapesse, gli bastava averla accanto a sé, anche se, evidentemente,
questo non corrispondeva ai desideri della ragazza.
Per mesi,
anche se lontano, aveva continuato a tormentarsi e chiedersi se avesse fatto la
scelta giusta. Se Bill e Haylie
fossero felici insieme. Probabilmente lo erano, anche se in lui restava
quel pizzico di orgoglio che gli impediva di
ammetterlo serenamente a se stesso. Certo che lo erano.
Ovvio. Haylie non aveva amato altri che Bill,
nonostante il tempo che le fosse occorso per capirlo. E poi, con una figlia in arrivo…
Se c’era una cosa che Tom non rimpiangeva di aver fatto, era stato
andarsene prima che quella bambina nascesse. Aveva chiamato suo fratello quando Haylie aveva
cominciato a soffrire in preda alle doglie, se l’era visto passare davanti per
poi precipitarsi da lei, praticamente fingendo che lui non fosse presente,
aveva aspettato in preda all’ansia finché non era arrivata un’ambulanza. Allora
aveva strappato un foglio da un bloc-notes, era rimasto qualche minuto a
pensare, e poi aveva scritto di getto quella lettera che non sapeva a chi
consegnare. Il borsone era pronto, il biglietto era
stato fatto. Non gli restava che lasciare quella busta a qualcuno e scappare il
più presto possibile. Non sapeva cosa sarebbe potuto succedere se si fosse
presentato in ospedale dopo il parto di Haylie, e
nemmeno voleva saperlo. Più che altro, non voleva che nessuno si rovinasse quel
momento a causa sua.
Così si
era lasciato alle spalle il risentimento di Bill e i sensi di colpa di Haylie, e aveva cambiato vita.
Avrebbe
voluto che cambiasse in meglio. Certo, quella vita non
era la stessa di quella vecchia, ma non nel modo che lui aveva programmato.
Tom non
era mai riuscito a sapere come fossero andati avanti i
Tokio Hotel. Nella sua lettera aveva chiaramente specificato che non voleva che
Bill si fermasse con la band –e, per quanto suo fratello gli serbasse una certa dose di
rancore, sapeva che avrebbe potuto fare qualcosa del genere se nessuno l’avesse
spronato a fare il contrario. Chissà se avevano trovato un
altro chitarrista o se erano rimasti in tre. Raramente aveva acceso la
televisione o la radio, e adesso la curiosità si era fatta più forte, insieme a
tante altre. Chissà che faccia aveva la figlia di Haylie
e Bill, chissà come era cresciuta, chissà se era stata
resa partecipe della vita movimentata di suo padre.
A Tom
riusciva difficile immaginare suo fratello nelle vesti di genitore, soprattutto
considerato che, quando erano piccoli, era stato lui a far quasi da padre a
Bill. Ma Haylie, che
sicuramente adesso era serena e tranquilla accanto a lui, doveva essere una
madre meravigliosa. Dolce e comprensiva com’era sempre stata.
Dopo di
lei non c’era stata nessuna storia seria, per Tom. Semplicemente, aveva bisogno
di smaltire a poco a poco la delusione che gli aveva provocato quel suo primo
–per quanto dubbio- amore, ma, dopo qualche mese, aveva cominciato a pensare
che qualcuna delle sue solite avventure da una notte e via non sarebbero state male per mettere da parte i brutti ricordi.
Non che ne sentisse veramente il bisogno, delle sue storielle. Solo, ricordava che quello era
stato il suo pallino, per i primi anni in cui aveva cominciato ad essere
popolare tra le ragazze, e pensava che questo potesse in qualche modo aiutarlo.
Solo che,
a quel punto, Tom aveva dovuto mettere in pratica quello che un tempo, per lui,
sarebbe stato impensabile: se voleva un’avventura, doveva essere lui a
cercarsela.
Dopo un
po’ di tempo passato lontano dalla band che aveva portato il suo nome sulla
bocca di tutti, la fama era venuta meno, e questo Tom
l’aveva messo in conto. Ma non aveva mai pensato che,
a neanche un anno dal suo allontanamento, avrebbe notato la differenza persino
entrando in un locale. Era meno frequente che una
ragazza gli si buttasse addosso tanto spontaneamente, sebbene quasi nessuna
avesse rifiutato le sue poco discrete avances. Ma la
differenza la notava anche la mattina dopo, quando apriva gli occhi e si
trovava accanto a una ragazza che, a giudicare
dall’espressione confusa, non doveva aver adoperato una certa dose di lucidità
nello scegliere colui che le avrebbe regalato il divertimento di una notte di
fuoco. Quasi sempre la ragazza in questione mormorava
confusamente qualcosa, si scusava, recuperava i suoi vestiti borbottando che la
sera prima doveva essere un po’ ubriaca, e poi se ne andava con un sorriso di
circostanza e un’alzata di spalle. Al risveglio, non aveva più trovato occhi
adoranti o mani tese in cerca di soldi. Quasi gli mancava,
tutto questo. La consapevolezza di avere un cuore e, quindi, anche dei
sentimenti, faceva male oltre l’immaginabile.
