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Autore: niiietta    27/08/2014    0 recensioni
Era lo scoppiettio del fuoco. La brezza fresca d'estate. Il cuore di corde, pennate alle voci. Felpe profumate di sapone, alberi lucidi e bruni.
Vento fresco, brividi alla pianta dei piedi. Morbidezza di caramella, agli occhi fiocchi di neve, secche stagioni, cafféllatte, panna, torte al cioccolato e gelsomini. Muoversi di musica, limpide risate.
"E lì restavamo,
Fermi come le stelle sui boschi.
Così felici,
Il calore sembrava autentico in quelle ossa.
E quando il vecchio pino cadde cantammo,
Solo per benedire quel mattino.
Cresciamo, cresciamo, costanti come il mattino, felici come una nuova alba, costanti come i fiori.
Cresciamo, cresciamo. Diventiamo ancora più grandi."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo settimo

Scrosciare di crema

 

«Tu pensi seriamente che qualcuno lascerebbe a me suo figlio? Si certo!» esclamò, scoppiando a ridere e riempiendo, come al solito, i corridoi fra le aule.
«Sì, forse hai ragione» non rise nemmeno l’altra, continuando a far scorrere gli occhi fra i fogli di quel piccolo plico che aveva accuratamente fatto stampare contenete concorsi e annunci di piccoli lavori. «Dogsitter non se ne parla - continuò a risponderle - se non ti lascerebbero guardare dei bambini, allora nemmeno degli animali... forse... non so... potresti chiedere a qualcuno se puoi dare una mano in negozio, a casa... come ho fatto io con mio padre!»

«Certo, tu hai tuo padre con la pizzeria... - sbuffò lei, portandosi dietro un ciuffo scuro di capelli - Io a chi potrei chiedere?» le domandò.
«Scusami, non avevi tua zia con la farmacia? Potresti chiederlo a lei» le propose l’altra.
«Mia zia? Ha fin troppi problemi, non credo mi potrebbe essere d’aiuto...» sospirò, scoraggiandosi.
I passi camminavano all’unisono, uniti più dall’amore che dagli anni. E si tenevano sottobraccio, perché erano sempre state qualcosa che andava oltre, di quelle che profumano e non possono essere sporcate se scritte.
E «Ragazze!» le distrasse una voce, prima che un coro di “Nick!” si levasse nell’aria gremita e perché gli corressero incontro, abbracciandolo.
I soliti baci, i soliti saluti. Vociare di corridoio, qualcuno derideva e altri ridevano. Varie conoscenze, quelle persone con la quale forse non hai mai scambiato neanche una parola ma che conosci, che ti conoscono e che saluti col sorriso.
Nick era occhi grandi e gentili e «Perciò resta a te da trovare un lavoro» concluse, dopo un discorso in cui entrambe gli avevano raccontato che cosa stavano cercando.
«Sì... non ho proprio idea di che cosa fare!» rise lei, con quel suo sorriso grande che faceva un po’ innamorare tutti e che la rendeva forse più piccola e incosciente.
Nick pensò, soppesò. Poi l’idea lo illuminò e sorrise verso di lei.
«So io come aiutarti».

La vita scorre. Una sequenza frenetica di persone, viaggi, passioni, apatie che coagulano e addensano.
Forti dai crudi, risanati dai morbidi, scorgiamo e cadiamo, incrociamo. Persone e luoghi, fatiche, per arrivare. Pene a costruire, incastrare.
Poi, è un attimo.

La luce scoppia, irradia.
E tutto finisce.

O si capovolge, si rialza.

E patisce.

