17 aprile
Stasera sera sono stata a
cena con Nick. Lui, come al solito impeccabile e galante, mi ha portato in un
ristorante italiano, famoso per le pietanze assolutamente squisite.
Per tutta la sera mi ha lusingato
con carinerie di ogni genere, aprendomi la portella della macchina, oppure
sistemandomi la sedia nel ristorante.
Per un momento mi sono
sentita davvero importante: una regina, molto più di una principessa, come
mi apostrofa sempre nei bigliettini mandati insieme ai bouquet di fiori.
Ciò che non mi
aspettavo, però, è che arrivassimo così in fretta al
dopo-cena, per essere precisi appena usciti dal ristorante e per giunta in
macchina…
Diciamo che la frenesia non
aiuta molto il romanticismo.
Mentre guardavo il
tettuccio della macchina che si muoveva all’unisono con i nostri sospiri,
m’è piombata improvvisamente addosso una malinconia
indescrivibile.
Ho girato la testa,
disgustata quasi, per non vederlo più in faccia, sebbene sia
esteticamente un bel ragazzo.
Ma non era lui il
problema, a dire il vero, il problema sono solo io.
Di solito in momenti del
genere non penso mai, cogliendo totalmente l’attimo e perdendomi in
questo, come l’antico proverbio latino insegna a fare, ma stavolta non ce
l’ho fatta.
Una voce nella mia testa,
superando i gemiti di Nick, ha gridato in un modo impossibile da ignorare.
“E’ davvero
questo quello che vuoi, Kate?”
E mi sono arrabbiata. Ho
incrociato le gambe sulla schiena di Nick e l’ho attirato di più a
me per un bacio. Mi sono cibata delle sue labbra, le ho morse, divorate,
affondandoci i denti. Volevo affogare quegli stupidi pensieri, ma poi ho capito
che l’unica cosa che stavo tentando davvero di affogare era la mia
coscienza.
Sono bella, non mi faccio
scrupoli e sono capace di ottenere tutto dalla vita, tranne la capacità
di essere a posto con me stessa.
Non mi perdonerò
mai di aver scritto questo, credo, ma non voglio nemmeno cancellarlo del tutto
perché è la pura verità. Pensandoci bene, questo è
l’unico posto dove non sono costretta a mentire. Il mio diario è
diventato un qualcosa di sacro. Penso che ne morirei se qualcuno lo trovasse;
nemmeno io oso rileggere le pagine una seconda volta, dopo aver cancellato
qualche errore di punteggiatura.
L’uso di ogni pagina
dura solo pochi minuti, giusto il tempo di scrivere, poi che ci sia o meno ha
poca importanza, ma il ruolo che assume in quel minuscolo lasso di tempo, per
me è vitale.
Kate.
21 aprile
Ho avuto un po’ di
impegni in questi ultimi giorni, ma cercherò di riassumerli tutti qui
brevemente.
Lunedì, appena
tornata a scuola, ho evitato Mike ( il batterista), facendo in modo che
né Jeff, né Jason sapessero che mi aveva invitata al ballo, anche
se io non gli avevo dato una risposta definitiva.
Manca poco più di
una settimana al tanto atteso evento e sembra che sia già scoppiata una
guerra nell’invitare le ragazze più gettonate. Logicamente, la
prima di tutte sono io.
Mi è capitato di
tutto: meglio fare un bel respiro ed elencare tutto non stop.
Sono stata sommersa di
fiori, biglietti e regali da sconosciuti (anche se alcuni facevano davvero
pena…cosa vi fa pensare che io sia una ragazza alla quale piacciano gli
orsetti di peluche? Bah!), occhiate invidiose e a volte anche maligne
(prontamente ricambiate da me) da parte della componente femminile, reclami da
parte dei professori che vogliono sapere costantemente a che punto sono i
preparativi per l’accoglienza degli studenti e telefonate isteriche da
parte di qualcuna delle Gallinelle che mi hanno chiamato in panico
perché le aiutassi a trovare il vestito perfetto per il ballo (alle loro
telefonate, aggiungerei anche quelle di Patty Mason,
quella fan girl che pare ossessionata da me).