Tom
Kaulitz non aveva mai creduto nell’amore eterno, quello delle fiabe in cui a
trionfare era sempre una giustizia falsa o comunque
temporanea, e la storia con Haylie aveva ampiamente
confermato la sua tesi. Certo, lei era caduta tra le sue braccia per forza di
cose, per solitudine, ma prima… prima erano stati semplicemente amici. E spesso Tom si era trovato a rimpiangere quei tempi,
desiderando di non essersi mai intromesso nelle faccende di Bill. Quando lui e Haylie erano soltanto amici, parlavano
di tutto senza problemi. Era sempre stato così, ma quella loro relazione
clandestina aveva rovinato tutto.
E se
il numero di ragazze che si lasciavano sedurre dal Sexgott
era direttamente proporzionale alla sua fama, beh, allora forse non esisteva neanche
l’amore di una notte. O forse non esisteva per
lui.
Così erano
finite anche le notti brave. Svanite insieme ai suoi sogni da bambino
idealista.
Tom
sospirò, guardando per la millesima volta il foglietto su cui aveva rapidamente
scarabocchiato quel numero e quell’indirizzo che mai
si sarebbe sognato di chiedere a sua madre.
Se
sperava che dall’altra parte qualcuno rispondesse, allora forse sì, era davvero
solo un bambino idealista.
…
Bill
sospirò pesantemente, lasciando cadere i cataloghi uno sopra l’altro sulla
scrivania e stiracchiandosi all’indietro sulla scomoda sedia di plastica. Gli
sarebbe venuto il sedere quadrato, un giorno o l’altro. Non che questo gli cambiasse la vita, certo, ma poteva anche essere considerato
come un interessante diversivo alle sue giornate, ormai più monotone e
ripetitive di quelle di una gallina.
Ecco cosa si sentiva. Una gallina costretta a vivere in un
pollaio troppo piccolo, accanto ad altri pennuti estranei e puzzolenti.
Esaminò
tristemente le pile di fogli e cartelle disposte in bilico sulla scrivania.
Come aveva potuto ridursi a quel punto? Come era
potuto arrivare a non voler neanche fare i conti con se stesso quando la gente
gli chiedeva cosa facesse ora che aveva smesso di cantare nel suo gruppo? Quasi
si vergognava, anzi no, non quasi, si vergognava
enormemente di annunciare – per giunta con disinvoltura- che, ebbene sì signore
e signori, Bill Kaulitz adesso lavora nell’agenzia di viaggi gestita da sua
madre.
Gli
suonava così tristemente patetico che cercava sempre di tergiversare
quando si arrivava alla domanda fatidica.
Si sentiva
un verme a provare quel senso di disagio anche solo quando pensava a che cosa
si era ridotta la sua esistenza. In fondo, sua madre lo aveva fatto per lui. Le
era anche grato, in qualche modo, anche se non c’era bisogno che le dicesse che non era quella, la vita che voleva: Simone
poteva capirlo benissimo da sé, guardandolo ogni giorno. In realtà, la vita che
avrebbe realmente voluto era lontana anni luce, era un
desiderio intangibile, quindi, tanto valeva fare almeno qualcosa. Era
anche vero che sua madre glielo aveva fatto notare nel modo più gentile
possibile: non poteva abbrutirsi tutto il giorno, sepolto dai ricordi, doveva
cambiare aria, aveva bisogno di tenersi occupato, di distrarsi, eccetera eccetera.
Come se
fosse stato un bambino in attesa all’ospedale, un
bambino che non doveva rendersi conto di quello che stava per succedergli.
No. Lui,
da quell’ospedale, non sarebbe uscito mai più.
Due mani
si posarono sulle sue spalle, stringendole con delicatezza. – Sei stanco? – Bill riaprì gli occhi e si irrigidì.
- Un po’,
sì – borbottò, cercando di sottrarsi alla stretta di sua madre senza destare
obiezioni. D’accordo, le era grato, ma tutta
quell’apprensione gli faceva montare in corpo un’irritazione tale che sovente
si trovava a chiedersi se un giorno non avrebbe perso le staffe.