Annalisa

 

L’aria fredda di Novembre mi stava entrando nelle ossa.
Quanto freddo faceva? E fosse quello l’unico problema! Pioggia, freddo, pioggia, freddo. Vento e pioggia.
Dov’era la mia isola?
Il mio mare, dov’era?
In Sardegna, il freddo non era poco ma il mare si sa che si può sempre scappare a vederlo, cautamente e silenziosamente. Lui che è la poesia più travagliata che esista. La musica più impetuosa di calma e gloria.
Giravo con la mia piccola agenda.
Osavo romperle, ora. Forse perché era l’unico mio disordine che avevo bisogno di distruggerle.
Mucchi di pagine bianche fatte a pezzi e incastrate fra le altre pagine, colori interi di nero e immagini, poi frasi, forse poesie. L’avevo racchiusa in lacci e graffette che quasi mi ricordava i book di Isabella ed i suoi occhi quando immersi nel loro indecifrabile andare impressi dentro.
Giravo, nella mia giornata di pausa, e ripensavo ai giorni in cui era impossibile, per me ed Isabella senza l'una o l'altra. Strano, a dirsi, eppure era così.
Se c’era un qualcosa da fare, dei momenti in cui pensare, lo si faceva insieme. Non che ognuna non avesse una propria linea di pensieri ma la si condivideva, come un qualcosa di spontaneo e involontario.
Poi le cose semplicemente erano cambiate ed era difficile poter tornare indietro. Ci eravamo abituate così tanto a star da sole che qualche momento, anche se ora la nostra amicizia non aveva alcun problema, lo dedicavamo a noi stesse.
Ed un esempio pratico era la nostra scuola. Quanto sarebbe stato ovvio tornar insieme, utilizzare gli stessi mezzi di trasporto, la stessa strada?
Frequentavamo lo stesso posto eppure andavamo per strade diverse. Lei con la sua metro, io nei miei autobus, a perderci nella strada di ritorno, allungarla, dilatarla per poi ritrovarci a casa ed essere sempre le stesse. Non che non ci rivolgessimo la parola fuori o quant’altro, semplicemente c’erano dei momenti silenziosi in cui nemmeno i nostri silenzi parlavano più.
Quando ci pensavo, non riuscivo più a trovare qualcosa che mi tirasse fuori della mia bolla di pensieri.
Sapevo bene cosa aveva provocato tutto questo e semplicemente, ora, andava così. Quando stavamo insieme tutto pareva tornare al principio ma bastava un attimo e ci ricordavamo di essere diverse. Perché nell’affrontare quel lasso di tempo da sole si erano persi quei momenti importanti della vita che non possono essere recuperati. Ormai erano andati via.
Cercai di non impazzire dal freddo e mi lamentai, sbrigandomi verso la fermata.
Quando salii sul bus chiusi l’ombrello – totalmente inutile – e mi lasciai in nuvole calde di fiato.
Presi il primo posto disponibile, vicino al finestrino.
Conoscevo gli orari meno frequentati, i luoghi con meno persone ad aspettarlo e la maggior parte delle volte, un posto, riuscivo a prenderlo.
Aprii ancora l’agenda e, lo sguardo fuori dal finestrino, rilessi quelle poche righe che ero riuscita a scrivere e puntai gli occhi al cielo.
Louis... alla fine, non ha nevicato.
Quel freddo continuava ad esserci ma la neve pareva sia vicina che lontana. Con quella pioggia non sarebbe potuta arrivare di certo, non nell’immediato, così mi chiesi se anche il suo male si fosse sciolto, placato, e non fosse tuonato.