Ma una cosa
“buona” - in tutto
questo marasma di cose che ho riportato nello stesso modo caotico in cui mi
sono successe – c’è: abbiamo trovato un disegnatore con cui
rimpiazzare il povero (?) infortunato Simon Lebrosky.
E volete sapere chi è? Ma niente meno che Roxanne Miller!
Ormai non è
più un mistero come sia diventata così popolare, è
praticamente impossibile e dico impossibile (e mi costa tanto pure ammetterlo)
non parlare di lei.
E’ gentile, educata,
intelligente, sa disegnare, ha ottimi voti a scuola ed è adorata dalle
masse. Tutti credono che sarà solo grazie a lei se riusciremo ad
organizzarci in tempo per l’inizio di maggio e mettere in piedi una festa
decente, malgrado tutti i preparativi lasciati a metà o in eterna
sospensione.
Non si legge ironia nelle
mie parole? Anche se è impossibile trasmettere il suono sarcastico della
mia voce tramite il foglio, immagino si sia capito. E se non s’era
capito, lo scrivo esplicitamente.
Dopo la mia visita a casa
sua non abbiamo parlato poi molto. Roxanne è stata sempre molto
impegnata, anche se talvolta la scopro a fissarmi un tantino preoccupata, mentre
mi intrattengo con altre persone.
Suppongo tema che sveli il
segreto sulla sua famiglia, facendo decadere tutta la sua reputazione di
perfezione assoluta.
Chiunque la veda per la
prima volta, affermerebbe che in lei l’unica cosa imperfetta è
proprio quell’assurda trecciolina con cui
raccoglie i suoi capelli mogano.
Ma gli altri non conoscono
la verità che io ho intenzione di rendere nota, e ciò non ha
niente a che fare con padri scomparsi in Australia, madri che vivono con un
compagno più giovane o sorelle lavoratrici, ma con la dimostrazione che
in tutto quello che fa, soprattutto nelle sue attività perbenistiche,
Roxanne non è altro che una sporca bugiarda.
Dunque può stare
tranquilla, se ha paura che io voglia svelare qualcosa di quello che mi ha
raccontato a casa sua. Le informazioni di guerra rivelate dal nemico in
territorio ostile possono essere anche inaffidabili. Chi mi dice che quella
fosse la verità?
Non l’ho sempre
considerata una persona falsa e ipocrita?
Non esiste la perfezione. Qui parla una che si è sentita rivolgere
quell’attributo più volte.
Posso essere perfetta
nell’aspetto esteriore, con i miei capelli biondi e il sorriso seducente
di chi ha il mondo in pugno, ma se sono qui a progettare i miei piani contro
Roxanne, questo vuol dire che una faccia d’angelo non garantisce
necessariamente un buon carattere.
Proprio come la
disponibilità di Roxanne non coincide con le sue reali aspirazioni.
Nella mia lunga esperienza
con i pettegolezzi (acquistata dopo essere stata la protagonista di troppe
vicende, immediatamente insabbiate da bestioni di mia conoscenza, pronti a
malmenare chiunque sparlasse su di me) ho imparato a divulgarne solo di veri,
mostrando al pubblico tutte le prove accumulate, lasciando che lo scandalo si
scateni una volta sola e per bene, in maniera che non venga scordato tanto
presto.
Farò così
anche con Roxanne, sebbene al momento le prove accumulate in sua accusa siano a
quota zero.
Una cosa però
è certa: non accenderò solo un fuocherello, ma appiccherò
un incendio che lascerà dietro di sé solo terra bruciata.
E’ come se fosse una
sorta di vendetta, anche se non so precisamente contro di chi. Non è
tanto per Roxanne, quanto per quello che rappresenta. Probabilmente è
una vendetta contro me stessa.
Se davvero scoprissi che
esiste per davvero qualcuno come Roxanne (no, non qualcuno come lei…uno
che non faccia finta), se ci fosse davvero, credo ne sarei distrutta.
Non è che non abbia
mai saputo cosa sono i rimorsi o i sensi di colpa; a volte anche io mi sono
pentita di qualche azione disonesta, ma ho sempre avuto la consolazione che il
mondo è spietato. Se tu non attacchi per primo, hai la sicurezza che
prima o poi verrai attaccato a tua volta.