- Dài, ti manca meno di un’ora – la sentì dire con tono
accondiscendente. Fantastico, solo un’ora. Come se quello
potesse cambiare le cose.
- Lo so – ribatté, stavolta senza curarsi di non apparire
scontroso. Riaprì il catalogo che aveva messo da parte poco prima, come a dire
“ho da fare, lasciami in pace”.
Seguì una breve pausa di silenzio alle proprie spalle.
- Ok,
allora… magari avvisami, quando stai per andare – concluse
Simone, in tono un po’ meno allegro.
-
D’accordo – tagliò lui senza voltarsi. Rimase immobile per qualche secondo, in attesa. Silenzio, poi rumore di passi che si
allontanavano, e poi un vocio poco più distante.
Si lasciò
andare a un lungo sospiro, appoggiandosi allo
schienale. Qualche volta avrebbe voluto mordersi la lingua. Sua madre era
l’unica con cui, ogni tanto, riuscisse a parlare. L’unica che gli infondesse un po’ di tranquillità. Magari
non bastava a farlo dormire la notte, ma si accontentava di poco. La serenità
rientrava nell’elenco di cose che gli mancavano del tutto, dunque non poteva
lamentarsi. Ma anche con Simone, spesso e volentieri,
Bill non riusciva ad aprirsi più di tanto. Il parlare con lei non era altro che
una distrazione, un’occasione per non rimuginare.
Ormai
bastava poco per farlo cedere al nervosismo, e Bill non faceva nulla per
cambiare. Aveva già fatto più che abbastanza, e se al mondo non andava bene il
nuovo Bill Kaulitz, beh, che andassero tutti…
Driiin.
Bill
spostò bruscamente la pila di cataloghi e si allungò sulla scrivania nel
disperato tentativo di raggiungere il telefono. Afferrò la cornetta prima che
le sue manovre causassero la rovinosa caduta
dell’apparecchio, e la trasse repentinamente a sé. – Agenzia Trümper, buona sera – esalò, ancora steso per metà sulla
scrivania.
Gli giunse
alle orecchie un’allegra voce femminile e un cognome che doveva aver già
sentito da qualche parte.
- Ah, sì –
disse con voce piatta. A un orecchio ben esercitato,
quella sarebbe risultata una chiara simulazione, ma la donna dall’altra parte
del filo non sembrò prestarvi attenzione. – Mi dica –
- Avevo
chiamato la settimana scorsa ed eravamo rimasti un po’
in sospeso, si ricorda? –
- Certo –
proseguì Bill, senza muoversi di un centimetro. Però, garrula, la signora…
- Ecco,
volevo appunto fissare per quel viaggio che le dicevo
la settimana scorsa – Gli sembrò quasi di vederla sorridere. – Sa, quando ci
siamo sposati, io e mio marito non abbiamo avuto la
possibilità di andare in luna di miele, così adesso che c’è anche il bambino,
vorremmo goderci un piccolo stacco… -
Presumibilmente
la donna continuò a parlare, ignara che, all’altro capo del filo, nessuno la
stava più ascoltando, anche se il ricevitore era ancora stretto in una mano
pallida e tremante.
Haylie sorrideva, guardandolo di sottecchi e giocherellando con un angolo
del lenzuolo.
Era semplicemente adorabile. Una
bambina… la sua bambina.
Bill scivolò al suo fianco,
passandole un braccio intorno alla vita. Erano passati quattro mesi da quando erano tornati alla loro vita e non si era mai
sentito così felice. – Ma lo sai che sei bellissima? –
le sussurrò all’orecchio, sorridendo sornione senza curarsi del tono quasi
infantile della sua domanda.
Haylie ridacchiò, scuotendo la testa. – E tu lo sai
che sei sdolcinato da morire? – Bill si finse meravigliato.
- Tesoruccio,
cosa vai a pensare? – cantilenò. – Se mi dici questo mi ferisci
a morte, luce dei miei occhi! –
A quel punto, Haylie
scoppiò a ridere, tirandogli una cuscinata sulla
testa. – Ehi, che ho detto?! – protestò lui, mettendo
su un finto broncio.
- Niente, mi prendi solo in giro! –
Bill spalancò gli occhi, portandosi una mano sul petto.
- Io? Prendere in giro te? Per
carità! – Haylie gli fece una smorfia, poi lo
abbracciò all’altezza della vita e si accoccolò contro di lui.
- E la sai
un’altra cosa? – Bill sorrise, scuotendo la testa. – Ti amo –
- Sei sdolcinata
da far schifo – ribatté, simulando un’espressione disgustata. Haylie sorrise, appoggiando l’orecchio sul suo petto nudo.