Poggiai lo sguardo ancora fra le righe bianche create fra le parole e sospirai.
Parole sulla neve, parole sul cielo. Parole che erano quelle che ci eravamo detti e mi chiesi perché erano state proprio quelle a fuoriuscire dai pensieri dritte sul foglio senza che le potessi controllare.
Tutto questo mi scaldava e contemporaneamente mi rendeva inquieta.
Era complesso definire cosa realmente pensassi e cosa sentissi e quel foglio sembrava volesse parlare per me.
Sospirai ancora, sfogliai svogliatamente l’agenda, senza uno scopo, la parte non scritta, finché non la riallacciai e la chiusi.
Spazio solo per la musica e il bianco, mi accorsi che era da un po’ che non guardavo così il cielo. Avevo letto da qualche parte che il primo segnale della tua tristezza era non guardarlo ma guardare le strade, durante il tragitto sul bus.
Era vero?
Arrivai a alla fermata del secondo bus per prendere poco dopo l’altro.
Fu abbastanza veloce l'ultimo tratto a piedi e in pochi minuti nella via di casa. Quando fui vicina rischiai d’inciampare e ruzzolare a terra per tutta quell’acqua e ci arrivai perciò imprecando come una pazza.
Poi, all’inizio della strada, vidi un Range Rover dirigersi - quasi m’inzuppava - verso il garage.
Era Harry?
Un attimo e decisi di aspettarlo, giusto per poterlo salutare.
Ieri ci eravamo divertiti molto, avrei potuto chiedergli come stava e magari fare la strada insieme.
Poi però scese dalla macchina ed io, stretta nel mio montgomery, mi bloccai.
Aveva una strana espressione, pareva preoccupato, e, stringendo più forte l’ombrello, decisi di non aspettarlo ma di andargli incontro.
Quando mi vide si aprì in un piccolo sorriso.
«Ciao» mi salutò, pigiando per chiudere l’auto con l’antifurto.
«Ciao a te» gli sorrisi, cercando di essere il più convinta possibile, ma ci pensò lui a smontare il mio tentativo con quel un sospiro.
Non gli chiesi subito che stesse succedendo, anche se avrei voluto farlo.
Prima gli chiesi di fare la strada insieme, poi come stava.
Lui, arrivati dentro, si scompigliò i capelli, schizzando fini gocce d’acqua, e restò perso fra i suoi pensieri mentre mi disse di star bene, un po' incerto
Forse era successo qualcosa con Isabella?
Nel caso non erano fatti miei però... ero preoccupata per lei. E per lui. Al solito...
M'imposi di far finta di nulla – nel caso si fosse trattato di Isabella e io avessi potuto dargli una mano, me ne avrebbe parlato lui come l’ultima volta – e, sospirando piano, gli chiesi : «Come sta Louis?», distrattamente.
Le sopracciglia si aggrottarono e potei rivedere la stessa espressione di poco prima. Non capii.
«Non saprei dirtelo perché... non so dove sia finito» sospirò.
Spalancai un poco più lo sguardo e... «Cosa significa?», gli chiesi.
Mi guardò e vidi che sorrideva ma era solo per... non lo so perché.
«Stamattina, quando mi son svegliato, in casa non c’era. Ho provato a chiamarlo ma non mi ha risposto perciò... non saprei cosa risponderti».
Qualcosa creò un vuoto all’altezza dello stomaco e mi vergognai di me stessa.
Perché?