E’ per questo che io
ho deciso di essere la predatrice. Ho spezzato facilmente i cuori delle mie
prede con la stessa destrezza con cui una leonessa azzanna una gazzella. Ho
lasciato dietro di me uomini o ragazzi che mi imploravano di non abbandonarli,
proprio come gli orsi, ghiotti di carne fresca, ignorano i cadaveri morti ormai
da giorni.
C’è una
ragione per cui ferisco, ed è che non voglio essere ferita.
Avere sotto gli occhi, ma
reale ed in carne ed ossa, qualcuno con un
cuore grande così, proprio come quello di Heidi, non è
affatto consolante.
“Nessuno fa niente
per niente”: credo me l’abbia detto mia madre, cercando di
insegnarmi il giusto uso della fiducia. Peccato che io non abbia mai concesso
la mia a nessuno, tradendo spesse volte, invece, quella degli altri.
In ogni caso, questo non
è il momento di ricordare gli insegnamenti di quasi quindici anni fa.
Non mi sono mai lasciata influenzare dagli altri, perché ho deciso che
se mai avessi dovuto incolpare qualcuno di qualcosa, sarei stata solo io. D’altra
parte, però, è sempre impossibile incolpare me stessa, visto che
si tratterebbe di un’inutile perdita di tempo.
I miei sbagli, in quanto
opera mia, hanno stile.
E’ come una sorta di
marchio di fabbrica, come un tatuaggio o una cicatrice impressi per sempre
sulla pelle.
Per sempre.
23 aprile
Ieri
mi sono trattenuta dopo le lezioni pomeridiane con Roxanne Miller, in palestra,
e mi sono fermata ad osservare il suo lavoro. Ero seduta su dei materassini
ripiegati, a nemmeno mezzo metro di distanza, mentre lei se ne stava in piedi
di fronte ad un pannello bianco. Stava tratteggiando delle scritte con il
carboncino.
A
causa della scarsità del tempo a disposizione, non riusciremmo mai a
rifare tutti i cartelloni già iniziati da Simon Lebrosky
in tempo. Dovremmo perciò “integrarli” a quelli di Roxanne,
sperando che non si colga troppo la differenza.
«Mi
raccomando, però, niente murales», ho puntualizzato, mentre lei
premeva con forza il carboncino per calcare di più delle linee nere.
Ho
sentito Roxanne sorridere, senza girarsi verso di me: «Anche volendo non
ne sarei capace» ha risposto, restando sempre concentrata sul suo lavoro
«il mio stile è molto più classico».
«E
cioè?», le ho chiesto.
«Di
solito disegno paesaggi o ritratti, anche se preferisco i ritratti. Ma è
difficile trovare dei buoni soggetti, a volte.»
«Perché?
Con che criterio scegli le persone da disegnare?», ho indagato, un
po’ incuriosita da tutto quel mistero. Che fosse una disegnatrice
così appassionata non l’avevo mai saputo.
«Beh…perché
se il soggetto non mi ispira, non riesco a disegnare. Quando ottengo un buon
risultato alla fine non penso mai che sia merito mio, ma piuttosto di quelli
che hanno posato per me. Se in loro c’è quel nonsoché di speciale, allora il successo è
assicurato. Non so con quale criterio io scelga chi ritrarre: è
semplicemente una questione di occhio.»
«Quindi
è giusto una questione di bellezza», ho ribadito, piuttosto
annoiata. Perché usare tutti quei giri di parole quando la verità
era semplice ed immediata?
Roxanne
si è voltata di scatto. I suoi occhi blu erano accesi, ma indossava in
volto una maschera di cortesia. Mi ha guardato per qualche secondo senza dire
nulla, poi ha sorriso in modo mesto, scuotendo lievemente il capo.
«Direi
di no, Kate.»
E
ha ripreso in mano il carboncino, tornando a disegnare.
Ho
fissato a lungo la sua schiena, i ciuffi che spuntavano dalla treccia
disordinata, le sue spalle minute, la felpa da maschiaccio, le gambe snelle
fasciate da jeans.