- Sento il tuo cuore… - mormorò,
mentre la sua mano sfiorava i fianchi di Bill. Il ragazzo non poté trattenersi
dal sorridere, accarezzandole i capelli mentre lei
restava lì ad ascoltare quei battiti lievi e regolari.
Lei era più della ragazza che
amava, era più della persona con cui voleva passare il resto della sua vita.
Lei era un dono del cielo, lei era l’essenza di tutti
i suoi desideri.
Le baciò dolcemente la fronte.
C’era un pensiero che gli frullava in testa da qualche tempo, una domanda che
gli martellava nel cervello e che avrebbe voluto porle. Non sapeva come mettere
insieme le parole, aveva paura che Haylie le
interpretasse nel modo sbagliato. Come se potesse pensare che
lei non gli bastasse, o come se lui volesse rievocare ricordi poco felici.
Ma non era così.
Proprio perché la amava voleva
chiederglielo. Era una domanda impegnativa, sì. Niente proposte di matrimonio,
certo, ma comunque qualcosa su cui riflettere.
Bill riuscì a decidersi solo quando Haylie riaprì gli
occhi e gli rivolse quel sorriso che non mancava mai di mandarlo fuori di
testa. Mise una mano sulla sua, ancora appoggiata sul suo petto.
- Tesoro, volevo dirti… - Lei
annuì, sorridendo ancora. Ecco, il coraggio era tornato. Bill prese un bel
respiro…
Dall’altra
parte del filo, non si sentì altro che un tonfo sordo.
- Tutto
bene? –
Bill si
lasciò sfuggire un rantolo, e quasi non vide il
catalogo che aveva fatto cadere giù dalla scrivania. – Io… sì… - balbettò a mezza voce, rendendosi conto di non poter neanche più
reggere la cornetta, tanto era sudata la sua mano. – Mi scusi, ho… un
imprevisto… non… La richiamerò io… -
- Non… non
si preoccupi – fece la voce della donna, alla quale però
seguì solo un prolungato tuu-tuu.
- Pronto? E’ ancora lì? Pronto! –
Ma il
ricevitore era già stato sbattuto al suo posto con violenza, e la sedia dietro
la scrivania era vuota.
Bill si
lasciò cadere con la schiena contro la porta d’entrata dell’agenzia, subito
dopo aver mollato la cliente al telefono ed essere praticamente
scappato fuori. Si prese la testa tra le mani, ansimando come se avesse corso
per chilometri.
Il cuore andava a mille, poteva sentirlo rimbombargli nel petto. La
fronte era madida di sudore, le mani gli tremavano
ancora. Bill si appoggiò con le braccia al muro dietro di lui, chiudendo gli
occhi e continuando a buttar fuori l’aria con un certo affanno.
Deglutì e
rimase immobile, aspettando che il respiro si regolarizzasse. Doveva imparare a
controllarsi, non poteva mettersi a ricordare durante le telefonate dei
clienti… Ma perché doveva essere sempre lui a prendere le telefonate di certi
clienti?!
Quando gli
parve di essere tornato più o meno presentabile, si
staccò faticosamente dalla parete e rientrò in agenzia, sorreggendosi alla
porta. Sospirò e si passò una mano tra i capelli, cominciando a chiedersi se
non soffrisse anche di claustrofobia.
- Bill! –
Perfetto. Ci mancava solo sua madre. – Bill, che hai? – Simone lo raggiunse a
passo svelto, una nota di angoscia nella voce.
- Niente…!
Tranquilla, non… non è successo niente – Lui stesso si rese
conto di risultare poco credibile.
- Chi era
al telefono? – gli chiese infatti Simone. Bill strinse
i pugni, sospirando stancamente. Non aveva le energie necessarie per difendersi
da quell’attacco di iperprotezione.
- Non lo so, ho dovuto chiudere. Non mi sento bene –
A sua
madre, ovviamente, non bastò. – Bill, cosa… -
- Posso
andarmene adesso? – la interruppe debolmente lui. Simone lo guardò interdetta
per qualche secondo.
- Certo –
disse infine. – Certo… vai pure – Bill produsse uno
dei suoi finti sorrisi, e fece per andarsene senza aggiungere una parola. – Mi
raccomando, Billy… -
- Lo so – tagliò corto lui, mentre il sorriso scompariva dalle sue
labbra. – Lo so, mamma. Ci vediamo domani –
E uscì
senza attardarsi di un solo secondo, perché altrimenti sua madre avrebbe
assistito in diretta alla seconda crisi di panico.
Casa, casa, casa. Voleva solo tornarsene a casa.