 

Louis

 

La strada sfrecciava e non vedevo.
L’unica cosa premuta a fuoco erano i suoi occhi. I suoi occhi, quei suoi occhi. M’infuriavo e acceleravo.

Eleanor guardami. Non scostare i tuoi occhi, guardami.
«Allora cosa vuoi fare?» mi chiese e la voce le tremava un po’.
Ti avevo detto ciò che pensavo. Ti avevo detto che anche stavolta, non mi avevi chiamato. Ti avevo chiesto se ti importava qualcosa di ciò che ti avevo detto alla festa. Ti avevo chiesto perché non mi rispondevi.
Mi avevi tolto ogni energia, tanto che stavolta dal principio non ero riuscito a urlare.
Tu in silenzio, solo in silenzio.

Acceleravo, acceleravo. Quelle cazzo di immagini, non smettevano.

Tu solo in silenzio e non vedevi.
Perché non vedevi? Ti stavo chiedendo di fare qualcosa. Ti stavo chiedendo di non dirmi, in quel modo, che non mi amavi davvero. Ti stavo chiedendo di non distruggere tutto quel tempo passato insieme. Ti stavo chiedendo di farmi ricredere, di dirmelo, di provarlo, forte, quanto ciò che dicessi non fosse vero.

Perché, perché dovevo continuare a pensarci? Perché dovevo continuare a bruciare in quel gelo? Perché doveva essere maledettamente freddo?