Dentro
di me vibrava qualcosa: una parte di me si sentiva strana, perché era la
prima volta che lei aveva pronunciato il mio nome, mentre l’altra era
offesa, perché mi aveva trattato come una bambinetta che non è in
grado di capire, e mi aveva liquidata in quel modo.
Eppure,
la sensazione più forte che stavo provando era quella di averla in
pugno. Mi stavo avvicinando alla comprensione. Stava finalmente cedendo alla
sua vera natura. Non sarebbe riuscita a continuare a lungo con quella farsa
della ragazza buona e gentile.
Dopo
qualche altro minuto trascorso in silenzio, mi sono messa in piedi, ho girato i
tacchi e ho iniziato a cercare l’uscita della palestra.
Quell’atmosfera era opprimente e io mi sentivo vacillare un po’.
Eppure
non potevo permettermi di certo di perdere la calma, specialmente in una situazione
così delicata. Meglio fuggire via per ritornare in un momento migliore,
visto che anche Roxanne sembrava totalmente assorbita dal suo compito.
Tuttavia,
nel mio cammino verso l’uscita della palestra, sono incappata in un album
gettato nel bel mezzo del pavimento.
Mi
sono chinata a raccoglierlo, leggendo quasi per caso sulla copertina il nome
‘Roxanne Miller’.
«E’
tuo questo?»
«Oh
sì,», ha detto Roxanne, indirizzando un ciuffo di capelli
sfuggente, dietro l’orecchio sinistro.
Io
ho preso l’album in mano e l’ho portato accanto a lei. Sentivo che
c’erano vari fogli accumulati all’interno.
«Grazie»,
ha detto lei, «Oh! Eri ancora qui?»
Io
ho stretto le labbra in una linea sottile per un secondo.
«Ahahaha.», ho riso in modo isterico. Calma. Sorridi,
sbatti gli occhi e non restare rigida. «Certo sì, ero qui. Per tutto il tempo. Volevo vedere come
procedeva il lavoro.»
«Ah
bene!», mi ha risposto lei, «puoi restare a guardare se vuoi, non
mi dà fastidio.»
Allora
lei si è voltata nuovamente e io ho potuto lasciare che le mie sopracciglia
si incurvassero verso il basso in un’occhiata di puro odio.
“Zitta.
Sta’ calma. Non ti agitare, non ci pensare”, ho ripetuto queste
parole nella mia testa come se fossero un mantra karmico,
nella speranza di non lasciar trapelare la mia indignazione. Era infantile
essere arrabbiata con Roxanne, solo perché si era dimenticata di me.
Eravamo in silenzio da diversi minuti e lei pensava che io fossi andata via.
E’ una cosa assolutamente comprensibile, allora…perché mi dava
così fastidio?
Sono
sempre stata circondata da persone tremendamente consapevoli della mia
presenza. Persone che al mio cospetto erano talmente nervose da rasentare quasi
l’isterismo.
Non
è un qualcosa a cui sono abituata ed io, in genere, odio le novità, a meno che non si tratti di bei ragazzi.
A
proposito di bei ragazzi, comunque, meglio cambiare argomento. Ho conosciuto un
tipo piuttosto interessante. E’ un fascinoso commesso in una libreria in
centro, di nome Nathan Harcroff. Ha dei begli occhi
verdi dal taglio quasi orientale e la battuta sempre pronta. Probabilmente
domenica lo vedrò di nuovo alla festa dei Lansom
o magari visiterò la libreria semplicemente perché è
divertente e io voglio trovare una scappatoia alla monotonia di queste
giornate.
Stare
con gli altri ragazzi a scuola è diventato uno stress, perché
sono tutti gelosi l’uno dell’altro e io non voglio che facciano
scenate in un luogo pubblico.
Sempre
più spesso mi sono ritrovata a preferire la compagnia delle Gallinelle a
quella di Jason o Jeff. Mike, il batterista, mi cerca, ogni volta che arriva
per le prove con la sua band, ma ormai sono diventata abbastanza brava nel
dileguarmi a tempo debito.