…
Tom si
grattò nervosamente la testa, rigirandosi tra le dita il foglietto ormai mezzo
sbrindellato. Si sentiva incredibilmente idiota a star fermo lì, davanti a
quella che, secondo l’indirizzo che gli aveva dato sua madre, doveva essere la
porta dell’appartamento di Bill.
Le
possibilità erano due: o si decideva subito a bussare, o se ne tornava indietro
senza lasciar traccia.
Erano
quasi le dieci di sera e c’erano tutte le premesse perché il suo tentativo
fallisse. Ma se non avesse provato, non l’avrebbe saputo mai, quindi si limitò
a tirare un profondo respiro, chiudere gli occhi e premere il
campanello prima che un qualsiasi agente esterno gli facesse cambiare
idea.
Aspettò
per secondi che gli parvero ore prima di sentire lo scattare della serratura e
un leggero cigolio accompagnare il lento aprirsi della porta. Doveva essere
ancora un po’ confuso, fatto sta che tutto quello che
riuscì a focalizzare fu una sola informazione: suo fratello, in piedi sulla
soglia, lo guardava con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a
fessure.
- Tu qui? – lo sentì sibilare, mentre un lieve scricchiolio gli
annunciava che Bill si era aggrappato alla maniglia con tutta la forza che
aveva in corpo. Non riuscì a fare altro che sorridere nervosamente.
- Ehm…
ciao Bill –
Idiota.
Sei un emerito idiota. E’ una settimana che ti prepari discorsi degni di un
convegno per farti accogliere da tuo fratello, e ora che ce
l’hai davanti non sai dirgli altro che “ciao”?
- Cosa… che cosa vuoi? – lo aggredì la voce di
Bill, mentre il suo proprietario rimaneva incollato alla porta.
- Io sono… beh… tornato… - farfugliò Tom totalmente spiazzato, il
sorriso ancora impigliato tra le labbra. Non si era aspettato che Bill gli
saltasse in braccio, però neanche che gli rivolgesse quello sguardo. – Volevo
solo… sapere come state, ecco… Tu, Haylie,
la… - Deglutì, incapace di continuare. Bill lo aveva fulminato con lo sguardo,
e quegli occhi sembravano tanto carichi di odio da
stroncare le sue parole sul nascere.
La mano del moro strinse convulsamente la maniglia.
- Haylie è morta! – ringhiò, subito
prima che Tom lo vedesse scomparire, accompagnato da uno schianto. Furono
necessari un paio di secondi perché si rendesse conto che Bill gli aveva chiuso
la porta in faccia. Tutto quello che l’istinto gli suggerì di fare fu di
tempestarla di pugni.
- Bill! Bill, apri! – Nessuna risposta. Tom rimase
immobile per qualche istante, poi sferrò un calcio alla porta. – Per
favore Bill, aprimi! –
Subito dopo, sentì una voce provenire da sopra la sua testa. –
Silenzio! Qui c’è gente che dorme! – Non fece neanche in tempo a vedere l’uomo
anziano che si era affacciato dal balcone del primo piano, ancora stordito
dalle parole con cui Bill aveva troncato la loro –peraltro brevissima-
conversazione.
Cosa voleva dire… Haylie è morta?
Tom fece un rapido calcolo, per quando la sua
poca lucidità glielo permettesse. Dunque. Bill non
aveva ancora smaltito il risentimento nei suoi confronti. Doveva anche essere
successo qualcosa con Haylie, qualcosa di serio,
perché, d’accordo, quando Bill era frustrato era capace di prodursi nei deliri
più disparati, ma… dal delirare a dare una persona per morta…
Perché se fosse morta davvero,
Bill non lo avrebbe liquidato così. Era inconcepibile. Semplicemente non era
possibile.
Che la
sua partenza non avesse giovato alla loro riconciliazione?
Dovevano
essersi lasciati… e chissà da quanto tempo. E allora,
la bambina? Che fine aveva fatto? Sì, doveva essere
successo qualcosa di terribile se Bill era così accanito nei confronti di Haylie. Del resto, non c’era poi tanto da stupirsi se aveva detto che era morta. La sua storia con quella ragazza
era stata tormentata fin dall’inizio… Dunque era questo che Bill voleva,
cancellarla per sempre dalla propria vita?
Tom voltò
le spalle alla palazzina e si avviò in strada, a testa bassa e con il trolley al seguito.
Le domande
erano troppe, ma una più di tutte adesso gli premeva:
e se sua madre fosse già andata a dormire…?
“Eppure
non son sempre stato nessuno,
perché non mi apre nessuno
che sappia colmare il vuoto che é in
me?”