Ogni mio gesto, ogni mia singola parola ti chiedeva di dirmelo, che mi amavi. Di farlo, solo di farlo.
Ma tu in silenzio, solo in silenzio.
E allora capii. Capii che non c’era nulla fa fare. Capii che non c’era nulla da dirmi. Capii che non c’era nulla da rimettere in sesto. Capii che non c’era nulla di cui dovevo ricredermi, da provare, nulla che non fosse vero. Capii che non potevi dirmi d’amarmi perché...
«Lasciamoci» strozzai la voce.
Dopo tutto quel tumulto, il cielo a ingrigirsi, le nocche a dolere e tu «Va bene», sussurrasti.
Vidi i tuoi occhi piangere e solo in quel momento mi guardasti.
Era tutto lì il nostro amore? Era quello, ciò che avevamo passato insieme? Era quello?
Era nulla.

Spaccai la voce con altri respiri, le tempie a pulsarmi.
Che non vedevo più, non capivo più, non sentivo più.
Correre per la strada di ritorno - ritorno a casa? Ritorno dove? - e sentir bruciare freddo. Pioveva, pioveva e la neve era così distante. Così distante che tuonava, tuonava e non avrebbe nevicato. Non ci sarebbe stata neve, nessuna calda neve.
Annalisa, nessuna neve.

 

Harry

 

Avevo bisogno di rilassarmi.
Louis era sparito - anche gli altri ragazzi l’avevano chiamato ma lui non aveva risposto, così supponemmo si trovasse con Eleanor per non mettere troppe persone in allarme -, niente da fare intorno e nemmeno a casa. Perciò che fare se non uscire da solo?
La sera era già densa e il cielo, già buio, continuava ad essere tormentato da nuvole che minacciavano pioggia. L’umido s’incollava alla pelle ma ormai ci ero abituato. Ero uscito a piedi, avevo preso la metro, incontrato qualche fan e, al solito, non mi preoccupavo di essere fotografato, seguito, visto.
Ma solo quando fui quasi certo di non essere notato m’infilai in un locale, in una di quelle viuzze vicino al fiume e al London Eye. Un via vai di persone, vivace, mi convinse a sedermi su un tavolino, vicino alla finestra, e aspettare per prendere qualcosa da bere.
Le pareti riportavano le piastrelle chiare che componevano la facciata all’esterno e il color panna era un po’ ovunque. I tavoli, gli sgabelli, le panche, tutto era in legno non troppo scuro e la quantità di cartelli con dei menù per colazioni e pranzi, compresa la clientela, mi convinsero che quello doveva essere un posto frequentato principalmente da studenti.
Tracciai linee sul vetro appannato, scaldandomi d’odore morbido.
Seguivo le gocce di pioggia che intanto aveva ripreso a scrosciare quando l’arrivo della cameriera a chiedermi se volessi ordinare mi fece sobbalzare. Spalmando una mano sopra, subito cercai di cancellare i ghirigori che avevo creato non risolvendo niente. Cazzo...
Mi voltai e fui pronto a far finta di nulla e a trasudare nonchalance ma... mi accorsi piacevolmente che la cameriera ad avermi colto di sorpresa altri non era che Isabella.
Tutto era strano oltre che maledettamente complicato.
Quei giorni, stavano passando così diversamente che non riuscivo più a star loro dietro. Come se la vita scorresse frenetica ed io fossi lì, sotto, a prenderne la piena e non capirci più nulla.
Sorrisi fortissimo e vidi lei aprire un po’ più gli occhi tanto che non feci in tempo a pronunciare il suo nome che lei: «Harry?» fece, fra il confuso e il sorpreso e scoppiai a ridere.
«Ciao» la salutai, sentendomi riempire gli occhi.
Le sue ciglia scure e quegli occhi caldi mi fecero sospirare piano. Pianissimo.
«Che cosa ci fai qui?» mi chiese e risi di nuovo.
«Non lo so. Ero qua in giro e sono entrato nel primo locale che mi è capitato. E ho fatto bene» le risposi, sincero. Ero felice di vederla, anche se l’ultima volta in cui ci eravamo visti era stato il giorno prima e non era stata una delle volte migliori.
Quasi mi ero dimenticato di tutto quello che era successo - di ciò che ancora non capivo – e vederla mi aveva reso felice... senza pensarci.
«Sì... - sospirò lei, prima di mettere su un blocchetto d’appunti e una penna - Allora, cosa posso portarti?» mi domandò.
Mi inumidii le labbra e cercai di restare lucido - ora che l’avevo vista, avevo voglia di parlare con lei - quando, la prima cosa che mi venne in mente, «Un caffè» ordinai.
Non appuntò e vidi le sue palpebre agitarsi, come il giorno prima, prima che si congedasse e tornasse alle sue faccende. Potrei giurare che le sue dita, in quel momento, avrebbero voluto pizzicarsi i jeans.
Come il giorno prima...
Sorrisi, guardandola, e aspettai il mio caffè pazientemente.
La musica, ora, pareva più chiara alle orecchie, col vociare degli altri.
Strano. Strano, come tutto pareva avesse seguito la luce che si portava addosso. Come ogni suo movimento mi aveva fatto sorridere. Lei, che cercava di ignorarmi ed io mi ritrovavo a ridere.
Che cosa potevo fare? La bocca fremeva dalla voglia di chiederle di fermarsi al tavolo, sorridermi in quel modo meraviglioso - i suoi occhi, davvero, sapevano scaldarti come il liquore più forte - e parlare.
Semplicemente parlare con lei.
Che quando la vedevo sentivo che non avevo più voglia di stare da solo.
«Ecco il caffè» sospirò, portandolo e posando la tazzina e lo zucchero attentamente più che come un gesto abituale.
«Grazie» le dissi, in italiano.
Mi lanciò uno sguardo e notai gli angoli delle sue labbra sollevarsi ma trattenersi prima che scuotesse la testa.
«Prego» mi disse e... feci finta di capire.
«A che ora stacchi?» le chiesi.
Lei stava già per andar via e la fermai in tempo.
«Tardi - mi rispose, vaga - Perché?»
Perché... perché...
«Ti aspetto. Torniamo insieme.» le dissi, senza spiegare o aggiungere altro.
Corrugò le sopracciglia e aprì la bocca cercando di dire qualcosa. Poi sembrò incupirsi e semplicemente annuì prima di dirmi «Torno a lavoro» e non cercare nemmeno di distogliermi dal farlo, così come avrebbe solitamente cercato di fare.
Tenni la tazza di caffè tra le mani e aspettai.
Pazientemente, aspettai.