Oggi
ho usato persino Roxanne Miller per scappare da lui e, considerando la frase di
ieri che non le avevo ancora perdonato, questo spiega quanto ero disperata.
«Vai
a disegnare, vero? Vengo con te: mi piace stare a guardare.», ho
dichiarato tempestiva, raccogliendo la borsa e allontanandomi dal campo visivo
del batterista, trascinando con me Roxanne.
Lei
è sembrata lusingata dal mio interessamento e ha annuito.
C’è
qualcosa di lei che ancora non riesco a comprendere, ma penso dipenda dal fatto
che non l’ho ancora smascherata una volta per tutte.
In
palestra, io mi sono stravaccata nuovamente sui materassini e lei è
andata a posizionarsi di fronte ai cartelloni da terminare, come il giorno
precedente. Il suo stile era chiaramente diverso da quello grezzo e bigotto di
Simon: il tratto era raffinato ed elegante. Ho visto Roxanne prendere in mano
la tempera gialla e rossa, per ricreare il colore infuocato del tramonto. I
disegni di Simon avevano come sfondo un arancio acceso, perciò Roxanne
aveva pensato di fare in modo che i vari cartelloni fossero accumunati almeno
dai colori, in modo da sembrare creati da una stessa mano.
«Ottima
idea», ho detto allora. Mi riesce difficile non esprimere il mio
giudizio, per buono o brutto che sia.
Lei
si è voltata verso di me, mischiando allo stesso tempo i colori in un
barattolo e aggiungendovi un po’ d’acqua.
«Grazie.
Mi è sembrato l’unico modo in cui poter continuare il lavoro di
Simon, senza trovarmi costretta a disegnare murales.»
A
una piccola distanza dai miei piedi, sempre gettato a terra, c’era il suo
album da disegno che avevo raccolto il giorno prima. «Posso?», ho
chiesto, indicando la copertina lercia.
«Certo,
fa pure». E poi un sorriso gentile.
Ho
preso l’album in mano, appoggiandolo sul materassino dov’ero
seduta. Non volevo metterlo in grembo per non sporcarmi i pantaloni di lino.
«Non
pensavo fossi così disposta a farmelo vedere…sai
com’è, di solito tutti gli artisti sono un po’ restii nel
mostrare il loro lavoro a qualcuno», ho commentato, con voce scherzosa.
In realtà, ero davvero sorpresa: pensavo fosse una persona più
riservata e gelosa della sua privacy.
Roxanne
si è stretta nelle spalle, immergendo il pennello più volte nella
tempera mischiata per controllarne la densità.
«Dicono
spesso che nei disegni c’è l’anima di chi li realizza. Chi
ha paura di mostrarli, ha paura di mostrare la propria anima, ma io non ho
alcun problema a far vedere la mia. Disegno per una mia soddisfazione, certo,
ma mi piace sapere cosa ne pensano gli altri. Mi aiuta a capire anche qualcosa
in più su me stessa.», ha detto.
Ho
alzato lo sguardo nella sua direzione, ma lei stava guardando da un’altra
parte. Così ho preso in mano il primo disegno custodito
nell’album.
Era
un paesaggio: un mare acquerellato, sul quale si librava un gabbiano dal becco
giallo e l’estremità delle ali nere. Tutto era in prospettiva
rispetto agli scogli sui quali stava appollaiato un pescatore, appena
accennato. Il cielo era grigio e tetro, come se fosse in arrivo una tempesta.
In
seguito, sono passata al secondo disegno. Non era colorato, ma era
semplicemente lo schizzo di una donna di colore dal labbro sporgente e dagli
occhi sorridenti. Il terzo e il quarto foglio, rappresentavano degli aquiloni,
aeroplanini di carta, o disegni di altri foglietti ripiegati come degli
origami. Erano tracciati con tante linee imprecise che sembravano quasi
fare emergere quegli oggetti dal foglio. A quanto pare il suo repertorio non si
limitava solo a paesaggi e ritratti, come mi aveva detto. Dopo il foglio con
gli schizzi degli origami, c’era un altro ritratto, questa volta a
colori, curato e dallo stile impeccabile. Mi ha fatto restare a bocca aperta.
L’ho guardato a lungo, cercando nelle ciglia della giovane ritratta, o
negli zigomi alti, o nei suoi occhi neri e luminosi, qualche imperfezione. Non
ce n’era nessuna.
Ho
esaminato il ritratto ancora per un po’ e poi…
«E’
Madison? E’ tua sorella?»
Roxanne
ha sorriso e annuito, sfregandosi distrattamente la guancia con una mano sporca
di colore.
«Oh
no! Ho tutta la tempera in faccia adesso!», si è lamentata e io
non sono riuscita a trattenermi dal ridere.
Il
viso di Roxanne si è aperto in un gran sorrisone, identico a quello
dello Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie. Sembrava che non le
importasse di essersi sporcata, ma avesse finto di scandalizzarsi solo per
farmi divertire. Non è corsa in bagno come avrei fatto io, quindi
suppongo fosse proprio quello il suo scopo.
Non
la capisco, a volte.
Dopodiché,
Roxanne ha continuato a stendere il colore sul pannello e io ho visto qualche
altro disegno contenuto nell’album. Gli ho trovati tutti molto belli e
accurati, ma non le ho detto niente. Lei, in ogni caso, non sembrava aspettarsi
alcun complimento.
L’ultimo
disegno, sommerso da ogni sorta di schizzo, in fondo all’album, era
quello di un uomo: portava gli
occhiali, aveva un sorriso gioviale, la mascella pronunciata e i denti
dritti. Era meno particolareggiato di quello di Madison, ma altrettanto ben
fatto.
«E
lui, chi è?», ho domandato,
sempre stando attenta che lei non si scordasse di me, come aveva fatto il
giorno precedente.
Roxanne
non si è voltata, come se sapesse già a cosa mi riferissi, senza
bisogno di assicurarsene con i propri occhi.
«Il
compagno di mia madre», è stata la sua risposta lapidaria.
La
sua voce aveva un che di tetro.
A parte qualche commento breve e fugace sul
tempo che andava peggiorando, Roxanne non ha aperto più bocca.
Reazione
strana, davvero, mi converrà approfondire l’argomento un giorno o
l’altro.
Più
tardi, ho salvato la mia messa in piega dalla grandinata che è scoppiata
all’uscita di scuola, grazie al passaggio di Jason. Avrei potuto chiamare
mio padre per farmi venire a prendere, o un taxi come faccio di solito, oppure
andare con una delle Gallinelle, ma ho accettato la sua proposta.
Sembrerà
una cosa stupida, ma non ho ancora preso la patente, visto che non ho nessuna intenzione di
mettermi a guidare una macchina, al momento. Ne sono terrorizzata e non so
nemmeno il perché, è assurdo! Temo sia una fobia come quella dei
ragni o degli spazi chiusi, anche se non ho alcun problema ad andare in auto
con qualcuno, l’importante è che non sia io a guidare. Non ci ho
mai provato nemmeno per gioco.
Lungo
la strada, ho visto correre Roxanne Miller che tornava evidentemente a casa a
piedi. La grandine, per quanto non fosse molto forte, le ha distrutto
l’ombrello. Mi è quasi,
e ripeto quasi, dispiaciuto per lei,
ma non mi sono fermata ad aiutarla, perché sapevo che Jason sarebbe
stato felice di accompagnarla (la ammira molto per le sue buone qualità,
a quanto ne so) e io, invece, volevo che si concentrasse solo su di me.
Mi
chiedo se sia arrivata a casa sana e salva…ma non sono cose che mi
riguardano, comunque.
Kate
***
Nuovo capitolo…ho voluto postarlo oggi, perché domani di sicuro sarò impegnata e non volevo lasciare il week-end senza aggiornamenti!
Ringrazio molto Pigna e Laprinc per aver detto che la storia sembra reale (a parte quel piccolo fraintendimento ;) ). Se da una parte questo mi stupisce (perché ho sempre l’impressione di esagerare nello scrivere di Kate, a volte), dall’altra mi rende enormemente entusiasta di scrivere e continuare la storia. Spero sempre che continuiate a seguirmi ^__^!
Saluti!
Angela