 

Annalisa

 

Aspettavo.
Incollata a quel vetro, aspettavo.
Le finestre della casa in cui abitavamo erano così fredde e rumorose, con quel picchiare di pioggia. Fredde come i mobili, fredde come il divano. Fredde come la poltrona che avevo avvicinato alla finestra per poter stare più comoda. Fredde come il cellulare che tenevo in mano.
E la pioggia scivolava, scivolava e restavo da sola e mi dicevo che era il ritorno di Isabella che stavo aspettando, ma non era così.
Aspettavo, aspettavo e non era nemmeno Damon che aspettavo.
Tutto, tutto il giorno, un chiodo fisso a tormentarmi. E quell’acqua a piovere, piovere, piovere fitta e nelle ossa sentivo solo il freddo di quando ero fuori casa, nella pelle solo i brividi del vento.
E aspettavo, aspettavo stretta nel mio maglione.
Mi dicevo che avrei potuto accendere la tv e non lo facevo. Mi dicevo che avrei potuto accendere il computer e non lo facevo. Mi dicevo che avrei potuto leggere e non lo facevo. Perché tutto il giorno era stato un’occupazione finché sapevo che, arrivata la notte, sarebbe finita così: sul letto sarebbe stata troppo lontana la finestra. Dalla mia camera, non avrei visto la strada. Dalla mia camera, non avrei potuto sapere.
Mi stringevo, mi misi sulle spalle una coperta. Sospirai.
Avevo gli occhi spalancati a dolermi e sapevo non sarei riuscita a dormire.
Ed Isabella, prima di uscire di casa per andare a lavoro, me l’aveva chiesto, se volessi andare con lei. Avrei mangiato qualcosa al locale e mi sarei distratta. Invece no, no.
Come una stupida le avevo detto che stavo bene, che avrei studiato, mi sarei riposata e ora?
Ora riuscivo solo ad odiarmi per essere lì dov’ero.
La notte era inoltrata, la cena lontana di qualche ora.
Tante, diceva il telefono.
Mi chiesi per quanto sarei stata lì. Mi chiesi se avevo davvero intenzione di stare lì.
E mi guardavo le mani e guardavo il cielo. Quella pioggia non si placava, solo per quello non potevo spostarmi.
Diedi un’occhiata al cellulare quando il rumore di un’altra macchina colpì la pioggia e mi distrasse. Guizzò veloce, il nero, prima che il petto mi esplodesse dall’ansia e lo vedessi scendere dalla macchina.
Qualcosa mi disse di andare da lui. Quella voce che mi diceva che avrei potuto fare qualcosa, quella voce che mi diceva che avrei potuto aiutarlo.
Sentii gli occhi pungermi, da quanto ero stupida, che sospirai più forte e seguii la sua immagine finché non entrò nel palazzo, dal portone che dava solo a casa loro.
Chi ero, io? Che cosa volevo? Che cosa avrei potuto fare?
Voce, stai zitta. Preoccupazione, stai zitta. Io non c’entro niente.

Come un tuono, era passato.
Il vento continuava a picchiare, la pioggia a scendere.
Stretta nella mia coperta, infilarmi nel letto freddo, fu ancora peggio.

 

Isabella

 

Il locale stava ormai per chiudere e, per l’ennesima volta, mi ritrovai, brusca, a sospirare.
Era stato lì. Tutto il tempo, lì. A farsi portare un piatto caldo da mangiare, a stuzzicarmi quando passavo vicino al suo tavolo. A guardarmi. E a stare lì. Da solo, stare lì.
Solo ad aspettare mentre la decisione che avevo preso già vacillava.
A casa, mi ero convinta a trovare un punto. Un punto in cui io, dalle sue attenzioni, non mi sarei lasciata toccare e in cui lui sarebbe stato solo un... vicino? Un conoscente? Amico?
Sarebbe stato Harry. Semplicemente Harry. Harry a spuntare ovunque, Harry a farmi sentire in colpa quando lo mandavo via, Harry a ridere forte, Harry a darmi il tormento...
Harry. Semplicemente Harry.
Per questo avevo deciso di lasciar stare. Lui non c’entrava niente, con la mia situazione. Lui non sapeva nulla e col nulla mi sarei potuta arrabbiare, prendendomela con lui.
E cercavo, davvero, di continuare a vedere tutto con quell’ottica. Di non lasciarmi toccare, di non preoccuparmi di lui. E invece... e invece, anche ora, mi dispiaceva fosse lì ad aspettarmi. Mi dispiaceva vedere i suoi occhi guardarmi così. Mi dispiaceva il fatto che lui mi stesse aspettando.
Mi dispiaceva.
Non riuscivo a lasciarlo fare, Harry aveva qualcosa di diverso. Non potevo semplicemente ignorarlo o essergli amica. Semplicemente non potevo ignorare quando mi sorrideva o quando rideva per me.
Innocuo? Nulla di più sbagliato...
Ora, lo guardavo e mi sentivo agitare. Perché... perché dovevo fare qualcosa.
Questa storia doveva finire... ciò che stava succedendo, mi spaventava. Ciò che Harry faceva, mi intimoriva. E volevo che finisse, ciò che sentivo non mi piaceva e non volevo conoscerlo.
Fu così che l’orario di chiusura arrivò - Sam mi chiese se volessi un passaggio ma rifiutai - e, infilandomi il cappotto, mi avvicinai da lui. Quando mi vide s’illuminò e, ancora, mi fece male lo stomaco...
«Hai finito?» mi chiese ed io annuii.
S’infilo la grande giacca a quadri e salutai le ultime persone rimaste prima di uscire fuori dal locale.
Sollevai gli occhi al cielo e notai che aveva smesso di piovere. Non feci in tempo a voltarmi per vedere se Harry mi avesse seguita che lo ebbi al mio fianco, forse troppo vicino.
«Hai cenato?» mi chiese, sempre quel sorriso e le mani dentro le tasche.
Durante una pausa, ero riuscita a mangiare qualcosa e nonostante avessi ancora fame gli dissi: «Sì... sì, ho mangiato» fissandomi insistentemente i piedi e non dovevo essere sembrata molto convincente perché mi disse: «Ti offro qualcosa», senza ascoltarmi.
Mi faceva male il petto. Cercai di dire qualcosa per impormi ma lui mi sorrise e io... mi ero appena detta che era tutto a posto...
Gli avevo detto che era tutto a posto.
«Non ho la macchina, oggi, ma possiamo andarci in taxi. A piedi. In metro» rise, aggiungendo che non sapeva se ci fosse qualcosa aperto e che forse avrebbe dovuto offrirmi qualcosa prima.
Lo guardavo e sentivo il petto ancora più stretto.
Io... non so bene perché.
Il cielo era scuro e minacciava nuova pioggia.
Forse fu quella stessa fretta, quella stessa incombenza – quella della nuova pioggia – a farmi srotolare fuori dalla bocca: «Io amo qualcuno».
Ci fu un silenzio così grande che Harry, la mano protesa, forse a voler afferrare la mia pochi attimi prima, restò immobile a guardarmi.
Non sapevo cosa pensare. Le labbra mi tremavano, così come le dita e sentivo le palpebre sbattere, veloci, senza motivo: «Io... amo già qualcuno, Harry. Amo... profondamente questa persona. Io... non posso venire con te».
Il silenzio fu ancora più grande e lo guardai come mai l’avevo guardato. A scappare sempre dai suoi occhi, ora vi cercavo una risposta ma trovai solo una parete scura che mi ricordò il cielo di qualche notte prima.
Lo vidi chinare il viso e non so quanto tempo passò - forse qualche attimo ma a me parvero secoli - prima di poter vedere dalle sue labbra spuntare un sorriso.
«Perché me lo stai dicendo?» mi chiese.
Io... perché glielo stavo dicendo?
Non... sapevo perché.
E non potevo stare zitta.
Sollevò il viso e forse non si aspettava davvero una risposta perché: «Io non sono innamorato di te» mi disse.
Sentii sprofondare qualcosa dentro di me.
Cosa?
«Io non ho mai detto di amarti - sorrise, calmo, che nuovamente non riuscii a porre freno alle mie palpebre - Ho solo voglia di stare con te, uscire un po' insieme. E, se devo essere sincero, proprio oggi è stata una fortuna capitare nel locale dove lavori perché non mi andava di restare solo».
Faceva spallucce, continuava a sorridere e... sentii gli occhi pungermi.
«Ora... so che non hai mangiato molto, indaffarata com’eri. Perciò, andiamo a mangiare qualcosa?».
Le sue fossette erano più profonde e quella parete era sparita lasciando una chiarezza che... mi lasciò senza parole.
Quando annuii lasciai che mi afferrasse il polso per correre via, sotto un riparo.
La pioggia aveva ricominciato a battere e un taxi non ci avrebbe di certo fatto aspettare per poco tempo.





 



Bene.
È passato probabilmente un secolo da quando ho postato il sesto capitolo ma questo periodo estivo è stato così pieno da togliere il fiato...
Ora, ben felice di Harry che per una buona volta ha smontato Isabella – e ci voleva – ringrazio chi è arrivato sino a questo mio spazio in cui blatero inutilmente (?) e spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Se vi va lasciate una recensione.
Un bacio a tutti :)

  
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